N.01
Gennaio/Febbraio 2002

Come educare alla fede e alla scelta vocazionale adulta e matura?

Un titolo come questo non ha certo bisogno di esser contestualizzato e giustificato all’interno d’un convegno vocazionale come il nostro. Un tema simile, infatti, rappresenta il vero problema della odierna crisi vocazionale, costituisce la preoccupazione un po’ di tutti gli operatori del settore, è l’elemento debole della pastorale delle vocazioni, il suo punto irrisolto. Sapessimo davvero come educare alla fede e alla scelta vocazionale adulta e matura forse non vi sarebbero più crisi né congiuntura vocazionale o non sarebbero della portata odierna; e invece proprio questa crisi sta a dirci anche l’inconsistenza e approssimazione dei nostri percorsi educativi, il loro debole impianto assieme alla scarsa corrispondenza con un cammino sperimentato personalmente.

D’altronde questo tipo di educazione rappresenta per natura sua qualcosa non solo di complesso e difficile, ma anche di misterioso e superiore alle nostre forze; rigorosamente parlando l’essere umano, o un fratello maggiore, può solo condurre alle soglie del mistero un altro essere umano, fratello minore, alle soglie del mistero della opzione credente e vocazionale. Ed è segno di grande maturità tendere verso questa soglia e rispettarla al tempo stesso da parte del primo. Significherebbe la piena comprensione del ruolo di mediazione dell’operatore vocazionale.

Né va detto che nel passato non esisteva questa difficoltà e che avremmo noi oggi perso una certa capacità di educare in queste due direzioni. Il problema, ai giorni nostri, è in che modo concepire e attuare questa educazione “in un mondo che cambia”, come specifica intelligentemente il titolo degli attuali Orientamenti Pastorali dell’Episcopato italiano, a dire che il nostro mondo post-moderno non è semplicemente cambiato, ma sta cambiando. La differenza è significativa; se questo mondo fosse già cambiato potremmo già definire strategie e modalità con una certa pretesa di definitività, ma se invece “sta ancora cambiando” l’operazione appare un po’ dubbia e forse vanno ridotte e meglio precisate certe aspettative. Come ignorare, ad esempio, l’11 settembre e il cambiamento generale, nei rapporti interpersonali specie con il diverso da sé, nel senso da dare alla vita e al futuro, dunque anche nella comunicazione del vangelo…, innescato da quei terribili fatti che hanno scosso la modernità e la postmodernità fin dalle sue fondamenta? Dobbiamo esser più umili e stare ancor più attenti, allora, a identificare quella soglia che introduce al mistero, per fare tutto quanto è nelle nostre possibilità per giungervi e accompagnare qualcuno proprio lì, alle soglie della fede e della vocazione.

È esattamente quel che vorremmo capire in questa riflessione, che articoliamo in tre parti. Nella prima cercheremo di cogliere il senso del rapporto tra opzione di fede e scelta vocazionale, e le implicanze di questo rapporto. Nelle due seguenti parti affronteremo il problema in termini più propositivi e partendo dai due versanti, per verificare come si possa partire dalla maturità credente per giungere alla maturità della scelta vocazionale, e come il coraggio della decisione vocazionale conduca alla pienezza della fede.

 

 

OPZIONE DI FEDE E SCELTA VOCAZIONALE:
QUALE RELAZIONE?

 

Anzitutto si tratta di chiarire il senso del rapporto tra le due opzioni. Può sembrare una questione solo teorica, ma è una teoria con profonde ripercussioni nella prassi della pastorale vocazionale. E poi sappiamo bene che non c’è nulla di più pratico d’una buona teoria.

 

Convergenza naturale e intrinseca sul piano teorico

Parliamo d’una convergenza naturale e intrinseca, e che è possibile declinare a livello teologico e psicologico, con una conseguenza preziosa sul versante pedagogico.

 

Convergenza teologica: la fiducia

L’analisi teologica è in grado di metter in luce un elemento radicale che è all’origine di entrambe le opzioni. Fede, infatti, vuol dire alla radice fiducia: si crede perché ci si fida, tanto che la massima espressione dell’atto di fede è il gesto di abbandono fiducioso. Ovvero la fiducia è all’inizio e alla fine dell’avventura credente. La quale ritrova il suo centro o il suo punto di forza non tanto nella convinzione intellettuale, quanto nella libertà di accogliere incondizionatamente l’Altro nella propria vita, a Lui consegnandosi. Credere è diverso da fidarsi, ma è precisamente il fidarsi l’espressione massima del credere, proprio perché ne costituisce anche la radice. E comunque non è cosa scontata questa correlazione: infatti molti credono, ma pochi si fidano.

Ma anche l’autentica decisione vocazionale fa lo stesso percorso: nasce dalla fiducia e porta a fidarsi sempre più, a consegnarsi nelle mani d’uno più forte delle proprie forze. Così la vocazione ci è presentata nella Scrittura: come un gesto non calcolato sulla propria misura o sulla garanzia offerta dalle proprie capacità, ma sulla certezza della presenza d’un Altro, di Colui che chiama, e che può anche chiamare a fare cose inedite e superiori alle capacità umane, a quanto il chiamato è sicuro di saper fare o ha fatto fino a quel momento. E proprio questa scommessa che nasce dalla fiducia porta anche a scegliere il rischio e a fare grandi cose, ma soprattutto conduce a superare preoccupazioni e timori troppo soggettivi o quella paura di fallire che dice la sfiducia verso di sé, e dunque porta a fidarsi sempre più. Così Abramo, Mosè, i profeti, Maria, gli apostoli… Non così invece tanti giovani d’oggi, dominati dalla cultura dell’incertezza e dell’indecisione, del garantismo e della rassicurazione. Ma quel che è preoccupante è che questa cultura contamina anche noi, gli animatori vocazionali, spesso altrettanto incerti e timorosi, quasi bloccati da uno strano complesso d’inferiorità (anche all’interno della chiesa e ad altri settori della pastorale) e incapaci di fare una proposta vigorosa e universale. Ecco perché di fatto sembra scattare questo triplice meccanismo riduttivo:

tutti sono chiamati,

ma non a tutti c’è il coraggio di rivolgere l’invito (1a riduzione),

di questo gruppo già ridottissimo solo pochi s’accorgono della chiamata (2a rid.),

e di questi pochi, a loro volta, solo pochissimi rispondono (3a rid.).

