N.01
Gennaio/Febbraio 2002

Alla sequela di “chi” poniamo la nostra vita?

Non è una riflessione facile quella che state facendo in questi giorni, perché è una riflessione che vuole approfondire il tema della formazione o, meglio, come dice il titolo del vostro ritrovarvi insieme, della “conformazione” a Cristo. Tutte e tre queste parole sono parole non univoche, non facili da intendere: né formarsi, né conformarsi, né tanto meno il termine ultimo di questa conformazione che è Cristo stesso. Per lo meno questa non era l’esperienza che facevano i primi cristiani. La lettura che abbiamo fatto in apertura della Liturgia della Parola, tratta dall’inizio del capitolo 3 della prima lettera di Giovanni, ci dice quanto faticoso sia per un cristiano capire “chi è Cristo” e in che modo la sua vita deve conformarsi alla Sua.

Voi sapete che dietro alla prima lettera di Giovanni c’è lo scontro tra due gruppi di cristiani: quelli fedeli all’insegnamento dell’apostolo Giovanni e gli altri che, invece ne davano un’interpretazione che metteva in crisi due cose fondamentalmente: la prima cosa era l’identità stessa di Cristo, che non veniva accettato nella sua dimensione storica, terrena, del suo farsi uomo, concretamente; questa crisi intorno all’identità di Cristo sta, fin dalle origini all’interno della vita cristiana, alla base di divisioni e di incomprensioni profonde. Ma il problema non è solo quello se accettare o meno questa dimensione terrena, umana, incarnata di Cristo, ma anche l’altro: se esigere o meno i frutti di vita nuova che dovrebbero discendere dal fatto che noi siamo diventati, siamo stati generati figli di Dio. L’altro grande errore degli avversari – diciamo così – della comunità del discepolo Giovanni, che oltre a negare la dimensione storica di Cristo, negano che ci sia anche una vita morale da costruire, alla luce di questa fede, è che una volta che uno è diventato figlio di Dio, tutto gli è permesso.

Non sono errori lontani, sono problemi che ci trasciniamo e che risorgono concretamente e ripetutamente nella vita della Chiesa. Risorgono anche oggi. Anche oggi l’identità di Cristo è un problema. Siamo così avvolti da queste tentazioni di vaghi spiritualismi, disincarnati dalla storia della salvezza e disincarnati da una concreta comunità, che è per noi la presenza di Cristo nel tempo, che anche noi, forse, siamo a volte sopraffatti da identità confuse intorno a Cristo. Per lo meno le sperimentiamo in tanti giovani che avviciniamo nella nostra attività di promozione della scoperta della loro vocazione: tanta spiritualità, ma tanta poca spiritualità cristiana; tanta attesa di uno spirito che però quasi mai è lo Spirito con la esse maiuscola, cioè lo Spirito di Gesù Cristo.

Il problema della centralità di Cristo e della sua piena identità è un problema importante anche per noi, oggi. Come pure è importante l’altro problema che angustiava la comunità di Giovanni, e cioè quello che noi oggi traduciamo con la formula del “relativismo morale”. Tutti pronti ad invocare un’etica, ma tutti pronti a farsi la propria etica soggettiva. Malati di soggettivismo in tutte le percezioni della realtà lo siamo anche per quanto riguarda i modelli concreti di vita che vengono proposti. E ci allontaniamo sempre di più dall’oggettività della norma.

Non sono problemi soltanto di spiritualità cristiana, sono anche problemi tipici della problematica vocazionale. Perché se non sappiamo chi è Cristo, alla sequela di “chi” poniamo la nostra vita? O, alla sequela di “chi” chiamiamo gli altri a fare un cammino della loro vita? Se non sappiamo chi è il Cristo a cui “conformarla” questa esistenza, e per il quale testimoniare, capite che la stessa identità della pastorale vocazionale entra in questione. Ugualmente, è al centro della problematica vocazionale anche: quale concreto modello di vita condividere con i fratelli e per i fratelli.

