N.03
Maggio/Giugno 2023

Vocazione: questione di mistero, questione di cimento

Stare nella realtà accettandone il travaglio

Nell’ultimo anno le studiose e gli studiosi di pedagogia hanno cominciato ad interrogarsi su un fenomeno nuovo ed assai particolare, in merito alle scelte professionali dei giovani italiani negli ultimi anni: la riduzione del numero di chi sceglie di diventare educatore o di dedicarsi a professioni caratterizzate da relazione d’aiuto.

La questione è delicata e complessa, poiché riguarda certamente le condizioni socioeconomiche riservate a chi si occupa di educazione nei contesti professionali, ma credo che oltre a studiare la fuga di educatori legata a motivi contrattuali, occorra interrogarci a proposito della “riduzione vocazionale” di educatori, ovvero a domandarci perché questa scelta professionale abbia cominciato a rarefarsi nell’immaginario simbolico dei giovani, ed anche dei loro genitori che in alcuni casi avvertono non fierezza, ma persino diminutio rispetto alla prospettiva che il proprio figlio sogni di lavorare nel bel mezzo dell’abisso degli altri.

È una questione culturale rilevante che può intrecciare anche le domande intorno alle scelte vocazionali in ambito religioso.

Il tratto crescente è a mio parere la tendenza a sognare il futuro, e la felicità, come assenza di “cimento”. Uso questa parola antica che forse farà sorridere, ma la scelgo proprio per identificare il senso di una attitudine che appare obsoleta: stare nella Realtà accettandone il travaglio.

Negli ultimi anni, affascinati dalla retorica – non solo cinematografica – del “se hai un sogno, inseguilo”, ci siamo narrati, e abbiamo narrato a bambini e giovani, una vita nella quale la felicità e la realizzazione coincidono con la “presa”, misurandola e misurandoci con parametri di “soddisfazione”.

 

Misurare la Vita in indici di gradimento

In questa narrazione, i limiti non sono integrati come norma del quotidiano, come parte naturale di ogni storia, di ogni vita. Li consideriamo accidenti ed eccezioni che quando arrivano stanno lì a dire che siamo stati ingiustamente attaccati da una sorte crudele, o da un dio  che dunque in tal modo prova la sua inesistenza, perché se ci fosse non permetterebbe limite, dolore alcuno.

Viviamo come se i limiti non ci fossero o, meglio, come se non dovessero esserci: ma impegnandoci a non vederli non facciamo sì che essi smettano di esistere ma, anzi, che aumentino il loro potenziale di deflagrazione: sicchè quando, nella vita come nel lavoro, li incontriamo, quelli – dall’essere fino a quel momento impensabili – occupano tutto il pensabile, diventano tutto il nostro pensato: tendiamo a percepirli come totali, non vediamo altro, se non come e quanto quell’ostacolo – di qualsiasi misura – ci sembri letale.

 Così succede che sembri letale, mortale, che qualcuno abbia una idea diversa e la manifesti sotto un nostro post, ci sembri inaccettabile e ci mandi in tilt se la vita si permette di farci non solo male gigantesco (un lutto, una malattia, la perdita di un lavoro) ma anche piccolo, come la disapprovazione o un like mancato: “Non deve succedere”, “non a me”.

Stiamo davanti alla Realtà, alla Vita, come davanti ad una madre da cui ci aspettiamo nutrizione e protezione: e quando invece ci accade di sentirci insoddisfatti, allora il buio è pesto e non vediamo futuro in forma di varco da passare, strada da percorrere, sentiero nuovo da costruire.

Così, già da studenti, anche le “prove” quotidiane (un esame con un linguaggio ostico, un professore col quale non siamo in risonanza, il viaggio da pendolari, il ritardo di un treno, un appello in cui due esami coincidono…) vengono narrate come “traumi”, dentro una distorsione percettiva che ci fa sempre meno abilitati alla capacità di cimento. Lo narrano gli studenti, lo narrano i loro genitori: il mondo (e il prof.re) è cattivo perché non va come io dico.

