N.03
Maggio/Giugno 2001

Sofferenza, prova, crisi: di fronte al vangelo della croce

Il tema del Seminario riguarda la sofferenza, la prova e la crisi. Anche per brevità, riassumiamo i tre termini con “la croce”. Il titolo della mia relazione potrebbe essere: “Il vangelo della croce”. Che la croce mandi in crisi è chiaro a tutti. Per scoprire invece che la croce è un vangelo, cioè una bella notizia e un’opportunità provvidenziale per Gesù e per noi, ci vuole un grande dono che si chiama fede, dono concesso a chi si pone in disponibile e religioso ascolto della Parola di Dio.

Questa relazione vorrebbe appunto evidenziare il fondamento biblico della preziosità pedagogica e redentiva della crisi e della sofferenza. Opportunamente è stato scelto di affrontare questa tematica a San Giovanni Rotondo, dove un frate cappuccino ha raggiunto l’eroismo delle virtù evangeliche portando con fede la realtà e i segni della passione seguendo il Signore Gesù Cristo. Propongo tre punti: cercheremo nel vangelo le crisi e le sofferenze che Gesù prova e provoca; vedremo poi come egli supera e invita a superare la crisi e la sofferenza della croce che riassume tutte le altre sofferenze; accompagnati da Paolo, scopriremo infine la preziosità della crisi e della sofferenza che fanno parte indispensabile della sconcertante logica dell’agire provvidenziale di Dio, che “ha scelto ciò che è debole per confondere ciò che è forte”. La conclusione alla quale giungeremo sarà che la croce, se portata dietro a Gesù, non manda in crisi, ma in paradiso.

 

 

 

LE CRISI E LE SOFFERENZE
CHE GESÙ PROVA E PROVOCA

Senza inutili pretese di completezza, richiamiamo alcuni momenti di crisi e di sofferenza che Gesù prova e provoca.

 

Le crisi e le sofferenze che Gesù prova

Di fronte all’affarismo dei mercanti nel tempio (Mt 21, 12-13).

I Sinottici pongono il racconto dei venditori cacciati dal tempio al termine del ministero di Gesù, mentre Giovanni lo pone all’inizio (2, 14-16), ma in tutti e quattro i vangeli viene sottolineata la crisi-sofferenza-reazione di Gesù di fronte all’affarismo e alla strumentalizzazione interessata della religione; la denuncia di Gesù provocherà la decisione dei capi dei giudei di sbarazzarsi di questo disturbatore di un comodo status quo.

 

Di fronte all’ipocrisia, alla vanità e alla mancanza di fede degli scribi e dei farisei (Mt 23, 1-39).

I Sinottici – e, con terminologia diversa, ancor più Giovanni – riportano con grande risalto la denuncia fortissima che Gesù fa dell’ipocrisia, della vanità e del rifiuto di credere degli scribi e dei farisei: i sette “guai a voi” di Mt 23 fanno accapponare la pelle e vanno utilmente riletti e meditati da parte di singoli, gruppi o istituzioni che detengano qualsiasi tipo di potere. Se Gesù reagisce con tale violenza, è segno che dentro di sé soffre molto di questa strumentalizzazione di Dio a spese dei piccoli.

 

Di fronte alla sofferenza delle persone che ama (Gv 11, 17-37).

Vedendo Marta e Maria piangere la morte del fratello Lazzaro “Gesù scoppiò in pianto”. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!” (Gv 11, 36). Anche Gesù soffre e piange di fronte alla sofferenza delle persone che ama. È una testimonianza preziosa della sua umanità.

 

Di fronte all’incomprensione dei discepoli (Mc 8, 14-21).

“Non capite ancora?”. Soprattutto Marco, ma anche gli altri evangelisti notano frequentemente la difficoltà che hanno i discepoli a capire le parole, gli atteggiamenti, i sentimenti, l’identità di Gesù; è facile dedurne la crisi e la solitudine in cui egli deve trovarsi, incompreso anche dai suoi amici.

 

Di fronte alla morte (Mc 14, 36).

La passione e la morte si avvicinano a grandi passi e nel Getsemani Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia” e gli uscì quella preghiera, forse poco “divina” ma tanto umana: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!”.

 

Di fronte alla solitudine in cui lo lasciano i discepoli (Mc 14, 37).

Ai discepoli aveva confidato: “La mia anima è triste fino alla morte”. E aveva chiesto loro un po’ di compagnia: “Restate qui e vegliate” (Mc 14, 34). Ma “tornato indietro li trovò addormentati” (Mc 14, 37). Marco nota: “i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli” (Mc 14, 40).

 

Di fronte al tradimento di Giuda (Lc 22, 48).

È uno dei Dodici che lo tradisce e lo consegna ai nemici: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”.

 

Di fronte alla derisione dei crocifissori (Mc 15, 29-32).

Gesù sta morendo e sotto la croce si fanno beffe di lui: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”.

 

Di fronte al silenzio di Dio (Mc 15, 34).

