N.05
Settembre/Ottobre 2001
Studi /

Colui che vi chiama è fedele… (1 Ts 5,24)

Le parole conclusive della prima lettera ai Tessalonicesi riassumono non solo l’argomento dottrinale dell’epistola, ma tutta la concezione dell’apostolo Paolo riguardante la vita cristiana nell’attesa della venuta gloriosa del Regno (cfr. 3,12.13): la prospettiva escatologica viene alimentata dal progresso nella santità e dall’astensione da ogni forma di male (v. 22) nella quale i fedeli devono impegnare ogni sforzo. Ora, su questa generosa volontà umana viene invocata la sanzione efficace e determinante di Dio: il Dio della pace vi santifichi, sì da essere interamente perfetti (v. 23), potremmo, quasi letteralmente tradurre, e il vostro spirito, l’anima e il corpo siano custoditi integri, irreprensibili alla parusìa del Signore nostro Gesù Cristo (v. 23b): l’opera di santificazione è pertanto un’opera propria di Dio, un dono gratuito della sua bontà.

Per il cristiano non c’è, allora, alcun motivo di sgomento: fedele è colui che vi chiama, e lo farà! (v. 24). Nell’opera della redenzione, sia individuale che collettiva, è impegnata la fedeltà di Dio e la coerenza del suo disegno verso gli uomini. Senza l’azione preveniente e concomitante di Dio non c’è storia di salvezza; ma una volta che Dio chiama, l’uomo accoglie e collabora, fondandosi sulla sua azione. E l’azione di Dio non viene meno, perché Dio è fedele: pistoj o kalèn umaj: sta qui il fondamento della fortezza e della speranza cristiana e la particolare forma stilistica dell’apostolo ne fa una specie di grido di vittoria, il vertice della lettera.

La fedeltà di Dio alle sue promesse è il contenuto della rivelazione cristiana, “la fede cristiana ha il suo fondamento nella rivelazione di Dio all’uomo, compiuta nell’evento Cristo”[1]. Il Nuovo Testamento presenta Cristo come l’amato da Dio per eccellenza, il prediletto (Mc 9,7; Mt 3,17; Lc 9,35). Dio è il Padre di Cristo in un senso esclusivo e assolutamente nuovo: la filiazione divina costituisce il suo carattere personale. Ma l’amore del Padre verso Cristo abbraccia in lui tutti gli uomini, nel dono assoluto di se stesso a Cristo, Dio pronuncia il suo “irrevocabile sì” salvifico in favore degli uomini, e consegna per loro il suo stesso Figlio (cfr. 2Cor 1,18-20; Rm 5,8; 8,32). Il Figlio compie le opere del Padre, ma è soprattutto nell’offerta della sua vita, nel suo abbandono fino alla morte, “e alla morte di croce” (Fil 2,8) che egli realizza in pienezza il dono assoluto dell’amore: “appunto nel dono totale di se stesso a Dio per gli uomini, Cristo è definitivamente l’amato da Dio, il Figlio che ritorna al Padre attraverso l’obbedienza fino alla morte. In Cristo si identificano il dono assoluto di Dio e la risposta assoluta dell’uomo, la parola salvifica di Dio e la sua accettazione. Il messaggio di Cristo possiede un carattere unico, che manifesta l’aspetto trascendente della sua persona. Cristo non parla in nome di Dio come i profeti, ma personifica nella sua parola la parola stessa di Dio; identifica la sua persona e la sua missione con la presenza del regno di Dio nel mondo.”[2]

La rivelazione che Cristo ha realizzato è definitiva, come ci ricorda la Dei Verbum, Cristo si rivelò Figlio di Dio e ci rivelò il mistero del Padre con le sue “parole e opere” e soprattutto “con la sua morte e risurrezione” (DV 2.4). Paolo stesso ha visto nell’evento di Cristo la rivelazione ultima dell’amore salvifico di Dio (Rm 8,31-39; 2Cor 1,19-20): è un evento unico, definitivo, escatologico, è allo stesso tempo compimento e promessa, e fonda la speranza della salvezza futura come partecipazione alla gloria del risorto. Fin da ora siamo salvati nella speranza (Rm 8,24), perché il credente, nel dono dello Spirito di Cristo risorto, riceve l’anticipazione e la garanzia della salvezza futura (Rm 5,5; 8,9-17.39). La signoria di Cristo si sta compiendo nella storia per giungere alla propria pienezza alla fine dei tempi (1Cor 15,24-28; Col 1,15-19). 