È come se non concepissimo più la necessità del travaglio, per noi stessi e per chi amiamo. Abbiamo finito col credere che la Cura fosse come nella canzone di Battiato: “Ti proteggerò da ogni male”.

In realtà quel testo era una dedica dall’anima all’io, e per quella vale, sì, che ti proteggerò dagli sbalzi d’umore se sono capace di darmi pace mentre fuori infuria qualsiasi tempesta: ma no, non vale come “prova d’amore” da offrire ad un figlio, o a chiunque altro amiamo, perché altrimenti impazzirai quando scoprirai che, tragicamente, non sei dio: non puoi promettere neanche la metà dei passaggi di quella meravigliosa canzone.

 Dentro questo cantarci la felicità e l’amore come coincidenti con la protezione dal limite e la negazione della caduta, abbiamo negli ultimi decenni costruito una particolare equazione, quella per cui difficile = impossibile, e abbiamo inteso che la felicità coincidesse con la facilità.

E così eccola la “prova d’amore”, non solo la nostra o quella degli altri, ma anche quella con cui misurare la Vita, e Dio stesso: “I sogni son desideri che un giorno realtà diverran” ma, per favore, fammi andare dritto al regno scansando la mela e la strega, portami al principe senza perdere la scarpa, voglio la focaccia per la nonna senza lupo e soprattutto senza bosco e la fiammiferaia senza finale, Candy senza Irisa, Remì senza la scimmietta che tragicamente muore nella neve.

E questa è per molti diventata la stessa “prova di Dio”: se esisti, cerca di intendere che quando ti dico “liberami dal male” intendo che devi funzionare come lo scudo di Thor, che mi devi tutelare, che l’angelo custode deve essere la mia bodyguard, altrimenti mi stai truffando e quei salmi in cui dici che mi proteggerai nella valle oscura sono solo pubblicità ingannevole.

Come se l’Amore fosse assenza di cimento.

 

Stare sul Tagadà: la turbolenza è la forma della Realtà

In questa ubriacatura sempre più collettiva, in cui – nei contesti ecclesiali come in quelli non – ci siamo ubriacati con la retorica attorno all’educazione al “credere nei propri sogni”, è arrivata la pandemia.

Così, nelle case dove siamo rimasti rinchiusi mesi, si sono dati appuntamento tutti i mostri interiori chenaturalmente ci abitano in quanto umani: le paure per alcuni da sempre compagne manifeste, per altri solitamente sopite, nascoste sotto il tappeto delle illusioni di autoimbonimento, sono state dal virus, che in quel momento era l’assoluto, l’Ignoto, metaforicamente ed assolutamente in modo concreto convocate all’aperto, irrimediabilmente uscite a chiamarci per nome.

Ed eravamo nudi, nude. Ovvero vedevamo, sentivamo, avevamo sul collo l’evidenza che era nuova eppure antica, eccezionale eppure normale: l’unica certezza, l’unica tangibile “eternità” per gli esseri umani è che siamo precari, fragili, traballanti come quando si sta sul Tagadà.

La ricordate quella giostra?

Io   l’ho   scoperta   da   adolescente, nelle feste di un paese dove vivevo allora. Una volta ho provato a salirci e, nonostante credo siano passati circa trent’anni, ricordo molto bene che ne ricavai un senso di nausea fortissimo: tutto quello smottamento, quel pavimento instabile sotto i piedi, mi rivoltava lo stomaco, la testa e l’anima.

Non ci sono più andata: nella mia vita cercavo punti fermi, certezze, terreni stabili.

Finché, alcuni anni fa, ho incontrato sul tracciato che avevo sognato/programmato una gigantesca deviazione: l’irruzione del caos nella linea retta che avevo interiormente tracciato pensando al futuro, mi ha gettato nella esperienza più potente per le nostre biografie, personali e professionali: l’irruenza dell’Ignoto, dello sconosciuto, dello straniero/straniante che corrisponde a tutto quello che dalla Realtà arriva senza il nostro consenso/permesso e, soprattutto, senza la nostra previsione/prefigurazione.