La crisi più profonda e la sofferenza estrema di Gesù morente sono di fronte al silenzio di Dio: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

 

 

Le crisi e le sofferenze che Gesù provoca

Quando invita qualcuno a lasciare tutto e a seguirlo (Mc 1, 17-18; Mt 19, 16-22).

Ad alcune persone Gesù presenta l’invito esplicito a seguirlo, il che significa lasciare tutto: casa, famiglia, lavoro, beni. Alcuni, gli apostoli, accolgono l’invito (Mc 1, 17-18), altri no: “Il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19, 22). L’invito di Gesù provoca crisi perché pone di fronte a scelte impegnative.

 

Quando va per la sua strada e non si cura dei parenti (Lc 2, 49-50; Mc 3, 31-35).

L’avevano cercato per tre giorni, finalmente lo trovano e si sentono rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Maria e Giuseppe non compresero le sue parole (Lc 2, 4950). Quando inizia a predicare, nessuno lo capisce, e tutti, famigliari compresi, dicono: “È fuori di sé” (Mc 3, 21). Ma lui va per la sua strada: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?… Chi compie la volontà di Dio” (Mc 3, 31-35). Non capire provoca crisi e sofferenza.

 

Quando rivela il volto e il cuore del Padre di tutti (Lc 15).

Con la vita e la parola Gesù rivela il volto e il cuore di Dio. Egli è Padre, è papà di ogni uomo. Qualcuno dei suoi figli forse ancora non lo sa, ma Lui lo sa che tutti, assolutamente tutti sono suoi figli. Egli è come quel padre della parabola di Lc 15 che non si stanca di aspettare il figlio andato via, che vedendolo ritornare non può che fare festa. La sua gioia è perdonare, accogliere tutti i suoi figli in casa. Un Dio buono con tutti e Padre di tutti non piace a tutti. Alcuni che si credevano privilegiati e con diritti acquisiti vanno in crisi e decidono di uccidere Gesù.

 

Quando rivela le scelte e le predilezioni di Dio (Mt 5, 3-12).

Dio è Padre di tutti e non può fare discriminazioni o preferenze; più esattamente, di preferenze ne fa, ma, come ogni papà e ogni mamma, dà più affetto a chi ne ha più bisogno: “Beati i poveri, beati quelli che piangono, beati i perseguitati…” (Mt 5, 3-12). Queste preferenze di Dio mandano in crisi molti, soprattutto i fratelli maggiori o chiunque pensa di avere più meriti e diritti.

 

Quando preannuncia la sua passione e morte (Mc 8, 31-33).

Gesù si rende conto che si è messo su di una strada pericolosa: ogni Sinottico ha tre predizioni della passione e anche in Giovanni troviamo passi corrispondenti. “E cominciò ad insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”. È ben comprensibile lo sconcerto e la protesta di Pietro. Ma Gesù non fa sconti: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8, 31-33).

 

Quando invita a prendere la propria croce e a seguirlo sulla via del calvario (Mc 8, 34)

E Marco continua: “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (8, 34). La via della croce non vale solo per Gesù ma anche per chi voglia dirsi cristiano.

 

Quando aiuta a constatare con onestà le proprie debolezze (Mc 14, 30; 2 Cor 12, 7-8)

Prendere coscienza delle proprie debolezze può mandare in crisi, ma è la strada che Gesù sceglie con Pietro: “In verità ti dico: proprio tu, oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (Mc 14, 30); il pentimento farà maturare Pietro. Paolo farà esperienza della “spina nella carne”, che imparerà ad accettare con riconoscenza (2 Cor 12, 7-8).

Bastano questi esempi a farci constatare che crisi e sofferenze fanno parte sia della vita di Gesù che della vita delle persone che vengono a contatto con lui, compresi i suoi famigliari e i suoi discepoli. Vediamo ora come Gesù supera e invita a superare la crisi e la sofferenza.

 

 

 

IL SUPERAMENTO DELLA CRISI E DELLA SOFFERENZA

“Per Cristo e in Cristo – scriveva Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Salvifici doloris – si illumina l’enigma del dolore e della morte”. Soffrire e morire è inevitabile: ma, se è vero che in Cristo e con Cristo, anche la crisi, la sofferenza e la morte hanno un senso e un valore, perché non tentare di scoprirli?

 

“Padre, nelle tue mani affido la mia vita” (Lc 23, 46)

Per comprendere qualche cosa del mistero di Gesù Cristo, dobbiamo partire dall’AT. Gesù stesso, per spiegare ai due discepoli di Emmaus il significato della sua morte e della sua risurrezione, si mette a spiegare loro l’AT: il grande libro propedeutico, che guida l’uomo a riconoscere in Gesù la definitiva risposta di Dio agli interrogativi e alle attese dell’uomo e, nel tempo stesso, la conclusioneanticipazione del suo progetto di salvezza. Israele si sente creato dalla Parola di Dio come popolo e come suo popolo. La libertà, la terra, la vita: tutto è dono di Dio. Israele conosce un Dio onnipotente, buono e fedele. Perché, allora, la sofferenza?

