N.04
Luglio/Agosto 2022

Un tripudio di salvezza

Chi entra in San Vitale si ritrova in uno spazio imprevisto e imprevedibile, in uno spazio “altro”, sacro a tutti gli effetti. 

La basilica ha una pianta centrale ottagonale ed è stata commissionata dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo; il nucleo è formato da uno spazio centrale che si sviluppa in altezza ed è sormontato da una cupola, intorno ad essa corre un ambulacro su due livelli dove sono presenti sette esedre, l’ottava è più profonda perché contiene il presbiterio insieme all’abside.  

L’ingresso principale si trova all’interno di un nartece (che solo a Ravenna prende il nome di àrdica); fino a un decennio fa era possibile l’accesso da questa entrata: il visitatore si trovava d’innanzi l’abside ed aveva un effetto spaziale dell’interno del tutto longitudinale; oggi invece si accede da nord-est e, grazie all’immissione diretta nel deambulatorio, la concezione spaziale è quella di un ambiente circolare. In San Vitale tutto l’intento aereo consiste nel dilatare l’ottagono, negarne la forma geometricamente chiusa e facilmente apprendibile, per indirizzare lo sguardo verso l’alto, alla luce che entra dalle finestre del tamburo e fissarsi infine sullo sfavillio variopinto dei mosaici nel presbiterio. 

Gesù Cristo ci guarda negli occhi dal centro dell’abside, seduto sul globo azzurro del cielo, mentre porge con la mano destra al martire soldato Vitale la corona della vittoria sulla morte; nell’altra mano tiene il rotolo apocalittico dei sette sigilli. Sul lato destro dell’abside sta in piedi il vescovo Ecclesio, il quale, nel 506, diede inizio alla costruzione della basilica che è raffigurata in miniatura fra le sue mani. Due angeli, autentici intermediari iconografici fra Dio e gli uomini, introducono Vitale ed Ecclesio alla presenza di Cristo; a fungere da pavimento c’è un rigoglioso giardino, simbolo edenico, disseminato da rose e gigli bianchi. Unicum iconografico è la rappresentazione dei quattro torrenti del paradiso che scaturiscono da sotto il globo azzurro, questi sono infatti cosparsi di fiori, a indicare un tripudio di bellezza e vitalità che germoglia visibilmente, perfino nelle acque, ogni volta che la terra si lascia toccare dal cielo. I sette sigilli del rotolo ci ricordano che la Creazione continua il suo operato fino alla fine dei tempi e che per essere compiuta c’è bisogno della parola benedicente di Dio (il rotolo), resa comprensibile e tangibile dalla vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo.  

Nelle pareti laterali, i mosaici si dividono in due registri: in quello superiore si vedono, ai lati delle trifore, gli evangelisti accostati ai loro simboli, mentre in quello inferiore sono riconoscibili alcuni episodi della vita di Mosè, Abramo, Abele e Melchisedek, corredati dalla figura dei profeti Isaia e Geremia: decorazione e architettura sembrano suggerire che non esiste Nuovo Testamento senza l’Antico, che quest’ultimo sorregge il primo dal quale è portato a compimento. A compiersi definitivamente è proprio la promessa illustrata nella lunetta di sinistra, quella che mostra Abramo, Sara e Isacco (Gn 18 e 22).  

Nell’ora più calda del giorno, quando il caldo obnubila i pensieri e fiacca le membra, si presentano ad Abramo seduto sulla soglia della sua tenda tre viandanti che chiedono ospitalità. Subito Abramo, vestito con la tunica corta dei servi, porge loro un vitello mentre tre focacce sono già pronte sul tavolo; i tre viandanti fanno cenno ad Abramo di accomodarsi a tavola: il pranzo è già preparato. Ecco che questa immagine che affaccia sul presbiterio ci regala una catechesi sulla liturgia eucaristica quale banchetto a cui siamo co-invitati, seduti alla stessa tavola di Dio. Solo dopo questo episodio, solo dopo l’accoglienza che la coppia riserva ai tre stranieri -Dio nelle tre persone trinitarie- può avvenire il compimento della promessa di un erede nel grembo di Sara: per accogliere qualcuno “dentro” di sè, occorre prima accogliere “fuori”. Così facendo, Dio fa entrare Abramo e Sara nel nome di Gesù Cristo (“Dio Salva”): presentandosi come bisognoso di ospitalità e di salvezza, il Signore rende la coppia “salvatrice” come solo Lui può fare, riempiendo in tal modo quella promessa rimasta incompiuta. Senso di questa promessa è Isacco, “il figlio del riso”, come a ricordare l’itinerario che ha percorso la madre per arrivare a concepirlo: una risata di incredulità alle parole impossibili di Dio, perché a volte Dio provoca la nostra risata, ma ogni sua parola si avvera, a motivo del suo Nome. Questo figlio lungamente atteso è raffigurato a destra su un altare, nell’atto di essere sacrificato dal padre che però è distratto dalla mano/voce di Dio che lo ferma. Al suo posto, verrà offerto l’ariete che si vede in basso. La storia di Isacco è la storia di quel figlio che viene risparmiato dal sacrificio; la storia di Gesù è la storia di quel figlio che attraversa il sacrificio e ne esce vivo.  

Mosè, Abele, Melchisedek, rappresentati nella lunetta di destra, parimenti alla vita di Abramo, parlano di una promessa realizzata: la liberazione dalla schiavitù, la redenzione del sangue ingiustamente versato, la sete di benedizione per le battaglie vinte e di misericordia per quelle perse. Tutti questi personaggi sono inclusi nell’antica preghiera offertoriale che recitiamo ancora oggi nelle celebrazioni solenni perché le nostre offerte si uniscano a quelle di chi ci ha preceduti nella certezza che sono già state accolte.