Questo accade continuamente, in dimensioni esteriori e interiori diverse nelle storie di ognuno, nelle vite di tutti: e questo è il tema proprio del compito educativo. E questo stare al cospetto dell’Ignoto, dell’ombra che ci spaventa, è il compito vocazionale di tutti e di ciascuno: il futuro non è programmazione, l’educazione non è assenza di vuoto (dell’incontro con l’orco e la strega, nelle mille forme con cui pragmaticamente queste metafore antiche si incarneranno nelle biografie di ognuno).

E cosa accade quando la vita sconvolge il nostro piano/progetto di futuro?

Cosa accade quando l’obiettivo che stavamo perseguendo, così nitidamente formulato, diventa difficile da raggiungere?

Cosa accade quando il caos irrompe a scompigliare i nostri sogni/schemi/pavimenti? Abbiamo solo paura e la protezione è il nostro unico raggio di visione?

Nelle narrazioni social si tende ad oscillare tra deliri di onnipotenza (“andrà tutto bene”, perché delle favole ci seduce il finale) e di impotenza (“la vita è ingiusta”) i quali, seppur con manifestazioni fenomenicamente opposte, hanno una natura assai simile: tutto bene, come tutto male, sono percezioni totalizzanti, non concepiscono sfumature, solo definizioni nette e senza scampi. Sono allora entrambe definizioni disancorate dalla Realtà, che invece è sempre screziata e per questo ci chiede letture ermeneutiche: che vuol dire?

Guardare la Realtà come con le lenti progressive: sapendo che occorre uno sguardo composito per vederla.

 

La vita non è un app (e non ha i tempi di Amazon Prime)

Con una lente soltanto, invece, leggere la vita – e il lavoro – ci porta a giudicare gli eventi nei quali ci imbattiamo con una misura soltanto, quella per cui li misuriamo in relazione a quanto tempo e fatica – e dolore! – passano tra il sogno che abbiamo e il suo raggiungimento, tra l’obiettivo che abbiamo prefissato e il suo compimento.

Ma cosa succede se vita e lavoro non hanno gli stessi tempi di Alexa o di un rider velocissimo anche quando piove?

Cosa succede se una persona a cui abbiamo scritto non ci risponde subito?

Le mail ormai fanno spavento: la messaggistica istantanea ci fa sentire d’avere tutto sotto controllo e quando l’Altro si permette di non risponderci come Google, che a tutto risponde, e soprattutto come il nostro algoritmo, che in tutto ci compiace, ci sentiamo… traditi. Come se fossimo noi unica misura, unico centro, come se vivere fosse sbattere le ciglia e far avverare (la ricordate Jinny, il genio della lampada del maggiore Tony Nelson? Ecco, così; peccato che nessuno di noi possa esserlo, e sognare di vivere senza tempo e senza fatica ci renda incredibilmente incapaci di sognare altro che non sia solo nutrimento).

È uno degli effetti della nostra crescente demenza digitale: la modalità simbiotica attraverso cui oramai viviamo la nostra relazione con gli smartphone genera il paradosso per cui, mentre tramite essi riusciamo a fare cose che prima erano impensabili, e dunque a potenziare le nostre performance, contemporaneamente è proprio tramite essi che perdiamo capacità.

Perdiamo capacità di memoria, di attenzione, di riflessività. E perdiamo capacità di attesa/lavoro tra il momento in cui esprimiamo un bisogno (“Alexa, cerca il più vicino ristorante senza glutine”) e quello in cui viene soddisfatto.

Così, quando la Realtà non ci obbedisce come fa il nostro smartphone, andiamo in tilt, perché disabituati a cimentarci nell’attraversare un tempo e uno spazio in cui quello che desideriamo non arriva tutto e subito. Persino fare un po’ di strada per comprare qualcosa ci sembra una fatica gigantesca, se ci siamo abituati a ordinare con un click e a vederci arrivare comodamente a casa l’oggetto del nostro desiderio.