Nel momento della catastrofe, durante l’esilio babilonese, gli israeliti trovano la risposta. Ora soffrono perché si sono allontanati da Dio, si sono posti al di fuori della Parola creatrice di Dio, hanno disubbidito a Dio. Ma prima? Ecco la grande risposta eziologica dei primi capitoli della Genesi, nati in questo periodo. Fin dall’inizio l’uomo ha voluto fare da sé, si è posto fuori della Parola e dell’obbedienza e allora ecco la sofferenza e la morte.

La sofferenza e la morte sono conseguenza e punizione per il peccatodisobbedienza. Ma Dio è capace di liberare dalla sofferenza (Esodo, Giudici, Salmi). Giobbe: non sempre la sofferenza è punizione per il peccato. I carmi del servo di Jahvè (Is 40-55): la sofferenza innocente e ingiusta può rientrare nel piano di Dio come strumento di redenzione. Dio può servirsi della sofferenza per salvare.

Per passare dal piano letterario alla realtà, bisogna arrivare a Gesù Cristo. In lui è Dio che soffre innocentemente e volontariamente per noi: con amore e obbedienza da figlio, Gesù fa della sua vita e della sua morte una “eucaristia”. Nel Getsemani Gesù sperimenta la tentazione di ritenere inutile la sua morte. Il suo grido sulla croce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” riprende il grido di tutti coloro che soffrono e non sanno il perché. La preghiera “Padre, non però ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14, 36) e le parole di Gesù in croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46), cioè: “Padre nelle tue mani affido la mia vita”, esprimono il senso e la direzione che la sofferenza umana può e deve prendere: l’obbedienza filiale.

 

“Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5, 8)

È questo il senso del breve ma straordinario brano di Eb 5, 7-9: “Nei giorni della sua vita terrena (Cristo) offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

C’è una materia che anche Cristo, Figlio di Dio, deve imparare, l’obbedienza; e c’è anche per lui, Figlio di Dio, una maestra, la sofferenza. È solo dopo aver imparato questa difficile materia da questa maestra severa che il Figlio di Dio è “reso perfetto” e “divenne causa di salvezza eterna per tutti”. Sono concetti estremamente coraggiosi e non ancora pienamente sviluppati dalla teologia e dalla spiritualità. Ma è da sottolineare anche il significato dell’esaudimento delle “preghiere e suppliche (di Cristo) con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte”: quelle “forti grida e lacrime” sono espressioni preziose per il recupero della piena umanità del Figlio di Dio.

“E fu esaudito”: in che senso? Non certo nel senso di venire liberato dalla morte, ma nel senso che “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Obbedire è sempre difficile, perché vuol dire fare la volontà di un altro. Almeno si fosse certi di obbedire a Dio! Quello che aggiunge sofferenza alla nostra sofferenza è spesso la constatazione della casualità e dell’ingiustizia per cui soffriamo. È volontà di Dio o violenza e prepotenza di qualcun altro? Gesù è condannato a morte ingiustamente da gente meschina, invidiosa, egoista, toccata nei suoi interessi: ma Gesù dice: “Sia fatta la tua volontà”. Sa cogliere la volontà di Dio dietro queste circostanze. La fede sa cogliere la volontà e la provvidenza di Dio in ogni situazione-persona-circostanza.

La vocazione dell’uomo non è alla sofferenza, ma all’amore (Dio è amore). Amare è dare se stessi: “Non c’è amore più grande di colui che dà la sua vita per i suoi amici”. La sofferenza rientra nell’orizzonte dell’amore. Vivere nell’obbedienza filiale e amare, accettando anche l’inevitabile sofferenza: questo è il cammino che Gesù percorre e che indica anche a noi per superare la crisi e la sofferenza, per raggiungere la vita eterna, vita che non finisce più e pienezza di vita. Il cristiano è uno che sa da chi viene la vita e qual è la direzione della storia. Il cristiano sa leggere la vita e la storia illuminate dall’amore di Dio e dalla luce di Cristo risorto.

Il cristiano sa tutto questo e vive alla luce di questa certezza, testimone di speranza di fronte a tutti; rendendo conto della sua speranza soprattutto nel momento difficile della sofferenza. Sa che Dio è Padre onnipotente e buono; sa che la sua vita è in buone mani; sa che l’amore di Dio è fedele e la speranza in lui non andrà delusa. Accogliere dalle mani del Padre, da figli, con obbedienza e riconoscenza, ogni momento della vita, così com’è, come un dono, è il modo concreto, attivo, responsabile, di esprimere la nostra fede nel Dio della vita, in Gesù Cristo morto e risorto per noi, guidati dallo Spirito di verità e di amore.

 

 

 

LA PREZIOSITÀ DELLA CRISI E DELLA SOFFERENZA

“Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”. Potremmo parafrasare l’espressione paolina di 1 Cor 1, 27-28 utilizzando il tema scelto per questo XVI Seminario sulla direzione spirituale: “Dio ha scelto la sofferenza, la prova e la crisi per confondere la forza, la tranquillità e la sicurezza umane e per offrire poi la sua forza, la sua tranquillità e la sua sicurezza”.