La rivelazione compiuta una volta per sempre in Cristo, è attuata nel corso della storia nella vita della comunità credente, come anticipazione della manifestazione ultima di Cristo. Rivelazione, storia della salvezza, escatologia, teologia della speranza vengono così unificate nell’evento Cristo: il nucleo di tutto il Nuovo Testamento risiede nel proclamare che Dio ha compiuto e rivelato in Cristo la sua parola ultima e definitiva, come parola di salvezza. Cristo è l’eschaton[3] il Primo e l’Ultimo, colui che era morto ed è tornato alla vita (Ap 1,18) e l’escatologia è una “cristologia sviluppata”[4]: quanto dalla speranza può dirsi circa il futuro assoluto è prefigurato nell’avvenimento centrale della storia sacra che è Gesù Cristo.

Egli è, come leggiamo in Paolo, “la nostra speranza” (1Tm 1,1; Col 1,27), il fondamento e il contenuto, poiché è il luogo dove tutte le promesse di Dio hanno avuto il loro e il loro amen[5]. La condizione paradossale del cristiano è che i tempi escatologici sono già incominciati con la risurrezione di Cristo, il taglio della storia non appartiene al futuro, ma al passato: è la tesi questa di O.Cullmann espressa nella sua opera Cristo e il tempo[6], accolta dal Concilio Vaticano II e dalla teologia contemporanea. Cristo è il centro della storia, il centro del tempo, con la sua venuta, la sua predicazione, le sue opere e i suoi segni proclama che il regno di Dio è già venuto, quantunque affermi ugualmente che questo regno deve ancora venire. L’attesa rimane, ma il centro della storia si è spostato nel passato, c’è posto ancora per la speranza, anche se questa è radicata saldamente nella fede.

La speranza cristiana non è la pura attesa (l’aspettare) di qualche cosa che è prevedibile dalla ragione umana (futurologia), ma il rapporto interpersonale tra il Dio che in Cristo ha compiuto e rivelato la grazia assoluta della sua promessa definitiva di salvezza e l’uomo che si affida a questa parola ultima di Dio. Di conseguenza, il linguaggio dell’escatologia, ma anche dell’intera teologia, dovrà essere necessariamente il linguaggio della speranza, della fede che spera e della speranza che crede, e, in ultima istanza, dell’amore che crede e spera.

All’interno della riflessione teologica contemporanea e della vita ecclesiale suonano quanto mai pertinenti le parole di J.Moltmann riportate all’inizio della sua Teologia della Speranza: “Il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò anche rivoluzionamento e trasformazione del presente. L’elemento escatologico non è una delle componenti del cristianesimo, ma in senso assoluto il tramite della fede cristiana, è la nota su cui si accorda tutto il resto, è l’aurora dell’atteso nuovo giorno che colora ogni cosa con la sua luce. Infatti la fede cristiana vive della risurrezione del Cristo crocifisso e si protende verso le promesse del futuro universale di Cristo. L’escatologia è la sofferta passione suscitata dal Messia. Essa dunque non può essere solo una parte della dottrina cristiana; anzi tutta la predicazione e la Chiesa stessa nel suo insieme sono caratterizzate dal loro orientamento escatologico”[7].

Ha scritto recentemente in un suo libro G. Colzani riprendendo le tesi di Moltmann: “La teologia della speranza considera la rivelazione non come uno svelarsi e un mostrarsi di Dio, un divino dire su di sé, ma come la rivelazione di una promessa; abbandonata ogni concezione epifanica, Moltmann ha mostrato come ogni parola di rivelazione sia una parola di promessa. Con la promessa, Dio ci porta al di là di ogni nostra esperienza, si lascia dietro le cose vecchie e si spinge verso orizzonti mai visti prima. La promessa schiude la nostra vita al punto che la storia non è più il luogo di un continuo ritornare sulle stesse realtà, il luogo dove non capita nulla: nella nostra vita Dio si muove con noi verso qualcosa di nuovo e di grande. Le promesse non sono l’espressione di una verità, di una dottrina astratta; sono invece Dio stesso nel suo promettere, cioè nella potenza e nella fedeltà di quell’amore che ci accompagna. In quanto evento di salvezza, le promesse sono il fondamento di ogni teologia della speranza”[8].

Il linguaggio della speranza appartiene anche alle istanze del pensiero filosofico e, in particolare, della nostra epoca: già due secoli fa, I. Kant scoprì che l’interesse della filosofia ha il suo centro nella domanda su che cosa sia l’uomo[9], e ne individuò tre aspetti fondamentali all’interno della stessa domanda: che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?. La speranza è così struttura costitutiva dell’esistenza umana. “L’uomo vive in quanto aspira e spera” dirà E. Bloch nel nostro tempo[10], e prima di lui l’adolescente ebrea Anna Frank scriveva il 24 maggio 1944 sul suo famoso diario, dal suo nascondiglio: “…Amiamo ancora la vita; non abbiamo ancora dimenticato la voce della natura; abbiamo ancora speranza, contro tutto”[11].

“Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24): questa frase di Paolo esprime la situazione del cristiano, già salvato dalla morte e risurrezione di Cristo e che ha già ricevuto il dono dello Spirito come principio vitale e garanzia della risurrezione futura e ancora non giunto alla piena partecipazione nella gloria di Cristo. Frattanto il cristiano vive l’esperienza presente dell’adozione filiale, provocata dallo Spirito: l’esperienza, tradotta in speranza, vive e coglie anticipatamente la pienezza della salvezza futura. La speranza nasce dalla fede e “dall’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rm 5,5) o potremmo meglio dire la speranza è la fede che cammina sospinta dall’amore, secondo la felice intuizione di C. Peguy “Trascinata, sospesa alle braccia delle sorelle maggiori, che l’hanno presa per mano, la piccola Speranza. Cammina. Tra le sue grandi sorelle sembra farsi portare. Una bimba che non ha forza per camminare. E che riluttante, qualcuno trascina. Ma è lei che le fa camminare. E le trascina”[12]

L’escatologia è attesa e compimento, attesa di un compimento e compimento di un’attesa, un cammino verso la meta. Escatologia è tensione, è dinamismo, è speranza; l’escatologia, secondo una felice definizione di K. Rahner, è lo sguardo che l’essere umano, nella sua decisione spirituale di fede e di libertà, rivolge in avanti, verso la sua futura perfezione[13]. L’escatologia tratta allora, più specificatamente, del futuro dell’uomo. Non un qualsiasi futuro, bensì il futuro assoluto, lo stato ultimo dell’uomo (l’eschaton). L’escatologia è la riflessione credente sul futuro della promessa atteso dalla speranza cristiana. Tale riflessione ineludibile per il cristiano non solo in base alla sua credenza nelle scritture, ma anche in ragione della sua costituzione ontologica, che lo proietta costantemente verso i limiti del suo presente. Un uomo ancorato al presente, legato al motto epicureo del carpe diem, è un irresponsabile; un uomo volto al passato si trasforma, come la moglie di Lot, in statua, si cosifica e spersonalizza. L’indole personale e responsabile dell’uomo può essere mantenuta solo nell’apertura al futuro. La domanda circa il futuro si fa quindi pressante per l’essere umano, se vuole dare un senso alla sua esistenza attuale. Senza un certo sapere circa il futuro, il presente manca di significato. Di conseguenza il sapere escatologico interessa l’uomo non già per appagare la sua curiosità su ciò che suole chiamarsi l’aldilà, bensì per interpretare il suo al di qua.

C’è nel libro dell’Apocalisse, l’ultimo libro della Scrittura, il libro della “rivelazione di Gesù Cristo” come un grande affresco di teologia della storia “che trasmette uno straordinario messaggio di speranza nel Dio vivente, Signore del tempo, capace di parlare sempre di nuovo a chiunque cerchi il senso della vita e dell’intera vicenda umana per motivare l’agire, il soffrire e l’amare degli uomini in esse”[14]. Proprio l’Apocalisse riesce, più di ogni altro testo biblico, a coniugare, quasi come “una specie di grande rappresentazione teatrale”[15] il significato profondo della rivelazione, della speranza escatologica, della teologia della storia.

Scrive a tal riguardo B. Forte nel suo commento al testo giovanneo: “L’Apocalisse è vista come un modello ispirato di teologia della storia, che concentra la sua attenzione sul mistero pasquale di Cristo e rilegge nella sua luce la storia prima di Lui e quella dopo di Lui, dalla protologia all’éschaton… Si scopre così nel libro del Veggente di Patmos una teologia della speranza sotto forma di teologia della storia e se ne coglie il messaggio di promessa e di liberazione anche per le situazioni attuali di sofferenza, di sfruttamento e di dipendenza”[16]. Il libro dell’Apocalisse è la consolazione donata alla Chiesa perseguitata di ogni tempo dal Dio di misericordia, dal Dio fedele alle sue promesse: la visione di Giovanni e il messaggio che egli deve comunicare ai suoi fratelli nella tribolazione si riassumono in un unico volto, in un’unica parola: Gesù il Figlio, colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue (Ap 5,9). I nomi con cui Giovanni lo designa, ce lo mostrano presente in mezzo a noi nella pienezza del suo mistero di morte-risurrezione-glorificazione: Egli è il Testimone fedele (cfr. Ap 1,5; 3,14; 19,11), colui che ci ha tanto amati da dare la sua vita per noi, in una fedeltà che l’odio non ha potuto infrangere, né la morte spezzare.

