N.04
Luglio/Agosto 2022

Maria Carola Cecchin

Consacrazione “grembo di vita”

Nel novembre 1925, un piroscafo sta viaggiando dall’Africa all’Europa e si trova nel Mar Rosso. È allora che la traversata viene segnata da un lutto: muore la suora Cottolenghina salita a bordo per rientrare alla Casa Madre di Torino – la “Piccola Casa” voluta da san Giuseppe Cottolengo –. Solo un lenzuolo avvolge quel 13 novembre il suo corpo che, senza ulteriori protezioni, viene gettato per ragioni sanitarie in mare. Terminava così la vita terrena di suor Maria Carola Cecchin, veneta d’origine e africana d’adozione. Diciannovenne – dopo non essere stata accolta per motivi di salute dalle suore Dorotee di Vicenza – aveva iniziato il postulandato tra le Cottolenghine, a Torino, il 27 agosto 1896, per emettere la professione religiosa il 6 gennaio 1899, solennità dell’Epifania. Quel giorno suor Maria Carola aveva pregato così: «Che il mio corpo si consumi come questa cera, o Gesù, scompaia dopo aver tanto fatto e sofferto, né di me resti traccia quaggiù come nulla resterà di essa».

I suoi primi anni di vita religiosa la vedono in un collegio a Giaveno, poi presso la “Piccola Casa” nel capoluogo piemontese. Sta in cucina, suor Maria Carola, lì dove tutto è concretezza e si rimane nascosti, ma a nutrire gli altri, a favorire la loro convivialità. Qui impara la rinuncia perfetta a se stessa, applicando il motto paolino tanto caro al Cottolengo: “Caritas Christi urget nos”. Il giorno in cui formula la richiesta ufficiale per le missioni, di nuovo dichiara: «[…] io offro fin da questo momento tutta la mia vita». Viene mandata in Kenya, terra d’Africa che raggiunge con cinque consorelle e tre padri della Consolata; terra dove tutto è agli inizi e Limuru, Tuthu, Iciagaki, Mugoiri, Wambogo e Tigania-Meru sono i luogi del suo sostare, con quei loro nomi difficili a un occidentale, in un paese dove tutto va di nuovo appreso e la missione muove i primi passi.

Suor Maria Carola Cecchin diventa superiora. Parte col suo cappello di sughero, il bastone dal puntale in ferro, calzature grosse per le camminate: è una donna alta e decisa, in cui a stento si riconosce la giovane che era parsa inadatta alle Dorotee per motivi di salute. Di villaggio in villaggio, fa catechismo, visita i malati. Quando scoppia la terribile “Spagnola”, è colpita lei stessa ma, nonostante la forte febbre, continua a prodigarsi per i malati, assiste i morenti, amministra battesimi…

Trova spesso condizioni di grande povertà: «La casa è una baracca, una sola padella funge da pentola: ma a poco a poco, viene eretta la casa in legno». Di lei si dice, con parole che ne rilevano l’alto profilo umano e spirituale e il grande equilibrio: «Donna saggia e prudente: attiva, ma non dissipata; seria, ma non ruvida; schietta, ma non imprudente; di pietà luminosa e soave». Così, mentre, da “baracca”, la casa diventa in legno; è tutto uno strutturarsi della missione e del suo tessuto relazionale quello che Maria Carola accompagna e favorisce. In missione, aveva iniziato da ciò che sapeva fare: la cucina. Poi ancora dalla cura dell’orto, dall’abbellimento del cortile, dal rendere abitabili gli spazi. Tanti cominciano a ricorrere a lei, soprattutto nelle difficoltà: così il cuore stesso di suor Maria Carola si fa casa, accoglie e ospita vite, le comprende profondamente, le rimette al mondo.