Questo aspetto sconcertante della provvidenza divina, lo potremmo chiamare “il vangelo della debolezza”, in quanto bella notizia che la rivelazione biblica – in particolare quella neotestamentaria – ci dà sulla forza della debolezza. Vedremo che occorrerà qualche altra specificazione; ma per ora restiamo in questo ossimoro, in questa “forza della debolezza”.

 

“Dio ha scelto ciò che è debole per confondere i forti” (1 Cor 1, 27-28)

Di fronte ai partiti che caratterizzano e dividono la comunità cristiana di Corinto, Paolo trova il modo di difendere sia l’agire di Dio che il proprio. Vengono messe a confronto la presunta debolezza di Paolo e la presunta forza di altri evangelizzatori. La contingenza dell’autodifesa diventa l’occasione per affermazioni ben più profonde e globali: il brano presenta con grande incisività la debolezza-fortezza di Dio da una parte e la fortezza-debolezza dell’uomo dall’altra. Dio appare debole nella valutazione umana, ma in realtà è forte; l’uomo si ritiene forte, ma in realtà è debole. Diamo uno sguardo al testo di 1 Cor 1, 17 – 2, 5 per evidenziarne soprattutto questi ossimori.

 

1, 17-18: 17Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. 18La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. 

Paolo va subito al problema e porta l’attenzione sul suo modo di evangelizzare, che a differenza di quello di altri, sembra poco brillante, poco convincente, non forte; il tutto è riassunto ottimamente nell’espressione “non però con un discorso sapiente”; e immediatamente Paolo porta il motivo di tale scelta: “perché non venga resa vana la croce di Cristo”. La motivazione è estremamente seria e il brano che segue avrà lo scopo di chiarire-dimostrare questa affermazione-tesi iniziale. La parola della croce viene giudicata debolezza-stoltezza da chi va in perdizione; ma per chi si salva è invece fortezza-potenza di Dio. Alla stoltezza di coloro che si perdono, Paolo non oppone però la sapienza, ma la forza di Dio. La posta in gioco non è di tipo conoscitivo-filosofico ma salvifico; che cos’è che salva l’uomo: la potenza di convincimento dei ragionamenti umani (= sapienza) o la potenza di Dio? Paolo non ha dubbi.

 

1, 19-21: 19Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. 20Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? 21Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.

In 1, 19-20 la citazione esplicita di Is 29, 14 e i riferimenti impliciti ad altri testi di Isaia e dei Salmi servono ad evidenziare ulteriormente l’opposizione tra la sapienza divina e quella umana e a mostrare che tale opposizione viene da lontano; da sempre le vie di Dio non sono quelle degli uomini. Sotto forma di domande retoriche viene presentata la fortezza di Dio che, realizzando la promessa sopra riportata, ha dimostrato stolta la sapienza del mondo.

 

1, 22-25: 22E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, 23noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; 24ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. 25Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

Cristo crocifisso è scandalo per chi cerca miracoli (giudei) e stoltezza per chi cerca spiegazioni razionali (pagani), ma per i chiamati è potenza di Dio e sapienza di Dio. Tanto il Crocifisso (v. 23b) quanto il kerygma (v. 21b) o il parlare della croce (v. 18a) vengono sempre ugualmente definiti stoltezza da una parte, ma anche potenza di Dio dall’altra.

 

1, 26-31: 26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. 27Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, 28Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, 29perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. 30Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore.

Rivolgendosi direttamente ai cristiani della comunità di Corinto, Paolo li invita a considerare attentamente la loro chiamata da parte di Dio: “Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili” (1, 26). I tre aggettivi sostantivati esprimono “ciò che conta” nel criterio degli uomini.

Vocazione e scelta sono tematicamente collegate e sottolineano la gratuità e la libertà dell’azione di Dio, sollecitato non dall’eccellenza dei chiamati, privi in maggioranza di qualità personali e sociali, ma dalla logica controcorrente del suo agire, visibile non solo nell’evento e nella predicazione della croce di Cristo ma anche nella “forma della comunità”. La fortezza umana è quella che manca ai cristiani di Corinto; ma questa mancanza non ha impedito che Dio li chiamasse e che egli, con questi strumenti umanamente così poco adatti, abbia confuso i sapienti e i forti ed abbia annientato “le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”.

L’assoluta esclusione del vanto religioso è tipica di Paolo e della sua teologia della salvezza, non meritata dalle nostre opere, ma sempre e comunque dono gratuito di Dio per tutti e dunque frutto della sola fede (cfr. Rm 3, 27). Al di fuori di Gesù Cristo, non c’è per alcuno né sapienza, né giustizia, né santificazione, né redenzione: nessuno potrà gloriarsi se non nel Signore. Dopo l’argomentazione di 1, 26-31 legata all’esperienza dei cristiani di Corinto, in 2, 1-5 Paolo presenta la propria esperienza; ma continua la trattazione dello stesso argomento: la debolezza forte di Dio.