 

È la fotografia, davvero in bianco e nero, dell’attuale crisi dell’animazione vocazionale, sottoposta a questo processo riduttivo progressivo e dalle conseguenze fatali, simile – quanto a radicalità di contrazione numerica – a quello biblico del piccolo, piccolissimo e poi minuscolo esercito di Gedeone, ma – ahimè – con diverso spirito ed esito finale, e diverso tipo di responsabilità per noi. Di solito ci accorgiamo solo della riduzione finale, prendendocela coi giovani poco generosi, ma il problema è più complesso e coinvolge anche noi, uomini di fede a corto di fiducia (?). Chissà poi quale sarà e dove sarà lo scarto maggiore, se quello tra la nostra proposta e la concreta risposta dei giovani (come noi riteniamo evitando di metterci in discussione), o tra i (potenziali) chiamati (che sono tutti) e la nostra effettiva capacità di chiamata che si rivolge a pochi, operando fin da subito un taglio netto sulle probabilità di risposta. Sta di fatto, comunque che questa foto potrebbe anche costituire “il negativo” fotografico d’uno “sviluppo” positivo, ammesso che sappiamo riconoscere i nostri errori e porvi mano in modo intelligente. Di fatto si può e si deve intervenire positivamente in ognuno di questi passaggi.

Altra osservazione attuale importante che comunque va nella stessa direzione: oggi, dopo l’11 settembre, diventa sempre più difficile far credito a un altro, sempre più arduo fidarsi e scommettere sul futuro; viviamo in un clima di diffidenza reciproca a livello relazionale-umano, che non può non render difficile anche un cammino di fede e fiducia verso l’Eternamente amante. Ma, al tempo stesso, dobbiamo capire che proprio questa è l’attesa e l’esigenza dell’uomo d’oggi, e dunque proprio in questa direzione devono andare formazione e pastorale ordinaria. Il punto debole, insomma, può e forse deve diventare il punto decisivo per una rinascita della fede.

 

Convergenza psicologica: la libertà

Spingendo l’analisi a livello soggettivo e intrapsichico, si può forse cogliere un altro aspetto della convergenza, quella verificata dall’indagine psicologica. Secondo la quale sia l’opzione di fede che la decisione vocazionale suppongono un contesto di libertà per la persona e della persona. La fede è un atto libero e vi si educa solamente con una formazione alla e della libertà; l’atto di chi crede non ha e non deve aver nulla in comune con il calcolo in quanto tale, con la pretesa di evidenze evidentissime, con la ricerca di segni straordinari…, poiché in questi casi la mente non sarebbe libera di credere, dovrebbe… creder per forza tanto sono chiari e inequivocabili gli elementi probanti. Che sarebbe una patente contraddizione. C’è sempre invece un margine d’incertezza, di possibilità di spiegazione diversa nell’ambito (o nell’emissione) dell’atto di fede, come dire, vi sono sempre buone ragioni per credere come ve ne sono per non credere, a livello umano ed esclusivamente razionale. La differenza, su un piano psicologico, la fa la libertà del cuore che ha imparato a fidarsi ed è libero di consegnarsi. Ecco perché Gesù ha sempre rifiutato i segni “forti”, quelli richiesti dalla pretesa umana di ridurre la fede alla constatazione inequivocabile dei fatti, alla logica quasi obbligata e obbligante, in realtà semplicista e banale, della percezione dei sensi o al massimo, e a un livello più nobile, della ragione, sottraendola a quella libera dell’amore e della fiducia, appunto[1].

Così è anche per la scelta vocazionale. La psicologia sottolinea con forza la necessità che tale scelta sia libera per essere autentica. Ed è del tutto evidente. L’apporto specifico della psicologia, semmai, è nel consentire d’identificare tutti quei sottili dinamismi interiori: paure, ferite del passato, aspettative irrealistiche, distorsioni percettivo-interpretative, pregiudizi, virus della memoria, condizionamenti vari, sfiducia personale derivante da problemi d’identità… Sono tanti i nemici della libertà che abitano il nostro cuore e spesso, molto più di quanto pensiamo, disturbano o impediscono o deviano la scelta vocazionale. Ed è ancora la psicologia a cogliere la natura di questa libertà: una scelta può esser considerata libera quando nasce dalla percezione della propria identità, attuale e ideale, e matura progressivamente come attrazione e attuazione concreta di ciò che è vero, bello e buono in sé e che è percepito come tale anche per sé. Ecco perché la scelta sta diventando merce rara, e il giovane che sceglie specie in via d’estinzione: oggi si sceglie sempre meno, e ogni scelta si lascia sempre una via d’uscita o una possibilità di autosmentita, teme il “per sempre” e il gesto radicale. L’equivoco è che tutto ciò viene sentito come espressione di libertà, mentre è esattamente il contrario. Ma faglielo capire al giovane immerso in questa cultura dell’indecisione e della libertà virtuale!

 

Convenienza pastorale-pedagogica: la reciprocità

Di conseguenza non esiste altro metodo educativo alla scelta vocazionale, sul piano della efficacia e della correttezza, al di fuori del cammino di fede, ma anche viceversa, e forse proprio questo secondo itinerario (dall’opzione vocazionale alla scelta credente) è quello più interessante e da ribadire nella pastorale odierna. È dunque conveniente unificare e/o articolare i percorsi. Il che significa che si può fare un percorso che dall’opzione di fede conduce per natura sua al coraggio della opzione anche vocazionale, ma anche un cammino autenticamente vocazionale rinforza la fede, fa scegliere ancor più l’adesione credente; anzi la provocazione vocazionale potrebbe proprio essere cammino propedeutico alla fede. E cammino molto opportuno oggi, in questa fase di nuova evangelizzazione. Certi giovani lontani o indifferenti al discorso religioso potrebbero essere riavvicinati proprio attraverso il discorso sul loro futuro, al quale è impossibile che siano indifferenti. Altri tiepidi o semplici osservanti potrebbero essere salutarmente provocati a vivere coerentemente la fede esattamente dal compito ineludibile, o dall’esigenza imprescindibile di progettare la vita. In entrambe le situazioni la fede si pone come aiuto e compagna di viaggio, ma anche come stimolo forte e confronto oggettivo, punto di riferimento provocante e prezioso. Mentre laddove l’animazione vocazionale è concepita e programmata come via di scoperta o recupero della fede, lì la pastorale vocazionale esce da un ruolo subalterno e assume una fisionomia molto più autorevole e strategica in un tempo di scristianizzazione della società per un cammino di riscoperta e riappropriazione della fede.