Egli è il Primogenito dei morti (cfr. Ap 1,5), il Vivente (cfr. 1,18), l’Agnello pasquale (cfr. 5,6.12; 6,1.16; 7,9.10.11.15.17), il Primo e l’Ultimo (cfr. 1,17; 2,8; 22,13); egli è il Signore dei re della terra (cfr. 1,5; 6,15, 17,2.18; 18,3.9; 21,24), colui che, sconfitta la morte, ascende alla destra del Padre nella gloria. Questi attributi, che abbracciano cielo e terra, fanno del passato, del presente e del futuro un’unica realtà, custodita nelle mani di un Dio onnipotente e misericordioso. Se la sua onnipotenza ci sovrasta, la sua misericordia ci fa vivere.

Il libro della storia rimane per noi sigillato, se non vi è chi per noi lo legga e ce ne sveli il mistero: l’Agnello immolato apre uno dopo l’altro sei sigilli (cfr. Ap 6,1-7,17); poi, prima dell’apertura del settimo (cfr. Ap 8,1), c’è un intermezzo, in cui ci è dato di contemplare la perenne liturgia del cielo: appare sulla scena della Gerusalemme celeste il popolo di Dio formato dalle generazioni passate, l’antico Israele e si profila poi, in prospettiva, il nuovo Israele, la moltitudine immensa dei salvati sui quali viene impresso il sigillo del Dio Vivente (cfr. Ap 7,2-4). Ecco allora che l’Apocalisse si presenta come il libro della speranza collettiva, il tempo della tribolazione è passaggio che prepara l’avvento della gloria: esso durerà finché tutti i segnati avranno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello (Ap 7,14)[17].

L’icona del Cristo dell’Apocalisse, come ad esempio recentemente ho potuto ammirare nel maestoso “Portico della Gloria” della cattedrale di Santiago de Compostella, è il segno della fedeltà creativa di Dio alle sue promesse, in Lui la lunga attesa dei secoli si è compiuta, la salvezza è stata donata, le porte del cielo si sono riaperte, la riconciliazione tra Dio e l’uomo è stata segnata con il sigillo di un amore indefettibile. Tuttavia, ogni uomo che nasce deve ancora liberamente accogliere il dono di grazia per entrare nell’economia della salvezza. Tra il già della salvezza offerta e il non ancora della pienezza di beatitudine, l’uomo vive una nuova, più acuta e definitiva attesa, quella della venuta di Cristo nella gloria.

L’Apocalisse ci educa a mantenere viva la speranza e ardente il desiderio, in modo da essere in questo mondo autentici pellegrini con il cuore proteso verso la meta, all’incontro svelato con il Signore. Dobbiamo continuamente chiederci se davvero il cuore della comunità ecclesiale è proteso a questo arrivo di Cristo, se è realmente in ascolto per comprendere sempre di più, attraverso le trame complicate della storia, il senso definitivo degli avvenimenti, che tante volte sembrano assurdi, paradossali e sconcertanti.

 

 

 

 

Note

[1] Alfaro J., Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia1986, 9.

[2] Alfaro J., o.c., 98

[3] Cfr. Biffi G., Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984, 21ss.

[4] Bathasar H.U. von, Lineamenti dell’escatologia in Verbum Caro, Morcelliana, Brescia 1975, 285ss.

[5] Cfr. Ruiz de la Pena J., L’altra dimensione. Escatologia cristiana, Borla, 1981, 25.

[6] Cullmann O., Cristo e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965, 106ss.

[7] Moltmann J., Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1964, 10.

[8] Colzani G., La vita eterna, Mondadori, Milano 2001, 34-35.

[9] Kant I., Critica della ragion pura, vol. II, Laterza, Bari 1977, 612s.

[10] Cfr. Alfaro J., Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, 192.

[11] Citato da Tamayo-Acosta J., L’escatologia cristiana, Borla, Roma 1996, 25.

[12] Peguy C., Il portico del mistero della seconda virtù, in Peguy, Nuova Accademia Editrice, Roma 1959.

[13] Rahner K., Nuovi saggi, vol. V, Edizioni Paoline, Roma 1975. 

[14] Forte B., Apocalisse, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 5.

[15] A cura di Dianich S., Sempre Apocalisse. Un testo biblico e le sue risonanze storiche, Piemme 1998, 17.

[16] Forte B., o.c., 26.

[17] Cfr. Forte B., o.c., 34.