 

2, 1-5: 1Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. 3Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; 4e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

L’apparente debolezza di Dio viene qui espressa dalla “debolezza” della prima predicazione di Paolo a Corinto, non compiuta con prestigio di parola o di sapienza, ma conoscendo e presentando solo Gesù Cristo crocifisso, con debolezza, timore e trepidazione. Ma la forza di Dio viene espressa tramite la manifestazione dello Spirito e della potenza divina: il risultato divinamente forte di questa predicazione umanamente debole di Paolo è la fede dei Corinzi, basata “non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (2, 5).

Possiamo riassumere così l’argomentazione serrata e i tanti ossimori di 1 Cor 1, 17 – 2, 5: la croce di Cristo, simbolo del potente e sapiente progetto salvifico di Dio, ma espressione d’impotenza e d’infamante follia per gli uomini, costituisce il contenuto della predicazione cristiana, configura l’aspetto della comunità dei credenti, determina la forma del messaggio apostolico, qualifica la persona stessa del predicatore. Davvero “Dio ha scelto ciò che è debole per confondere i forti” (1 Cor 1, 27).

 

“Quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12, 7-10)

La contrapposizione debolezza-fortezza, sia in Dio sia nell’uomo, viene ripresa da Paolo anche in altri contesti. Particolarmente interessante per noi è 2 Cor 12, 7-10, dove, dall’affermazione generale di 1 Cor 1, 27-28 espressa con la terza persona singolare (“Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole…”), si passa a dichiarazioni-esperienze personali, espresse con la prima persona singolare, sia da parte di Dio (“La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”) sia da parte di Paolo (“quando sono debole è allora che sono forte”). Dall’enunciazione del principio teologico della prima lettera ai Corinzi, Paolo passa, nella seconda, alla propria esperienza spirituale. Mentre in 1Cor 1,18-2,5 la contrapposizione debole-forte si riferisce alle modalità salvatrici ed evangelizzatrici scelte da Dio (il Crocifisso, il vangelo della croce), in 2 Cor 12, 7-10 riguarda direttamente la persona stessa di Paolo e la sua autopercezione e, di riflesso, l’esperienza di ogni cristiano.

 

12, 7-8: 7Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me.

La fortezza desiderata da Paolo è qui espressa dalla “grandezza delle rivelazioni” ricevute (cfr. 12, 1-6), ma emerge soprattutto a contrasto, come l’opposto della situazione in cui egli ora si trova, situazione che viene da lui vissuta e descritta in termini decisamente negativi: “spina nella carne” e “inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi”; tutto questo “perché non montassi in superbia”, ripetuto due volte in 12, 7. Che cos’è precisamente questa “spina nella carne”? Si continuerà ancora per lungo tempo a discuterne: il modo con cui Paolo ne parla rivela con tutta chiarezza che si tratta di qualcosa che egli sente come umiliazione, debolezza, ostacolo, in collegamento anche con la sua azione apostolica, ma non solo. Paolo sente tanto debilitante questa “spina nella carne” che: “Tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me”. La fortezza desiderata da Paolo consiste nel non avere questa “spina nella carne”.

 

12, 9-10: 9Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

È in 12, 9 che troviamo l’elemento che provoca il cambiamento di valutazione da parte di Paolo, la risposta del Signore all’insistente preghiera dell’apostolo: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. La risposta di Cristo alla preghiera di Paolo deve essere considerata il culmine non solo di questo brano, ma anche di tutta la seconda lettera ai Corinzi. È da questa risposta che si può mettere a fuoco tutto l’apostolato paolino. Paolo, pur partendo da un’esperienza personale, intende porre un principio generale che aveva già sostanzialmente presentato in 1 Cor 1, 17 – 2, 5. Che tipo di collegamento pone Paolo tra debolezza e potenza? Non si tratta solo dell’umile ammissione della debolezza umana che viene a costituire la condizione o pre-condizione per ricevere la potenza divina: Paolo sottolinea la coincidenza e la simultaneità di debolezza e potenza: “Quando sono debole è allora che sono forte” (v. 10b). E si tratta di molto di più di un semplice insegnamento morale: si tratta della partecipazione alla debolezza e alla potenza del Calvario e della Pasqua. L’affermazione di Paolo si pone sia sul piano ontologico che su quello rivelativo. L’elemento nuovo, che Paolo coglie come rivelazione straordinaria più di quelle precedenti (cfr. 12, 1-6), è che la potenza del Signore si esprime nella debolezza dell’apostolo. La sua debolezza (la “spina nella carne”) resta, e viene chiamata ancora debolezza, ma viene ora sentita “forte” perché permette l’espressione della potenza di Dio. La fortezza desiderata precedentemente (derivante dalla scomparsa della “spina nella carne”) ora a Paolo appare “debole” perché impedirebbe l’espressione della potenza di Dio.