Questo non riguarda solo i giovani. Come ci sentiamo anche noi adulti, che pure siamo cresciuti in un tempo diverso, quando ci ritroviamo senza connessione? Senza tutore, senza sostegno, qualcuno persino senz’aria.

Forse parrà esagerato correlare questi piccoli gesti quotidiani a una così grande domanda intorno al nostro futuro, ma siamo creature liturgiche e questo significa che le azioni che compiamo diventano parte della nostra identità: noi diventiamo quello che facciamo più spesso, finiamo con l’assomigliare anche interiormente alle forme che assumiamo esteriormente.

Cosa intendo? Che se decine di app mi nutrono per farmi sentire sempre al sicuro con risposte per qualsiasi domanda (materiale e immateriale), è naturale che poi io non concepisca una vita, e dunque un lavoro, in cui manchino risposte immediate.

È una mutazione antropologica quella che ci sta riguardando: il paradosso per cui, proprio nel tempo della più raffinata evoluzione in forma tecnologica, sperimentiamo un’involuzione tale da aver condotto Pier Aldo Rovatti a coniare l’espressione “Egosauri” per descriverla.

Una involuzione individualistica, che riconosciamo anche perché è involuzione del linguaggio – parliamo col tempo sempre al presente, riduciamo alle forme stringate di una chat anche le conversazioni ormai in presenza – e del pensiero: e non è più una fantasia, il gioco di un film o di un romanzo di fantascienza, che l’Intelligenza Artificiale componga attualmente testi più capaci di quelli di taluni umani.

 

L’amore come iniziazione

Occorre allora vegliare perché l’annuncio della salvezza, della bellezza già qui e adesso, non corrisponda alla promessa che il tempo volgerà al meglio: perché non lo sappiamo.

La vita ha un’altra partitura. Noi non sappiamo quel che verrà. Questo è il mistero. Così, quello che ora, vivendo, possiamo pensare e fare è: attraversare. Attraversare il deserto, la discesa agli inferi, la caduta, l’errore. E fare che di questo si tratti: di passaggio, passaggio pasquale.

Come il popolo di Dio nel deserto, sapendo che il buio non è punizione né messa alla prova: fallire, perdere, morire in tutte le mille forme che esperiamo mentre siamo ancora in vita, è Via, Verità, e incredibilmente Vita.

Come? Nella contemplazione: proprio nella notte guardare, ascoltare, benedire, persino ringraziare. E cercare di vegliare sulla nostra tentazione a scambiare Dio per un venditore di polizze. Vegliare sulla nostra speranza e sulla nostra disperazione: perché non siano l’esito di un registro di entrate e uscite.

Forse proprio il tempo del cimento – cioè del mistero che attraversiamo – è sacra possibilità di diventare pienamente adulti: diventa adulto chi ha conosciuto e conosce in vita la “morte”, e da questa non si è fatto fissare.

Adulto e generativo è chi può dirsi nato almeno due volte, chi ha conosciuto e conosce l’abisso, ma da quello non è trattenuto o posseduto: incontrando Gesù, qui, adesso, è testimone di un abisso che è diventato intercapedine.

Così, proviamo a chiederci: quand’è che lo si diventa adulti? Chi è adulta, adulto? Chi sa morire. Potremmo anche dire: chi sa travagliare.

E benché sia una chiamata assolutamente intima, la vocazione all’adultità, cioè al travaglio  – ovvero all’andare, come Gesù, verso la morte – è possibile soltanto in comunione: perché non lo si apprende né da soli né  una volta per tutte, e nell’ora in cui non riusciamo a compiere la trasfigurazione del lutto in creatività/creazione, abbiamo necessità del fratello e della sorella che ci ricordino che Dio non ci scansa dall’abisso ma nell’abisso salta con noi, proprio lì ad-viene e proprio lì l’anima sperimenta fecondità che senza quel salto-fuori-da-Sé sarebbe impossibile.

E se proprio la trasfigurazione della fatica in grazia fosse la nostra chiamata vocazionale, e se proprio il saper morire (in tutte le forme che esperiamo già in vita) fosse primanon ultima – nostra con-vocazione?