In ogni caso tale interazione tra i due percorsi suppone e promuove un cammino continuo e di costante e reciproca illuminazione, poiché non è sano un cammino di fede che non sfocia in una decisione per la vita o in un coinvolgimento vocazionale, né è possibile decidere il proprio futuro se non a partire da un atteggiamento credente e senza che la decisione porti a un confronto impegnativo con il vangelo o ne consenta una scoperta o riscoperta, o non porti a un aumento della fede e a una sua personalizzazione progressiva.

Ed è già un’indicazione pastorale-pedagogica preziosa e precisa, che però va ulteriormente concretizzata perché diventi itinerario normale d’iniziazione alla fede e alla scelta vocazionale di ogni credente. Se quanto abbiamo detto è vero in teoria, infatti, non è affatto detto che sia anche quello che accade nella prassi pastorale e vocazionale. Con rischi conseguenti.

 

 

Cammini paralleli sul piano operativo

Il rischio è quello soprattutto che i due cammini si ignorino concretamente. È un rischio sovente non voluto, frutto spesso di disattenzione pastorale, o di concezione ancora settoriale delle dimensioni della fede e della sua crescita, o di residui d’un certo modello antropologico non ancora abbastanza unificato e integrato in se stesso.

 

Fede senza identità (vocazionale)

Sarebbe la fede sterile, che non genera nulla o che non incide granché sulla vita vissuta. Si crede, ma tale tipo di fede resta teorico e astratto, disincarnato e lontano dalla storia, a volte addirittura smentito dal resto della vita e dei comportamenti della persona, che s’illude di credere semplicemente perché aderisce con l’intelletto o celebra un certo culto o non trasgredisce un determinato codice comportamentale. Ma una fede che non determina l’identità dell’individuo è solo ideologia. Se, infatti, c’è un ambito privilegiato e decisivo in cui la scelta di fede può e deve diventare incisivo tale ambito è esattamente quello della propria identità (da cui poi deriva la scelta vocazionale corrispondente), o della identità vocazionale.

È un rapporto, questo, tra fede e identità vocazionale che andrebbe meglio esplicitato nella dinamica pastorale entro un cammino e un progetto formativo chiaro, e magari anche “celebrato” in qualche modo, all’interno della comunità credente, a dimostrazione d’una decisione reale e radicale di vita, che segna il proprio essere e imprime una precisa direzione all’esistenza. Non sarebbe male pensare a una sorta di “professione della propria identità”, come punto d’arrivo d’una formazione e catechesi giovanile, quale opzione fondamentale della propria esistenza. Quanti giovani oggi sono semplicemente… senza identità, o quanti cristiani vivono una fede che non si traduce in scelta d’identità precisa, che non genera identità cristiane! Probabilmente sono da ricercare tra coloro di cui dicevamo prima, che credono ma non si fidano…

In realtà questo fenomeno della fede senza identità corrispondente (né scelte corrispondenti) è molto frequente: ogni volta che la Parola è proclamata, o che l’Eucaristia è celebrata, ogni cristiano dovrebbe porsi la stessa domanda che gli ascoltatori di Giovanni Battista rivolsero con coraggio al profeta, o che i primi convertiti rivolsero a Pietro, dopo il suo discorso a Pentecoste: “E noi ora che dobbiamo fare?” (Atti 2,37). Se una catechesi o un servizio caritativo, o un’omelia o l’amministrazione d’un sacramento non finisce per “trafiggere il cuore” e sollecitare la persona a dare più credibilità alla sua stessa fede, non merita il nome “cristiano” né s’è trattato d’una vera catechesi, ma di qualcos’altro non meglio identificato, innocuo e inutile, o illusorio e virtuale.

 

Identità (vocazionale) senza fede

Qui la persona ha il coraggio di assumere un’identità, ma al di fuori d’una prospettiva credente. Le sue decisioni non nascono da essa e non portano a essa. C’è come una schizofrenia tra fede e vita, ancora, che consente al cosiddetto credente di vivere una sorta di doppia esistenza: credente e non credente, o del fedele osservante (domenicale) e dell’ateo feriale, o del battezzato che non s’è mai convertito né è mai diventato cristiano. E che dunque, di fatto, sceglie stile di vita, futuro, mestiere, sistemazione di vita (sentimentale ed economica), criteri e condizioni esistenziali… al di fuori d’una prospettiva o di motivazioni credenti.

È infatti sconcertante osservare la leggerezza e disinvoltura con cui certi cosiddetti cristiani riescano a smentire nella loro vita concreta certi principi e prospettive valoriali che vengono dalla fede, nell’interpretazione del senso della vita o nel valutare ciò che è importante, nell’uso dei beni o nell’accumulo del denaro, nell’accaparrarsi posti di prestigio o nel tendere verso la carriera come un idolo, nel reagire a chi offende o a chi è nemico, nel non tener conto dei diritti e necessità altrui, specie dei più bisognosi, nelle scelte educative e nell’uso del tempo…

Ovvio che tutto questo crei un clima antivocazionale.

 

 

 

DALL’OPZIONE DI FEDE ALLA SCELTA VOCAZIONALE

 

Entriamo ora nella parte più propositiva della nostra riflessione. Anzitutto prendiamo in considerazione il primo percorso possibile, quello anche più classico e logico, che dalla educazione alla fede conduce poi o dovrebbe inevitabilmente condurre alla formazione vocazionale. Partiamo da una definizione della fede in prospettiva decisionale e poi cerchiamo di indicare alcune piste pedagogiche.