La conclusione che Paolo trae è immediata: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze”; e ne esplicita il motivo: “perché dimori in me la potenza di Cristo”. Si noti anche il passaggio generalizzante da “la spina nella carne” a “le mie debolezze”: tutto viene da Paolo riletto alla luce della nuova grande rivelazione. Al verbo “mi vanterò” di 12, 9b, rafforzato da “quindi ben volentieri”, si aggiunge qui il verbo “mi compiaccio”, intimamente collegato a quanto precede da quel “perciò”. Nei vv. 9-10 abbiamo per tre volte il termine “debolezza” e una volta il verbo “sono debole” ( e poi come sinonimi e termini esplicativi: “oltraggi, necessità, persecuzioni, angosce”. La conclusione è scioccante: “Quando sono debole, è allora che sono forte”.

La risposta del Signore ha aperto gli occhi a Paolo e ha letteralmente capovolto il suo modo di giudicare le situazioni: quello che prima gli appariva debolezza e impedimento da cui chiedere la liberazione ora gli è stato rivelato “forte” in quanto condizione indispensabile per il manifestarsi della potenza di Dio. Per questo, Paolo può quindi vantarsi e compiacersi di quelle “debolezze”. Dalla “fortezza debole” precedente, Paolo è passato alla “debolezza forte” attuale: “Quando sono debole, è allora che sono forte”. Ma di quale debolezza si tratta qui? La domanda e la risposta riguardano sia 2 Cor 12, 7-10 che 1 Cor 1, 18 – 2, 5 da cui siamo partiti: in ambedue abbiamo riscontrato tutta una serie di ossimori riguardanti il rapporto fortezza-debolezza, usati da Paolo per esprimere un concetto che egli stesso ha faticosamente scoperto e che ritiene di fondamentale importanza.

 

 

 

CONCLUSIONE

La fede come luogo in cui riconoscere e accogliere il vangelo della croce

In 1 Cor 1, 18 – 2, 5 Paolo mette in contrapposizione la debolezza forte di Dio e la fortezza debole dell’uomo. La croce di Cristo, il vangelo della croce, la chiamata di Dio e la predicazione di Paolo a Corinto esprimono la debolezza degli strumenti di cui Dio si serve, ma è una debolezza solo apparente; in realtà è una debolezza forte perché attraverso di essa arriviamo a Gesù Cristo, il solo che “per noi è sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (cfr. 1 Cor 1, 30). Di fronte alla “debolezza forte” di Dio sta la “fortezza debole” dell’uomo, una fortezza basata sulle prove convincenti della logica o della storia; ma questa fortezza dell’uomo è solo apparente; in realtà è una fortezza debole perché impedisce di giungere a Gesù Cristo il solo che “per noi è sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”. La medesima realtà è giudicata in modo diametralmente opposto, come fortezza o come debolezza, da quelli che si perdono e da quelli che si salvano.

In 2Cor 12, 7 – 10 troviamo in contrapposizione la fortezza debole desiderata da Paolo e la debolezza forte da lui scoperta. Mentre in 1Cor la contrapposizione è tra come vede le cose Dio e come le vede l’uomo, in 2Cor la contrapposizione è tra come vedeva le cose Paolo prima della rivelazione ricevuta e come le vede dopo la rivelazione. In 1Cor il discorso è molto articolato, ma in realtà si riduce alla croce di Gesù Cristo letta come debolezza da chi va in perdizione e come potenza di Dio da chi si salva. In 2Cor l’oggetto del discorso è più ristretto, è Paolo con la sua “spina nella carne”, giudicata prima come debolezza handicappante e poi come cosa di cui vantarsi.

Ma quello che appare fondamentale non è tanto la realtà giudicata in modo diametralmente opposto (la croce di Cristo in 1Cor e la “spina nella carne” di Paolo in 2Cor), quanto piuttosto l’occhio che guarda, cioè il criterio, la chiave di lettura. E questo occhio-criterio nei due brani è lo stesso, è quello della fede. Quella “spina nella carne” che a Paolo appariva debolezza e impedimento, e di cui chiedeva l’allontanamento, ora gli appare come fortezza, condizione privilegiata, grazia. Come ha ben rilevato S. Lyonnet (La legge fondamentale dell’apostolato formulata e vissuta da s. Paolo [2 Corinzi 12, 9] in I. DE LA POTTERIE – S. LYONNET, La vita secondo lo Spirito: condizione del cristiano, A.V.E., Roma 1967, pp. 309-331), Paolo presenta questa conclusione come un grido di vittoria, una scoperta e una rivelazione di straordinaria importanza. Che cosa significa precisamente: “Quando sono debole, è allora che sono forte”? Significa: quando riconosco la mia debolezza di fronte al Signore, e la metto umilmente a disposizione della sua potenza, allora sono forte. Questo riferimento al Signore è giustificato dal riferimento preciso e costante a lui in tutto il brano. Paolo non si gloria di qualsiasi debolezza ma di quella debolezza che è letta con fede, cioè come umile riconoscimento della propria insufficienza e quindi come umile richiesta di salvezza. È solo questa la debolezza che permette alla potenza di Dio di esprimersi: è questo “il vangelo della debolezza”.

