N.06
Novembre/Dicembre 2022

L’arte dei funamboli

«Voi vi truccate?» chiese il malato terminale alle infermiere; e proseguì: «Anche io. Entro sei mesi ve ne darò la dimostrazione. Sarò giallo, come un limone! Sapete – vero? – che un limone non serve se non quando è giallo?».

Il dialogo risale al dicembre del 1950, e avviene in un ospedale di Viedma, una cittadina “alla fine del mondo” nel sud dell’Argentina. Il protagonista è Artemide Zatti, un salesiano coadiutore, giunto ormai alla fine dei suoi giorni, a causa di un tumore al fegato. È un salesiano che non ha perso il buon umore di una vita e, scherzando sulla propria malattia e sulla morte ormai prossima, si rivolge alle infermiere, sempre attente al trucco che abbellisce il volto, paragonandosi un po’ a loro e un po’ a un limone. Il trucco di Artemide però sarà giallo, per il decorso del tumore al fegato, che – generosamente – insieme a tutto il resto, regala anche l’itterizia.

L’analogia con il limone, è – per un’eleganza della Provvidenza – più pregnante di quanto sembri, e capace di andare ben oltre le intenzioni di chi l’ha usata: come il limone solo quando è maturo può essere spremuto, così anche la vita di Artemide, grazie a questa malattia, giunge a piena maturazione, per essere spremuta, fino all’ultima goccia. A sigillo di questa pienezza, con una punta di originalità, questo coadiutore salesiano arriverà persino a redigere il proprio certificato di morte, lasciando libero solamente lo spazio riservato alla data del decesso, che toccherà ad altri riempire (15 marzo 1951). La vita di un infermiere infaticabile così non finisce, si compie, nella pienezza dell’amore di Dio, per il prossimo.

Un salesiano speciale, questo Artemide, non solo per il finale con il botto, ma per una generosità che sorprende dall’inizio. Si avvicina ai figli di don Bosco con il desiderio nel cuore di diventare, tra loro, religioso e sacerdote; i piani di Dio però non assecondano le sue aspirazioni: proprio nella comunità che lo accoglie per il discernimento vocazionale, mentre si prende cura di un sacerdote malato di tubercolosi, contrae lo stesso male. Sembra che il morbo non perdoni, ma Artemide, incoraggiato da un missionario di grande fede e generosità, chiede alla Vergine la guarigione, promettendo, se sanato, di dedicare tutta la sua vita agli ultimi e ai malati. 

Arriva la grazia, e Artemide mantiene la parola, sarà salesiano, ma non sacerdote, bensì coadiutore, e si occuperà per decenni di un ospedale, fondato a Viedma dai figli di don Bosco per rispondere alle emergenze sanitarie di quella regione della Patagonia argentina, allora priva di servizi di assistenza sanitaria.

Per un curioso disegno di Dio, Artemide Zatti è il primo salesiano ad essere proclamato santo (9 ottobre 2022) non in ragione del martirio di sangue ma per l’eroica testimonianza resa con una vita religiosa piena e feconda. Quale indicatore migliore per dire che la vita religiosa, in questo caso vissuta nello spirito di don Bosco, dà pienezza a un’esistenza e genera santi?

Chi è dunque il salesiano coadiutore? Se ci mettiamo alla scuola di Artemide Zatti, è un religioso che apprende in pienezza, dal vangelo di Gesù e dalla vita di don Bosco, l’arte del funambolo, capace di percorrere la via stretta del Regno additando il cielo ma con un solido ancoraggio alla terra.

 

 

Cinque elementi essenziali della vita religiosa, brillano così in questa vocazione, alla quale don Bosco dà una specifica fisionomia.

Una via stretta, perché il Signore non fa sconti, chiede levità e pulizia interiore, liberazione progressiva da ingombri e pesi che, sulla fune del Regno, si manifestano per quel che sono, non ricchezze, ma zavorre.

Una via da percorrere con equilibrio. E l’equilibrio viene, paradossalmente, dal coraggio di camminare: il vigore di ogni passo è infuso dallo Spirito di Dio, ma se non si accondiscende alle sue mozioni si precipita; chi si ferma è perduto, nel senso più drammatico del termine.

E l’equilibrio è sostenuto dalla meta: i piedi san fare il loro mestiere, e cercano istintivamente la corda, gli occhi non devono occuparsi di quello, altrimenti è la fine.

Così questa vocazione costringe gli altri a guardare in alto: il funambolo è un punto esclamativo nel cielo. Don Bosco voleva i coadiutori, i religiosi fratelli delle sue comunità, esperti nell’arte di volgere all’insù i nasi dei ragazzi, perché questi aspirassero al cielo, quale fosse il mestiere nel quale si cimentavano, accompagnati da maestri consacrati a Dio per il loro bene.

Consacrati dunque, consacrati a Dio e capaci di vera maestria, appresa alla scuola del mondo, frequentata con il cuore di Dio. Perché Dio ha giurato fedeltà a questo mondo, per inspirarvi il suo Spirito, attraverso la maestria umana. 

Così il coadiutore salesiano dà volto e mani e carne a un paradosso che più grande non potrebbe essere: il paradosso della via stretta che solca il cielo perché robustamente ancorata alla terra, essendo la terra a necessitare del respiro del cielo.

I coadiutori che hanno capito don Bosco hanno annodato la fune ciascuno al fusto di alberi diversi: l’infermiere e il panettiere, il musico e il tipografo, l’ingegnere e l’ebanista. Tutti però hanno condiviso la meta, il respiro del cielo, l’Unico che sa fare di una tecnica umana un’arte di Dio, per la salvezza dei suoi figli.