 

Credere è scegliere e conduce a lasciarsi scegliere

Il collegamento tra opzione credente e opzione vocazionale ci offre il vantaggio di cogliere un aspetto fondamentale della fede e della fede cristiana in particolare. Abbiamo già detto della connessione intrinseca tra il credere e il decidere, di sé e della propria vita. Ma qui c’è qualcosa di più, che è offerto proprio dal dialogo stretto tra le due opzioni a livello teologico e assieme psicologico: entrambe sottolineano la necessità di giungere a una scelta nella vita, ma se la scelta è coerente con la fede (cosa, abbiamo visto, tutt’altro che scontata) conduce la persona non solo ad affidarsi a un Altro più grande di cui fidarsi, ma a lasciarsi scegliere da Costui.

In altre parole, è come se la scelta della fede portasse a scoprire quel Dio che ci ha scelti ancor prima della creazione del mondo, ci ha amati e chiamati, benedetti e santificati… (cfr. Ef 1,3-4). In quel punto fede e vocazione si saldano assieme: la propria vocazione rappresenta il modo personale e inconfondibile di credere, mentre il credere assume ancor più l’aspetto non solo intellettualeteorico, ma esistenziale-totale, e assieme, fede e vocazione dicono la libertà dell’uomo che si lascia scegliere o si lascia amare, che si fida perdutamente consegnandosi totalmente all’Altro.

Questo Altro che è il Padre-Dio, da un lato ci precede chiamandoci; d’altro lato noi costruiamo la nostra identità e dignità lasciandoci amare-chiamare-scegliere-costruire da lui. Di qui due precisazioni significative anche sul piano del metodo. La prima, di natura più teologica, ci ricorda che la pastorale vocazionale non consiste essenzialmente nella sollecitazione dell’iniziativa umana, ma nell’indicazione, anzi, nell’invito a contemplare quella divina. Solo da questa contemplazione che fa cogliere il primato dell’azione divina può nascere l’autentica risposta umana, come una resa libera dinanzi all’amore eterno.

La seconda, più di carattere psicologico, ci rammenta che l’essere umano è fatto per consegnarsi e affidarsi a un altro, per accoglierlo incondizionatamente nella propria vita; a chi o a che cosa lo deciderà lui, ma in ogni caso non può fare a meno di compiere questo gesto. Allora egli mostra la piena maturità, non tanto quando s’afferma nella sua individualità e autonomia per giungere all’autorealizzazione, ma quando decide liberamente di consegnarsi; mai così libero come quando decide di accogliere incondizionatamente l’altro e lasciarsi condizionare dalla sua alterità.

 

 

Itinerari pastorali come itinerari di fede

Abbiamo due indicazioni pedagogiche preziose offerteci a tal riguardo da altrettanti documenti. Il primo dal Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa[2], relativo agli itinerari pastorali veri e propri, il secondo dagli Orientamenti Pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del duemila[3], sulla qualità dell’esperienza. Il primo riguarda i contenuti dell’annuncio, il secondo le modalità d’un annuncio della fede che porta al coraggio della scelta.

 

Itinerari di fede: contenuti oggettivi

Il documento del Congresso europeo sulle vocazioni dà al riguardo un’ indicazione ben precisa, in cui s’incontrano il frutto d’una certa tradizione pastorale e l’attenzione pure alle difficoltà della pastorale odierna. È un’indicazione che conosciamo bene per averla più volte richiamata nei nostri convegni, e che qui sarà sufficiente ricordare. Si tratta d’un cammino lungo quattro direttrici: la koinonìa, la martirìa, la diakonìa, la liturgia, ovvero l’esperienza di chiesa come comunità in cui è possibile vivere la comunione, il coraggio della testimonianza e dell’annuncio del Vangelo, il servizio della carità, la preghiera e la liturgia come luogo di ascolto e contatto col Mistero[4]. Quando in una comunità ecclesiale questi 4 percorsi sono aperti e attivi e offerti al cammino del singolo e della comunità, quella comunità è una scuola di fede. Perché quei percorsi rappresentano in qualche modo l’elemento oggettivo-normativo del credere che, notoriamente, non è manifestazione d’una vaga e soggettiva religiosità, ma significa alla radice l’accettazione incondizionata dell’Altro che è Dio, della sua autocomunicazione in Cristo, del dirsi del Padre nel mistero pasquale del Figlio, fatto oggettivo e storico, che svela definitivamente il volto dell’Eterno amante e fissa una volta per tutte la regola della fede, quell’ordo amoris che riassume e contiene in sé ogni verità di fede, o quella forma da cui deriva poi ogni norma, o quella vocazione universale (la chiamata-madre) dalla quale poi sgorga e nasce la vocazione del singolo.

Per questo, a livello pedagogico-metodologico, sarà importante che l’operatore pastorale “provochi nel senso d’un impegno che non sia su misura dei gusti del giovane, ma sulla misura oggettiva dell’esperienza di fede, la quale non può, per definizione, esser qualcosa di addomesticabile”[5]; così come sarà decisivo che il giovane impari a dare la precedenza all’oggettivo sul soggettivo, “se vuole davvero scoprire se stesso e quello che è chiamato a essere”[6]. Può sembrare strano questo principio, ma in realtà vuole solo garantire al giovane stesso un’esperienza integrale, piena, totalmente rispondente alle attese profonde umane e altrettanto appagante, per poi metterlo in grado di dargli il coraggio di giungere a una decisione senza rimandarla all’infinito.

Credo che questa indicazione teologica prima che pedagogica sia assolutamente preziosa e da non dare per scontata: sia per evitare unilateralismi interpretativi del messaggio cristiano (coi vari eccessi sui singoli versanti, quasi dei fondamentalismi, quando tali aspetti non sono connessi tra di loro), sia perché quando lo stesso messaggio è colto e accolto nella sua integrità, allora e solo allora può anche manifestare la sua bellezza e sprigionare il suo fascino. La crisi di fede è anche crisi di attrazione del cristianesimo, e prim’ancora crisi della possibilità di fare esperienze piene del messaggio evangelico, quasi crisi di praticabilità del messaggio stesso, a causa anche di proposte solo parziali e riduttive della ricchezza del messaggio evangelico, o di cammini pastorali altrettanto incompleti e incompiuti e che, in quanto tali, non possono portare da nessuna parte, tanto meno a una scelta vocazionale.