E bisogna sottolineare anche “il vangelo della gratuità”, messo in evidenza dall’insistenza con cui Paolo ricorda che “Dio ha scelto” proprio ciò che umanamente appare debole, insignificante, inadatto, per rivelarsi e salvare. 1Cor 1, 27-28 è scandito dai tre “ma Dio ha scelto”: ha scelto quanto nel mondo è stolto per confondere i sapienti, quanto nel mondo è debole per confondere i forti, quanto nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono. Grande è la forza di quei tre “ma Dio ha scelto”: ciò che è insensato, debole e disprezzato per gli uomini viene scelto da Dio per annientare ciò che invece per loro è sapiente e forte. 1Cor 1, 29 offre la spiegazione di questo sconcertante agire di Dio: “Perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”. Paolo proclama qui la fine di ogni possibile umana autoglorificazione. D’ora in poi l’unica glorificazione-sapienza sarà nella croce di Cristo. La debolezza-inadeguatezza dello strumento fa risaltare la potenza di Dio.

Nella stessa direzione va 2Cor 4, 7: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi”. Qui Paolo sottolinea non la fragilità dei vasi di creta ma il contrasto fra il tesoro infinitamente prezioso del vangelo e gli strumenti-portatori di esso. Tutto questo non va solo a gloria di Dio, ma anche a salvezza dell’uomo; nel senso che, se l’uomo si gloria della propria fortezza di fronte a Dio, mostra di ritenere che da solo può salvarsi, impedendo così a Dio di salvarlo gratuitamente. È questa gratuità che viene sottolineata anche in 1Cor 1, 30: per opera di Dio “voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”. Ma è soprattutto “il vangelo della fede” che Paolo intende presentare. Tutto il brano 1Cor 1, 17 – 2, 5 trova la sua conclusione nell’ultima frase, estremamente sintetica ed efficace: “Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”. 1Cor 1, 31 riprende l’esortazione a gloriarsi non di sé ma solo del Signore: il concetto si trova già in Ger 9, 22-23, e l’espressione verrà ripresa testualmente da Paolo in 2Cor 10, 17. Gloriarsi di sé significherebbe non riconoscere che la salvezza ci viene da fuori, da Dio, gratuitamente, in Cristo Gesù, e quindi significherebbe precludersi la possibilità stessa della salvezza.

In 1Cor 1, 27-28 l’espressione “Dio ha scelto” è ripetuta tre volte ed ha tre oggetti: “quanto nel mondo è stolto”, “quanto nel mondo è debole”, “quanto nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla”. La “potenza di Dio” si esprime nella scelta di realtà “deboli”, umanamente parlando. Cristo crocifisso, la predicazione di Cristo crocifisso, la fede in Cristo crocifisso, la comunità di Corinto, la predicazione di Paolo a Corinto: ecco “ciò che è debole” in sé e che, scelto da Dio, serve a “confondere i forti”. In 1Cor 1, 18 sono messe a confronto le due valutazioni opposte della “parola della croce”: stoltezza per quelli che vanno in perdizione, potenza di Dio per quelli che si salvano. La valutazione sembra dipendere dalla sorte (persi o salvati); in realtà, è la sorte che dipende dalla valutazione diversa della croce: giudicare la croce e il discorso su di essa “stoltezza” porta alla perdizione; giudicare la croce e il discorso su di essa “potenza di Dio” porta alla salvezza.

Non riconoscere nella croce di Cristo la potenza di Dio che può salvarci, significa svuotarla proprio di quella stessa potenza. In 1, 17 era stato detto che “un discorso sapiente” rende vana la croce di Cristo; in 2, 5 si dice che la fede non si deve basare sulla sapienza degli uomini ma sulla potenza di Dio. In Rm 4, 14 Paolo presenta lo stesso tipo di argomentazione e usa per la fede lo stesso verbo che in 1Cor 1, 17 riferisce alla croce di Cristo: se la salvezza viene dalla legge, la fede perde la sua valenza soteriologica. La fede è la chiave di lettura per riconoscere come provvidenziali le sconcertanti scelte di Dio. E in 1Cor 1, 21 Paolo non usa il participio passato, ma quello presente, per sottolineare la necessità dell’abito della fede. In un certo senso possiamo dire che sono le scelte di Dio a cambiare le carte in tavola, rendendo forte e salvifica la debolezza della croce di Cristo e di ogni uomo. Ma non sono sufficienti le scelte di Dio se è vero che la croce è e rimane stoltezza “per quelli che vanno in perdizione”. Non bastano le scelte umanamente immotivate di Dio, serve anche la fede umanamente immotivata dell’uomo.

La sconcertante possibilità provvidenziale del “vangelo della debolezza” offerto da Dio all’uomo diventa effettiva provvidenza divina solo nella fede, che permette di leggere la debolezza umana come spazio umilmente disponibile ad essere riempito dalla gratuita e salvifica ricchezza di Dio. Quando mi riconosco debole e sono umilmente riconoscente a Dio della mia debolezza, è allora che sono forte della fortezza che gratuitamente Dio esprime in me. Ma anche nella valutazione di “forte/debole” in questa nuova situazione, occorre conservare il criterio di Dio e non quello umano. La tentazione del “lieto fine” è sempre in agguato (come nella finale del libro di Giobbe, come in un certo modo superficialmente apologetico di leggere la risurrezione). È ciò che è debole – ed è sinceramente disposto a restare eternamente debole – che nella fede diventa forte. È questo uno degli aspetti della fede sviscerati con lucidità e coraggio estremi da S. Kierkegaard, per esempio in Timore e tremore nell’analisi della fede di Abramo.

