N.02
Marzo/Aprile 2022

Grazia che salva

…hai trovato grazia presso Dio (Lc 1,30)

La chiesa di Santa Maria degli Angeli si trova alle spalle di piazza Plebiscito, risalendo la collina di Pizzofalcone. Proprio su questa collina venne fondata dai coloni greci di Cuma l’antica Parthènope. Alla fine del Cinquecento l’area si trovava fuori le mura, venne integrata nel perimetro urbano solo quando la città venne ampliata nel XVI secolo per volere del viceré don Pedro de Toledo. Questo ampliamento provocò una migrazione delle famiglie aristocratiche verso i luoghi più alti della città e anche i teatini, come altri ordini religiosi, cercarono di acquisire nuovi appezzamenti di terreno ed edifici. La principessa Costanza del Carretto Doria aveva acquistato dai gesuiti un palazzo con giardino, e lo aveva donato ai teatini perché ne facessero un tempio dedicato alla Vergine, ma fu solo dopo la sua morte, nel 1591, che furono mobilitati i fondi. L’11 aprile del 1600, venne posta la prima pietra su disegno dell’architetto teatino Francesco Grimaldi. I lavori terminarono dieci anni dopo e tutta la parte decorativa venne sviluppata successivamente.

 

Grimaldi, in aderenza ai principi della Controriforma, fonde pianta centrale e longitudinale in un edificio a croce latina: tre navate, ma con due ampie cappelle ad affiancare l’abside rettilineo, che fanno sì che la chiesa risulti inscritta in un rettangolo aureo. Oltre la cupola, che è il culmine visivo dell’edificio sacro, entrando nel coro, veniamo trasportati in uno scenario fuori dal tempo. Al di sopra degli stalli lignei, in questo spazio celato destinato alla preghiera della comunità, campeggiano tre enormi tele opera del pittore teatino Francesco Maria Caselli, cremonese, dipinte tra il 1641 e il 1642. Quella centrale, visibile anche dalla navata centrale, incornicia una tela preesistente, della scuola del Veronese, una Madonna col Bambino, Regina degli angeli. La corona è un simbolo nuziale, Maria come immagine della Chiesa è sposa di Cristo e immagine dell’umanità che trova grazia presso Dio. Gli angeli presentano la tela a coppie, in un invaso architettonico che sembra proseguire nello spazio reale della sagrestia.

 

Le altre due tele narrano la storia di due eroine dell’Antico Testamento che sono prefigurazione di Maria, Giuditta ed Ester. Con la prima siamo condotti a Betulia alle prime luci dell’alba, una porta si apre sulla destra. Aprite subito la porta: è con noi Dio, il nostro Dio (Gdt 13,11). Lo sfondo architettonico occupa due terzi della tela e Giuditta sta in piedi sulla base di una colonna, lo spigolo del plinto rivolto verso l’osservatore. Caselli la dipinge in relazione con l’enorme colonna che sta sulla sinistra. Parte per il tutto, è insieme colonna e tempio che rivela la presenza del Signore, come Maria, raccordo tra cielo e terra. Risuona l’accorato appello di Giuditta, espressione di dissenso per la decisione degli anziani di capitolare all’assedio di Oloferne: Dimostriamo ai nostri fratelli che la loro vita dipende da noi, che le nostre cose sante, il tempio e l’altare, poggiano su di noi (Gdt 8,24). Come una sposa, adorna di gioielli, Giuditta va all’accampamento nemico con un’ancella e, al termine del banchetto che il generale aveva fatto preparare nel tentativo di sedurla, lo uccide. Simbolo di una bellezza che libera, con ancora la scimitarra insanguinata e la testa di Oloferne tra le mani, Giuditta distoglie l’attenzione da sé. Invita la folla accorsa a lodare Dio per questa vittoria. Il capo reciso è al centro, sulla mediana della composizione, rivolto verso il basso, Giuditta invece è tutta proiettata verso l’alto. In questa tensione tra opposti sta l’emblema della vittoria del bene sul male. È vestita di bianco e azzurro, colori dell’Immacolata, un rimando alla Nuova Eva, riparatrice del peccato, che schiaccia la testa del serpente (cf. Gen 3,15).

 

Se guardiamo alla tela di destra, le sorti del popolo si risolvono ancora per intercessione di una donna. Siamo nella sala del re persiano Assuero, seduto in posizione sopraelevata sotto un baldacchino rosso. La gigantesca serliana accentua questa dimensione del potere che sembra sopraffare la figura di Ester, minuscola, vestita di blu, che viene meno davanti al suo sposo. Il suo nome significa “nascosta”, era un tempo di esilio per gli ebrei, di una fede vissuta nel silenzio. Nel testo ebraico non si fa mai menzione di Dio, eppure tutta la storia di Ester è permeata di questa presenza. Aman, perfido consigliere, decide di far sterminare il loro popolo perché il cugino e tutore di Ester, Mardocheo, si era rifiutato di riverirlo. Convinta da Mardocheo, Ester va, tutta tremante, dinanzi al re, rischiando la morte perché non le era consentito presentarsi senza essere stata chiamata. Nel dipinto, Ester sviene, e il re, dal volto in ombra, punta il suo scettro d’oro verso di lei concedendole grazia. Anche qui sarà un banchetto a ribaltare la situazione, anzi due banchetti, visto che siamo nello spazio dietro l’altare ed è immediato pensare all’Eucaristia. Durante il secondo banchetto, Ester prende coraggio e chiede salvezza, rivelando così la sua identità. Aman viene impiccato al palo che era destinato a Mardocheo, ma si scopre che il suo editto non può essere revocato. Non si può fuggire la sofferenza, la morte. Viene però concessa al popolo la possibilità di difendersi con un altro editto in loro favore. Ci viene proposta una riflessione sull’esistenza del male e la presenza nascosta di Dio. Davanti a queste opere, la fede smette di essere un fatto personale, siamo invitati a entrare in scena. Giuditta, Ester e Maria, in questo coro, esortano alla responsabilità a custodire e intercedere per i fratelli, non solo con la preghiera, ma con la vita.