Insomma, in concreto, non basta il gruppo di preghiera o la liturgia fatta apposta per i giovani (magari con ogni libertà d’espressione), ma neanche può esser sufficiente l’esperienza pur profondamente coinvolgente della GMG o di megaraduni giovanili sprizzanti voglia di vivere e di stare insieme attorno a un simbolo religioso (fosse anche il Papa), così come un intelligente operatore pastorale non può illudersi che la provocazione intellettuale sia quanto basti e accontentarsi di organizzare ottime lezioni di catechesi o dotte conferenze per i suoi giovani, e neppure dare per scontato che un tempo di volontariato al Cottolengo gli trasformerà il giovane e magari gli farà nascer dentro anche la vocazione[7]. Nessuna di queste operazioni è sufficiente da sola, ma sono tutte assieme indispensabili.

 

Qualità dell’esperienza: modalità soggettive

La seconda indicazione ci viene dagli attuali Orientamenti Pastorali della Chiesa italiana, nei quali, precisamente nella sezione dedicata alle scelte pastorali, viene raccomandata la capacità di comporre e ricomporre continuamente, in Cristo, il rapporto tra itinerari di fede e la vita di ogni giorno. A poco varrebbe definire, per quanto correttamente, gli itinerari pastorali, se poi questa teorizzazione o la stessa offerta di percorsi non s’incontrasse con la vita di tutti i giorni e di tutti i credenti. È forse un punto debole della nostra pastorale, ancora da un lato molto teorica e, dall’altro, piuttosto elitaria, al di là delle apparenze.

A tale scopo il documento formula e propone, nel suo insieme, un percorso che dovrebbe riportare la ricchezza della formula teorica alla dinamica della vita concreta quotidiana, e assieme consentire al singolo credente di realizzare nel piccolo della sua storia credente una esperienza vera e propria di fede. Le tappe del percorso sono ancora quattro: ascolto, esperienza, condivisione, testimonianza[8].

Sono termini che non hanno bisogno di spiegazione. Semmai è interessante la corrispondenza tra i quattro itinerari di fede e le quattro caratteristiche d’una esperienza qualitativa di fede, e dunque potrebbe esser importante nella prassi pastorale connettere concretamente tra di loro gl’itinerari con le caratteristiche qualitative del cammino credente. In pratica il momento della liturgia va connesso con la caratteristica dell’ascolto e del contatto personale con Dio, entro il quale possa risuonare la sua voce che chiama; la diakonìa va connessa con la qualità dell’esperienza, per sottolineare la necessità d’un coinvolgimento personale nel dono effettivo di sé; la koinonìa va correlata con la condivisione della fede e del dono spirituale all’interno della comunità credente, perché lo stare insieme non sia solo esperienza gratificante e banale; la martirìa con il coraggio e la fatica della testimonianza della fede oltre i confini della comunità credente. L’opzione di fede è la risultante esattamente di queste correlazioni.

Anche qui la cosa importante non è la singola sottolineatura, quanto l’insieme del disegno, la connessione tra le parti, la scoperta del legame che le mantiene unite, la costanza nel proporre un cammino di fede che ripercorra regolarmente queste tappe, il richiamo, eventualmente, per chi ne “dimentica” qualcuna a non saltarne nessuna, l’arte pedagogica del sapere scomporre qualsiasi proposta o provocazione in questi quattro momenti perché ne risulti una possibilità di contatto piena e ricca di senso, perché ogni messaggio cristiano, ordinario e straordinario, sia vissuto con un’alta qualità esperienziale. Poiché ciò che dà qualità alla vita, come specifica la psicologia, è esattamente il livello di coerenza tra ciò che si fa e ciò in cui si crede e si ama, coerenza e linearità che toccano anche la modalità operativa, lo stile generale di vita, dando unità alla vita stessa e senso d’appagamento e gratificazione profonda, per quanto discreta, in quel che si fa.

La fede, in se stessa, indica ed è qualità della vita e dell’esperienza, o è il punto d’arrivo e di partenza d’una esperienza d’alta qualità.

 

 

Itinerario di fede come itinerario vocazionale

Tale itinerario, con le 4 articolazioni viste sul piano del percorso (o dei contenuti) e della qualità dell’esperienza (o delle modalità), può divenire anche itinerario vocazionale: lo diviene, di fatto, quando vengono rispettate alcune caratteristiche formali e assieme contenutistiche dell’esperienza credente.

 

L’esperienza della fede è oggettiva e soggettiva[9]

Dicevamo dell’esigenza di proporre cammini completi d’esperienza di fede, per porre il giovane stesso dinanzi alla realtà complessa e però oggettiva del dono, e non esporlo al rischio di lasciarsi condizionare da sue illusioni o pretese soggettive sempre riduttive rispetto a quella complessità, ma anche per favorire la scoperta della propria identità in quel dono o alla luce d’esso. Aggiungiamo e specifichiamo ora che tale educazione all’oggettività della fede è proprio ciò che apre a una possibilità di scelta vocazionale. Infatti “è solo il rispetto di questa misura oggettiva che può lasciar intravedere la propria misura soggettiva”, anzi, solo quando il giovane impara a dare la precedenza all’oggettivo sul soggettivo, come abbiamo già ricordato, può davvero scoprire se stesso e quello che è chiamato a essere. In altre parole, “deve prima realizzare ciò che è richiesto a tutti se ci tiene a essere se stesso”[10].