Paolo, il primo autore del Nuovo Testamento, sottolinea l’aspetto sconcertante dell’agire di Dio che ha voluto salvare l’uomo attraverso la croce di Cristo, simbolo di ogni crisi, di ogni debolezza, di ogni sconfitta, di ogni sofferenza. Ma è proprio e solo attraverso la croce di Cristo che arriva la salvezza per tutti. La fede è il luogo dove la croce di Cristo non viene vanificata, o considerata come incidente di percorso o male inevitabile, ma viene riconosciuta e accolta come vangelo, vangelo della croce. Il tema è profondamente collegato con i capisaldi della teologia paolina: la gratuità della salvezza offerta da Dio all’uomo in Cristo morto e risorto, e la fede come grande condizione per l’accoglienza di essa; ne sottolinea l’aspetto sconcertante, ma, infine, anche gratificante. “Quando sono debole è allora che sono forte” appare felice ed esperienziale traduzione paolina delle beatitudini evangeliche. Dopo Paolo, i Sinottici daranno enorme risalto al racconto della passione e della morte del Signore, tanto da suggerire a qualche studioso che i vangeli non siano altro che racconti della passione di Gesù con una lunga introduzione. Anche per i Sinottici è la passione, è la croce che esprime più di ogni altra parola e di ogni altro gesto di Gesù il suo modo di salvare l’uomo.

Ma sarà Giovanni, l’ultimo grande autore del Nuovo Testamento, a fare inclusione con Paolo: sarà Giovanni a trovare l’intuizione e il coraggio di presentare la croce non come patibolo ma come trono, non come sconfitta ma come vittoria, non come umiliazione ma come glorificazione, non come oscuramento della divinità, ma come massima e definitiva rivelazione insieme di Dio, dell’uomo e del mistero della sofferenza redentrice. La risurrezione sarà, per così dire, “un atto dovuto”, una inevitabile, conseguente rivelazione dell’onnipotenza di Dio; ma è la croce la rivelazione somma dell’amore di Dio, del Dio-Amore e l’indicazione definitiva della strada per la realizzazione dell’uomo. Alla sequela di Cristo, la crisi, la sofferenza, la croce non manda più in crisi, ma in paradiso. Seguendo Cristo, dalla maledizione della croce si può passare al vangelo della croce.

 

 

 

Note

DINO DOZZI è nato a Montese (MO) nel 1944. È sacerdote cappuccino. Ha conseguito la Licenza in Teologia al Pontificio Ateneo Antoniano nel 1970 e il Dottorato in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma nel 1987. È stato Rettore del Collegio Internazionale S. Lorenzo da Brindisi dal 1988 al 1993, Ministro provinciale dei Cappuccini di Bologna dal 1993 al 1999 e presidente dei Cappuccini italiani dal 1994 al 1997. È stato docente di Sacra Scrittura presso il Pontificio Ateneo Antoniano di Roma dal 1987 al 1993. Attualmente è Superiore del Convento dei Cappuccini di Ravenna e insegna allo Studio Teologico S. Antonio di Bologna, al Seminario di Ravenna e all’Istituto Teologico di Assisi.

Ha pubblicato: Il Vangelo nella Regola non bollata di Francesco d’Assisi (Bibliotheca Seraphico Capuccina 36), Roma 1989; L’ermeneutica evangelica dei primi Cappuccini (I Frati Cappuccini. Sussidi per la lettura dei documenti e testimonianze del I secolo 7), Roma 1989; La benedizione nel Cantico delle creature di S. Francesco, in Parola, Spirito e Vita 21 (1990) 273-286; Chiara e lo specchio, in Laurentianum 31 (1990) 310-341; D. COVI-D.DOZZI (a cura di), Chiara. Francescanesimo al femminile, Roma 1992; voci “Padre nostro” e “Sequela”, in Lexicon. Dizionario teologico enciclopedico, Casale Monferrato 1993, 740-743, 949-950; Il vangelo di Giovanni letto da Francesco d’Assisi, in Atti del IV Simposio di Efeso su S. Giovanni apostolo, a cura di L. PADOVESE, Roma 1994, 199-215; La vocazione nella Bibbia, in Corso di formazione per animatori della pastorale giovanile e vocazionale, a cura del Centro di pastorale giovanile e vocazionale dei Frati Minori Cappuccini dell’Emilia-Romagna (“Vieni e seguimi” 4), Roma 1998, 89-101; “Così dice il Signore”. Il vangelo negli scritti di san Francesco, EDB, Bologna 2000; Poveri per arricchire. La povertà nel cammino formativo (in collaborazione con M. RESCHILIAN), Edizioni Messaggero, Padova 2001.