Il tema, dunque, che ci viene proposto nella prima lettera di Giovanni è un tema estremamente attuale. Come risponde in questa pagina che abbiamo letto – l’articolazione della lettera è molto più ampia – Giovanni a questa domanda? La prima risposta è che “noi siamo realmente figli di Dio”. È una risposta di identità. Prima ancora della morale, prima ancora di andare in cerca del “che cosa fare”, è il “che cosa noi siamo” ciò che è importante. E “quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo!”, lo siamo! “Lo siamo realmente” traduce, ma direi che è ancora più forte il testo greco dove si dice “e lo siamo!”. Siamo figli di Dio, anzi, siamo “generati” da Dio, perché qui il termine greco non è “uios” ma è “tecnon”, è il termine della generazione. A pensarci bene, ce da impazzire! Ci vien detto che noi siamo “generati” da Dio, cioè della stessa natura di Cristo, quasi. Il nostro essere diventati di Cristo ci fa partecipare della generazione che Cristo ha avuto dal Padre. Poi Giovanni ci dirà che egli viene prima di noi, senz’altro. Ma il nostro essere assimilati a lui, il nostro conformarci a lui, non ci fa semplicemente “figli adottivi”, direbbe Paolo, ma ci fa “figli generati”, è la vita di Dio che pulsa ormai attraverso la nostra stessa esistenza.

È questa nostra identità che sta alla base anche del fatto che c’è poi una correlazione tra il nostro essere rivelati come figli e il Padre che si rivela. Chi conosce il Padre ci riconosce figli. Notate! Non diversamente, non “chi riconosce noi allora riconosce il Padre”. Certo, siamo anche testimoni del Padre, ma la scelta fondamentale che occorre fare è la scelta della fede; inutile che poniamo noi stessi come modelli per gli altri, quasi che la nostra testimonianza fosse capace di far scoprire Dio, e Dio sia l’esito di un approccio che passa attraverso di noi e noi siamo la chiave che apre le porte di Dio; è il contrario, è quando l’uomo scopre Dio che allora ci scopre come figli suoi, è quando la luce della fede penetra il cuore degli uomini che allora noi diventiamo credibili, testimoni credibili per gli altri. Guai a rovesciare le cose; questo credo che nel cammino della pastorale vocazionale sia molto importante: mai mettere noi, quasi mediatori, l’unico mediatore, lo sappiamo è Cristo, cioè il figlio di Dio. Nel nostro lavoro vocazionale ciò che dobbiamo mostrare è Dio, non noi stessi. È lui che ci rivela agli altri e non viceversa.

In quanto figli che Dio rivela agli altri, generati dunque da lui, da lui che è giusto, dobbiamo essere anche operatori di giustizia. Chiunque opera la giustizia è nato da lui. Non possiamo pensare di essere testimoni di Dio se la nostra vita è una contro-testimonianza rispetto alla giustizia; e agire peccaminosamente significa non essere figli di Dio; agire peccaminosamente significa compiere – la traduzione italiana parla di violazione della legge, ma il termine è un’altra cosa: è la anomia, iniquità – iniquità escatologica, il rifiuto totale di Dio, del Cristo che ce lo rivela, della rivelazione stessa del Padre. I nostri peccati sono la concretizzazione di questo rifiuto radicale di Dio, di questa iniquità ultima che nega Cristo nella carne e nega il peccato che è nel mondo; invece, il peccato c’è e bisogna riconoscerlo.

Questo è il cammino che ci viene proposto, dunque; noi, se vogliamo conformarci a Cristo, dobbiamo riconoscerlo per ciò che è, dobbiamo mettere dietro noi e mandare avanti lui, che ci rivela la sua giustizia, la giustizia del Padre e ci incammina su una strada di completa adesione a Lui. Ma, e qui veniamo al Vangelo, abbiamo bisogno di chi ci indica Cristo. Tutti gli Orientamenti Pastorali dei vescovi italiani di questo decennio, voi lo sapete, ruotano intorno a quest’appello fondamentale: guardiamo Cristo, fissiamo il nostro sguardo su Cristo. Un po’ provocatoriamente io vado dicendo che se la seconda parte degli Orientamenti non l’avessimo scritta, poco importa; ciò che conta è la prima parte, la seconda parte è una raccolta di tutte le cose da fare, dopo che abbiamo scoperto l’urgenza del “rimostrare” Cristo e rivolgere il nostro sguardo a Cristo per poi mostrarlo agli altri. “Fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” dice la lettera agli Ebrei al capitolo 12, la frase che apre la prima parte degli Orientamenti Pastorali.