Anche questo, nell’attuale cultura del fai-da-te, del soggettivismo esasperato ed esasperante, del narcisismo esibito come virtù, è il classico punto debole (come il tema della fiducia) che può diventare invece elemento caratteristico e peculiare d’una autentica catechesi cristiana, non solo ciò che fa la differenza, ma ciò che garantisce da percorsi personali selvaggi e autogestiti che non fanno arrivare da nessuna parte e rendono l’autorealizzazione prima un mito (irraggiungibile) e poi una pura finzione. Importante sarà, in ogni caso, non solo il coraggio intelligente di proporre il dato oggettivo della fede e del cammino cristiano, ma sollecitarne l’appropriazione soggettiva, la personalizzazione originale, l’interpretazione creativa. Che è quello che avviene con la scelta vocazionale, sintesi di oggettività e soggettività, di chiamata a essere secondo una identità precisa e di risposta che s’appropria di quella modalità d’essere.

 

L’esperienza della fede è totale (d’una totalità oggettiva e soggettiva)

Alla totalità della proposta, quando è articolata su quei 4 percorsi di cui abbiamo detto, dovrebbe corrispondere la totalità del soggetto, ovvero la totalità dell’oggetto richiama la totalità del soggetto, e viceversa. Solo questo incontro può generare disponibilità alla decisione o può condurre alla soglia del mistero della identità e del futuro. Concretamente, assieme alla preoccupazione di fornire itinerari completi d’iniziazione alla fede, va posta ogni attenzione per sollecitare un impegno corale del soggetto, a livello, cioè, delle sue strutture intrapsichiche, cuore-mente-volontà, ma anche sensi interni ed esterni, memoria, emozioni… perché lentamente anche gusti e attrazioni, desideri dello Spirito ma anche della carne, aspirazioni e timori, conscio e inconscio…, tutto, insomma, si diriga e orienti verso una certa sensibilità. Allora e solo allora è possibile una scelta.

Si dice e si sente dire che il giovane d’oggi non si commuove più, o che ha una soglia emotiva molto alta, scafato e rotto com’è alle provocazioni più dirompenti. In effetti si tratta di cum-movere lo psichismo, il mondo interiore, le forze vive della personalità giovanile. E questo è tanto più possibile, ripetiamo, quanto più l’oggetto in questione è presentato nella sua totalità, ovvero quando il giovane è provocato a farne un’esperienza globale (= i 4 itinerari), perché solo la totalità dell’oggetto può smuovere la totalità del soggetto, mentre – d’altro lato – solo la totalità del soggetto può attingere l’oggetto e la sua totalità, ovvero la sua verità-bellezza-bontà, e sentirsi attratto verso di essa. Solo così si smuove l’inerzia giovanile, e si reimpara a com-muoversi, che non è solo caratteristica tipicamente umana, ma condizione per smuoversi a scegliere.

 

L’esperienza della fede è relazionale (un Tu che chi-ama l’io)

Ancora, l’autentica esperienza credente è esperienza d’una relazione, d’un tu che entra nella propria vita con tutta la sua alterità. Fede, abbiamo detto, è capacità di accettazione incondizionata dell’Altro. Da un lato tale apertura è esperienza d’uno che viene verso di me, chi-amandomi, perché mi ama, è dunque esperienza d’amore ricevuto e gratificante, d’una relazione che mi fa sentir vivo e prezioso agli occhi di questo Altro, spingendomi al tempo stesso a uscire da me stesso e da una concezione della vita che pone il mio io al centro della vita stessa. D’altro lato questa apertura è anche esperienza d’una presenza non omologabile dall’io, d’un tu che è il Radicalmente Altro per eccellenza, le cui vie e pensieri sono molto diversi e spesso imprevedibili, che aprono orizzonti nuovi e inediti, ma possono anche chiedere tagli dolorosi e pesanti.

La fede è la sintesi d’entrambi questi aspetti, ma in ogni caso sempre a partire dal superamento d’ogni egocentrismo, “la madre di tutti i peccati” (come dicevano i Padri), da ogni forma di ripiegamento egoistico su di sé, poiché la fede è essenzialmente relazionale. È educare a stare davanti al Padre Dio, nella gioia di sentirsi suoi figli, ma è anche la faticosa educazione a scoprire progressivamente le esigenze del suo amore, a entrare nei suoi piani, a compiere la sua volontà di salvezza, a capire che la nostra vita e felicità stanno nel fare quel che a lui è gradito.

Questo tipo di fede educa anche alla prospettiva vocazionale, poiché credere non è un fatto di semplice ossequio religioso al Trascendente, ma rottura del confine della propria individualità o dell’incanto dell’autocontemplazione narcisista. Una fede che forma a mettersi in ascolto d’una voce o d’un appello che viene da fuori, non dunque addomesticabile dal soggetto, è fede che forma alla disponibilità vocazionale, a lasciarsi provocare da questo Tu, amante e misterioso, che unico può svelarmi il mistero della mia storia, superando la pretesa di sapere già tutto o di bastarmi da solo per conoscere il mio io o di affidarmi a parametri meschini e inadatti, o dall’occhio miope e dal respiro corto per progettare il futuro.

Una fede che educa alla relazione con il Tu di Dio regala la libertà affettiva, ovvero le due certezze strategiche che ogni uomo cerca (di esser già stato amato, da sempre e per sempre, e di saper e poter amare, per sempre), e la libertà affettiva è la condizione sine qua non per qualsiasi scelta di vita, tanto più per una scelta di dono di sé dettata dall’amore (o da quelle certezze).

 

L’esperienza della fede è dinamica (e la sua più alta espressione è il dinamismo della scelta)

Infine, la fede è un fatto essenzialmente dinamico, come passione che investe con la sua energia ogni azione e dà sostanza al vivere umano, ma che soprattutto rende possibile la scelta vocazionale. Solo una fede forte (dinamica, appunto) fa crescere nella disponibilità vocazionale, così come ne è rinforzata.

Dire che la fede è dinamica significa dire che essa è connessa a tutte quelle operazioni (dinamismi) che esprimono l’atto credente e ne dicono la natura complessa e variegata, anzi, tali dinamismi rappresentano in realtà le dimensioni proprie dell’atto del credere, distinte tra loro e pure strettamente collegate. Tali articolazioni sono:

– la fede come dono ricevuto e che suscita gratitudine,

la fede come preghiera e celebrazione,

la fede vissuta-personalizzata e tradotta in scelte di vita, 

la fede provata e sofferta,

la fede studiata e compresa,

la fede condivisa (comunicata e ricevuta) coi fratelli credenti,

la fede annunciata a tutti e testimoniata.