Quando il Gran capo Karoli si accorge che questa missionaria «cucinava molto meglio delle sue numerose mogli», iniziò a inviarle ogni giorno tante vivande. Per lui suor Maria Carola aveva un enorme rispetto: con la pazienza e la presenza ne inclinò il cuore alla fede. Tiene così altre vite nel cuore, qui le accoglie e le genera. Ma tante vite suor Maria Carola Cecchin le tiene anche tra le “mani”: soprattutto quelle povere e indifese. Una delle sue più belle foto la ritrae con due neonati in mano: uno per mano, così piccoli, così minuscoli quasi da non vedersi. Di lei è stato detto: «Donandosi interamente a Dio, […] non aveva certo rinunciato al sublime senso della maternità, anzi lo rivendicava a sé con tutto il suo peso, le sue conseguenze, le sue angosciose trepidazioni»; «le sue mani [erano] grembo di vita». Eppure queste mani che consolano e reggono sono solo strumento, Maria Carola lo sa bene: «Gesù muove i cuori, Gesù illumina le menti; Gesù è il gran Ladro d’amore […]».

In missione patisce intanto non poche fatiche: le conseguenze del Primo Conflitto Mondiale; la malattia; difficoltà tra le suore del Cottolengo e i padri della Consolata, con la successiva decisione della Chiesa di richiedere il rientro delle Cottolenghine perché fossero le suore della Consolata a prenderne il posto. Le consorelle cominciano allora a riprendere la via del ritorno – quella via di Torino, della Casa Madre, dove proprio suor Maria Carola aveva in precedenza insistito venissero chiamate le malate per «godere un po’ di paradiso» –. Serviva però chi restasse per preparare il passaggio della missione femminile dal Cottolengo alla Consolata. Maria Carola sceglie l’ultimo posto. Dice: «Qualcuna dovrà essere l’ultima, e questa sarò io». In ogni difficoltà, aveva preso l’abitudine di elevare il pensiero al Cielo e lo faceva nella sua parlata veneta d’origine: “Na bôna mort a pagrà tut”, “una buona morte pagherà tutto”.

Lei, originaria dell’Italia del Nord, aveva carnagione scura, labbra sporgenti, lineamenti che risultavano particolarmente familiari alla sua gente del Kenya; la ritraggono ancora oggi – incredibilmente, e quasi in contraddizione alle leggi della natura – come una veneta dal volto africano, uniformata ai “suoi” in tutto, sino a condividerne le fattezze. Quando finalmente parte, nell’autunno del 1925, troppo ormai si era spesa: trovano allora sorprendente attuazione le parole della sua offerta il giorno della Professione religiosa, quando aveva chiesto di essere tutta consumata e che di lei nulla rimanesse. Nasce infatti al Cielo in viaggio, né potrà mai riposare nella terra: «Come acqua versata» (cf. Sal 22,15) aveva dato tutto, accettando fino in fondo che tutto le fosse tolto.

Su questo “niente” nascono presto grandi cose: il perdurante ricordo, ricche testimonianze, la fama di segni. C’è anche il miracolo, approvato da papa Francesco e che porterà alla beatificazione: il ritorno alla vita, dopo 30 minuti, di un neonato venuto al mondo senza segni vitali, senza attività cardiaca, senza tono muscolare…: un piccolo bimbo come quelli che lei aveva tenuto tra le mani, nato su una macchina, in viaggio, senza presidi medici che potessero intervenire. Se non la preghiera. Suor Maria Carola diceva: «In fin dei conti, Essa – la Divina Provvidenza – ci tiene a non far cattiva figura». E così è stato sempre.

 

«Per questo dolore, anime o Gesù!
Per questa disdetta, anime o Gesù,
per la fame nostra e per la nostra sete,
anime, o Gesù
»

Parole di suor Maria Carola Cecchin

 

Maria Carola (Fiorina Cecchin) nasce a Cittadella in provincia di Padova il 3 aprile 1877 e muore nel Mar Rosso il 13 novembre 1925 a 48 anni. Suora del Cottolengo e missionaria in terra africana, fu in Kenya superiora umilissima e materna che della sua vita “itinerante per amore” fece dono integrale, testimoniando la tenerezza e la radicalità di una vera donna cristiana. Il Santo Padre Francesco ha riconosciuto il miracolo attribuito alla sua intercessione e si attende ora la beatificazione fissata il prossimo 5 novembre in Kenya. Per conoscerla: A. Bossetti, Beata Suor Maria Carola Cecchin, Missionaria Cottolenghina in Kenya, Velar, Gorle 2022, https://www.cottolengo.org/index.php/suor-maria-carola/; http://www.santiebeati.it/dettaglio/94995.