N.06
Novembre/Dicembre 2022

L’arte biblica di “scegliere la vita”

Laicità e ortodossia convivono efficacemente in “Alla vita” verso il desiderio di un autentico progetto di vita

Una carovana di ebrei ultra ortodossi di Aix-Le-Bains scende in Puglia ogni anno alla ricerca del cedro perfetto in una masseria di fiducia per la Festa delle Capanne, il Sukkoth che, secondo la prescrizione di Levitico 23, 41-43, deve durare ben sette giorni. Tra i precetti vi è anche la necessità di celebrare la festa con una serie di vegetali: la palma, il salice, il mirto e, per l’appunto, il cedro che, secondo una delle interpretazioni della festa, rappresenterebbe il cuore della persona. Ad assecondare questa ricerca millimetrica c’è Elio, e il suo frutteto, coltivato ancora come un tempo, secondo i dettami ereditati dal padre. Alla figura paterna è dedicato anche l’incipit del film per bocca della tormentata Esther, l’altra protagonista dell’opera diretta dall’attore francese Stéphane Freiss. Tradire il padre è, infatti, la “virtù” scomoda verso la quale tendono i due protagonisti, lontani per età e per appartenenze, ma non per sentire. Entrambi, nel tempo che è dato loro di condividere, tra paesaggio, riti religiosi e routine più laiche, percepiscono la rigidità della vita che hanno scelto o che hanno scelto altri per loro o che pensano di aver scelto. Un tradimento paterno che si configura come l’obbligata necessità di un affrancamento per abbracciare con sincerità la ricerca della propria persona. Esther e Elio riconoscono con eccitato pudore, un ossimoro estetico che rende l’opera degna di nota, le mura che delimitano il loro spazio di vita. Da una parte, la terra, il punto cardinale del padre di Elio e, dall’altra, la fede, l’unico orologio del padre di Esther: è tutta qua la vita? L’interrogazione profonda che si dipana nel film è guidata dalla bussola preziosa di Deuteronomio 30,15-20 citata nel prologo. Cosa significa «scegli, dunque, la vita», dalla prospettiva di una giovane ragazza tormentata dall’esondazione di regole della sua comunità e di un uomo maturo, separato, con figli e con il cappio di una terra che lo tiene distante dagli affetti e dalle responsabilità genitoriali. Più che l’approdo a una scelta definitiva, anch’essa sempre parziale, “Alla vita” – il titolo recupera proprio la lode “L’Chaim” dello Sukkoth – mette in scena piuttosto l’obbligato discernimento vocazionale, quel sentiero irto quanto bello che ogni persona prima o poi deve imboccare, perché senza di esso nessuna capanna potrà mai fare memoria dell’uscita dall’Egitto (e di tutte le altre partenze di questo mondo). 

 

Schermi paralleli: Non un film, ma una serie Tv, sullo stesso tracciato di “Alla vita”. È “Unorthodox” (2020, Netflix), miniserie tedesca diretta da Maria Schrader che prende le mosse dal racconto biografico di Deborah Feldman. È il percorso di ribellione e riscatto di una giovane donna, Esty (Shira Haas), che abbandona la comunità ultra-ortodossa chassidica di Brooklyn per Berlino, sulle tracce della madre e di un futuro nella musica. Un ritratto femminile struggente e luminoso (di Sergio Perugini).