In altre parole: fede ricevuta – fede pregata – fede personalizzata – fede combattuta – fede studiata – fede condivisa – fede annunciata. Credere vuol dire metter in atto tutte queste operazioni: l’una è legata all’altra in un rapporto di reciprocità complementare. Tutte assieme non solo irrobustiscono l’atto di fede ma confluiscono naturalmente nella scelta vocazionale come opzione fondamentale di vita e d’identità, come appropriazione definitiva della fede, come espressione del proprio personalissimo modo di credere. Anzi, potremmo dire che tale opzione rappresenta il punto massimo, più alto e del tutto coerente dei dinamismi della fede, i quali non sarebbero autentici e credibili se non determinassero nel singolo una scelta esistenziale stabile corrispondente. È come se tale scelta, e la vocazione in ultima analisi, fosse il cuore segreto di tutte queste operazioni, il loro nesso coesivo, punto d’arrivo e poi progressivamente anche di partenza, ciò che dà un colore e calore particolare a ognuno di questi dinamismi e ciò, al tempo stesso, che ne è rinforzato continuamente e reso sempre più efficace e convincente a livello di testimonianza del credente. La scelta vocazionale è la casa costruita sulla roccia! Se manca qualcuna di queste componenti, l’atto di fede s’indebolisce e l’organismo credente diviene monco, dunque incapace di provocare la scelta vocazionale o sabbia che rende debole e instabile quant’è costruito su di essa. Il principio, insomma, è chiaro: la scelta vocazionale è possibile solo a partire da una fede forte, e la fede è resa forte esattamente dai suoi dinamismi tipici[11]; mentre laddove questi non sono presenti al completo o sono debolmente presenti e poco connessi tra loro, la fede è debole e improbabile sarà la capacità di opzione vocazionale.

Nella pastorale, allora, sarà necessario facilitare e provocare questo raccordo, stimolando il giovane a pregare-celebrare ciò che è chiamato a credere, a tradurlo in gesti concreti e personali, a lasciare che esso “provi mente e cuore” (Sal 7,10), a cercare di capirlo con la fatica dell’approfondimento mentale, a condividerlo nella comunità credente, ad annunciarlo con coraggio al di fuori della comunità stessa e nei vari ambienti esistenziali. Solo a questo punto sarà possibile che la fede lasci scoprire la vocazione come la sua forma espressiva, o che l’atto credente divenga anche scelta di vita, quasi condensandosi in essa o trasformandosi in quella valuta pregiata che circola liberamente in tutti i dinamismi della persona rendendoli inconfondibili, o in quella dracma da cercare e ritrovare in continuazione e da metter sempre più al centro dell’esistenza. Fino al termine della vita!

 

 

 

DALLA SCELTA VOCAZIONALE ALL’OPZIONE CREDENTE

 

Se il cammino di fede fa sorgere l’opzione vocazionale è anche possibile il cammino inverso, per così dire, quello che dall’itinerario vocazionale conduce al rinforzo o addirittura alla scoperta della fede. Questo è forse il cammino in parte nuovo, non proprio tradizionale, eppure forse particolarmente atteso e opportuno oggi. Nel contesto attuale di progressivo distanziamento psicologico specie dei giovani o comunque di crescente difficoltà nel proporre a ragazzi, adolescenti e giovani la prospettiva credente, il tema del proprio futuro, cui ognuno è inevitabilmente interessato (anche se lo nega), potrebbe costituire l’occasione per riaprire un certo discorso o divenire lo stimolo che restituisce interesse alla proposta credente. Insomma, la sollecitazione vocazionale intelligentemente proposta (al di fuori, cioè, di interpretazioni mercantili e non rispettose del cammino del singolo) potrebbe essere la strada lungo la quale risvegliare una fede sopita o fare nascere una fede nuova, e la pastorale vocazionale divenire la pastorale strategica e addirittura vincente in questi tempi post-moderni. Anche per questo il Documento del congresso europeo afferma che la pastorale vocazionale è la prospettiva originaria, ma anche quella unitario-sintetica della pastorale in genere, anzi, la pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale oggi[12], quella su cui si dovrebbe investire di più per ritrovare e riproporre autentici percorsi credenti (prima ancora che per riempire seminari e noviziati).

Il nostro obiettivo, dunque, ora è soprattutto quello di evidenziare non solo la corrispondenza tra cammino di fede (prima) e scelta vocazionale (poi), ma la capacità della proposta vocazionale di attivare un genuino percorso credente. Seguiremo lo stesso schema del punto 2. Partendo da una definizione della scelta vocazionale in relazione con la prospettiva credente (p)e(r) poi cercare di indicare alcune piste pedagogiche.

 

 

Scegliere è credere e conduce a fidarsi

Abbiamo in sostanza già visto il rapporto tra opzione di fede e scelta vocazionale, un rapporto che trova nella fiducia l’elemento comune. Ci basterà ora dire e aggiungere che il fenomeno della scelta, e in particolare della scelta centrale della propria vita, ovvero la scelta d’una vocazione, gioca un ruolo significativo nella crescita della fede, infatti non solo nasce dalla fede (come abbiamo visto finora), ma porta a vivere la fede come fiducia, secondo cioè la sua natura, il suo elemento radicalmente costitutivo.

L’autentica scelta, infatti, qualsiasi scelta che in qualche modo comprometta il proprio futuro e la propria vita, come vedremo meglio poi, non avviene in base a un calcolo infallibile dei pro e contro una certa decisione, né in forza d’una valutazione che pretenda cogliere in modo inequivocabile la linea da seguire. Certamente la scelta è anche evento razionale, implica un confronto e un’analisi con cui si cercano motivazioni plausibili; ma soprattutto quando ci sono di mezzo le ragioni fondamentali del vivere e del morire, non si può pretendere di fare scelte puramente calcolate e razionali, garantite e rese supersicure da un’evidenza matematica. L’ultima ragione di questo tipo di scelte (ma, ripetiamo, in genere ciò riguarda qualsiasi decisione) è la fiducia che s’accorda a un altro (o un Altro), di cui ci si fida al punto di consegnarsi a lui, come abbiamo già ricordato.