Bisogna tornare a guardare Cristo, per noi stessi e per gli altri; bisogna aiutare gli altri a riscoprire Cristo. D’altra parte che cosa sono, pur nella loro varietà i molteplici carismi e ministeri che voi invitate la gente a scoprire, anzitutto, e poi a vivere, se non questo: un insieme di strade che portano a Cristo. Che altro fine hanno i molteplici carismi e ministeri se non proprio quello di indicare Cristo; indicarlo nella testimonianza, indicarlo nella parola, mostrarlo nel gesto sacramentale, e così via…? Che altro noi dobbiamo fare se non indicare Cristo? Attorno alla domanda “quale Cristo?”.

Giovanni ci da quattro caratteristiche del Cristo, che con voi voglio brevemente sottolineare, riassumendole poi tutte nell’annuncio che egli è il Figlio di Dio: “E ho visto e ho reso testimonianza che questi è il figlio di Dio”. Egli ci dice anzitutto che egli è l’Agnello, il servo del Signore che come agnello viene portato al macello e porta su di sé il peccato del mondo. Ma forse ancor più l’agnello pasquale, il cui sangue nell’immolazione diventa il segno concreto e lo strumento concreto della liberazione dal male; egli dunque toglie, non solo porta il male, ma egli toglie il male. Ma anche l’agnello apocalittico, escatologico, quello che l’Apocalisse ci mostrerà come colui che vince tutte le bestie, tutti i poteri, tutte le potenze del mondo. Questo è Cristo, dunque: colui che condivide con noi come il servo; colui che libera noi, come l’agnello della Pasqua; colui che porta la signoria di Dio nel mondo. Tutte e tre queste caratteristiche del Cristo dobbiamo saper annunciare: la condivisione, la liberazione e la signoria. Ogni sbilanciamento su uno di questi tre elementi diventa pericoloso, nella spiritualità. Una spiritualità di sola condivisione non significa libertà vera; una spiritualità di sola liberazione, può essere anche un’imposizione e ancor più quella della sovranità, della regalità. 

Ognuno di questi tre elementi va sapientemente attraversato nella nostra comprensione della figura di Cristo. Egli è colui che toglie il peccato del mondo, proprio attraverso questa condivisione, liberazione e regalità. Ma egli è colui che fa questo perché è colui che era prima di noi, e che quindi passa avanti a noi. “Colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti perché era prima di me”, egli è il primogenito, egli è il Figlio di Dio, e per questo ci passa avanti; ed è colui – torno a dirlo – che deve primeggiare in ogni azione cristiana, in ogni spiritualità, in ogni proposta, anche vocazionale. Colui che era prima deve restare il primo, in ogni caso. Ed è anche, infine colui sul quale scende e rimane lo Spirito, in lui dimora lo Spirito. Torniamo al tema della spiritualità: quale spirito cercare se non lo Spirito di Cristo; quale spirito comunicare, se non lo Spirito di Gesù Cristo.

Conformarsi e conformare a Cristo, allora, è proprio questo: riconoscere che lui, e il Padre con lui, è prima e avanti a noi; è affermare il primato di Dio in questo mondo, forse non più neanche troppo antropocentrico, ma addirittura “naturocentrico”, con questa esaltazione che ormai abbassa l’uomo al livello degli esseri della natura. Riconoscere il primato assoluto di Dio: questa è conformazione a Cristo. Riconoscere il male radicale che è nel mondo, il peccato del mondo: anche questo non è facile in un mondo in cui il male viene scambiato con l’errore, il peccato viene scambiato con le deviazioni… Riconoscere in lui la condivisione, la liberazione e la sovranità e da lui attingere lo Spirito della vita. È un cammino, questo, di conformazione che Giovanni ci mostra e al quale invito me e tutti voi a conformare la nostra vita, per aiutare a conformare quella degli altri.