Al punto che è proprio la scelta che dice quanto ti fidi realmente, del tu, anzitutto, cui ti sei consegnato, ma anche di te stesso, della vita e della realtà, degli altri in genere. E allo stesso tempo è sempre la scelta che aumenta la fiducia, che rende sempre più credibile il rapporto con questo Altro, ponendolo al centro della vita e degli affetti. È solo la decisione, e tanto più quella vocazionale, che apre all’esperienza di Dio come qualcuno di cui ci si può davvero fidare, del Dio affidabile[13]. Chi non sceglie è sempre un tipo pauroso, e la paura, per definizione, è espressione di sfiducia, anche nei confronti di Dio. Ecco perché diviene importante cogliere il percorso della decisione in quanto tale e della decisione vocazionale.

 

 

Gli elementi costitutivi della decisione umana

Ogni decisione personale, ci ricorda l’analisi psicologica, implica quattro caratteristiche: la rinuncia, la preferenza, il legame col passato, l’orientamento verso il futuro[14].

 

La rinuncia

Per realizzare ciò che desidero devo rinunciare. Volere una cosa significa automaticamente rinunciare a un’altra incompatibile con la precedente. C’è una rinuncia comunque, anche quando si decide di non decidere. È una rinuncia non tanto a cose esterne (abilità, occasioni…) quanto a una parte dell’io stesso, ad alcune sue esigenze e bisogni, o al loro esercizio. Se voglio dare un senso alla mia giornata devo rinunciare ai desideri opposti: dormire, evitare i guai, fantasticare… Ogni decisione, va dunque detto molto realisticamente, è una limitazione delle potenzialità personali, una mortificazione, anche se il termine appare desueto e poco invitante. Ricordiamo che stiamo parlando di scelte qualsiasi.

 

La preferenza

Si sceglie una possibilità non perché è la sola possibile, ma perché preferita ad altre pur accessibili. La rinuncia deve essere giustificata da una preferenza per non diventare mortificazione costrittiva. Richiede che i valori rinunciati non vengano in alcun modo disprezzati. Non è la malizia di ciò che si esclude, ma la desiderabilità di ciò che si sceglie a provocare l’esperienza dell’addio. Questo con qualsiasi tipo di scelte, ma a maggior ragione se scelgo valori religiosi: la rinuncia deve essere tale che non ci può essere nessuna ragione giustificante (cioè obbligante) all’interno dell’ordine creato delle cose. La rinuncia è invece risposta libera o, al tempo stesso, conseguenza inevitabile della scoperta della qualità superiore di ciò che si sceglie. In termini più esplicitamente cristiani se la rinuncia è la manifestazione di quanto seriamente prendiamo Dio (“la cui grazia vale più della vita”), la preferenza esprime quanto profondamente ci lasciamo prendere da Dio (“tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”).

 

Il legame col passato

Ogni decisione, anche quella che sembra banale e comunque poco significativa, ha la sua storia e dice qualcosa di noi, è inevitabilmente connessa con scelte precedenti o con uno stile di vita già collaudato. La scelta del presente in qualche modo svela questo passato, o ne svela conseguenze e implicanze, abitudini indotte e a volte profondamente radicate, al punto da risultare difficilmente modificabili. Tale legame non va comunque in alcun modo assolutizzato o enfatizzato, fino a eliminare tout court libertà e responsabilità, come vorrebbe oggi certa cultura deresponsabilizzante e dilettante (nel senso che sembra proprio giocare con certa psicologia mal divulgata e peggio ancora assimilata, da rotocalco). La verità è che noi possiamo non essere responsabili, o non esserlo del tutto, delle tendenze ereditate dal passato, ma siamo in ogni caso ora responsabili del rapporto che stabiliamo verso di esse, di quanto facciamo per esserne consapevoli, per coglierne le radici e per tenerle sotto controllo[15]. Qui si decide la maturità della scelta.

 

L’orientamento verso il futuro

La scelta fatta diventa il fondamento per tutte le scelte future che devono ancora essere pensate. Decidersi è come disegnare una cornice: delimita dei confini e distingue lo spazio interno da ciò che rimane fuori; questo spazio dovrà essere riempito dalle decisioni future, le quali saranno qualificate come riuscite e vere solo se saranno nella stessa linea di questo primo inizio liberamente scelto. “La condizione dell’impegno è che la persona si renda incapace di rovesciare la sua decisione… Deve mantenere un atteggiamento inequivocabile verso l’alternativa scelta e rinunciare all’altra; tale rinuncia darà un contenuto di gioia all’alternativa scelta”[16]

L’insieme di questi quattro elementi permette di definire la decisione come un orientamento che pone le sue radici nel passato e liberamente imposto all’intera nostra esistenza. Libertà e auto-imposizione si richiamano a vicenda: l’auto-imposizione è la conseguenza della libertà, così come l’imperativo è la conseguenza dell’indicativo. Proprio per questo abbiamo sostenuto e sosteniamo, come dice molto chiaramente Manenti, che “alla radice della decisione non c’è un’evidenza matematica, ma un atto libero che si basa solo su una certezza morale: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale che può essere superato solo osando e rischiando. Non è possibile prevedere i singoli eventi futuri; decidendosi, l’uomo fa un passo nel futuro sconosciuto sorretto tuttavia dalla conoscenza delle proprie forze morali e quindi dalla conoscenza del suo modo probabile di agire di fronte a futuri avvenimenti. Il futuro rimane libero, tutto da fare; è un processo di avveramento continuo che mette alla prova la capacità di integrazione di chi decide. Tuttavia questo futuro, anche se rischioso, non è mai arbitrario perché guidato dall’orientamento liberamente scelto.

Una volta deciso, la persona si vede ‘costretta’ a interpretare tutta la vita seguente alla luce dell’orientamento scelto. La decisione presa diventa una chiave di interpretazione per il futuro: la vita sarà genuina solo se fedele a questo inizio. Ci si decide e poi ci si vede prenotati per il futuro. Questa auto-imposizione non significa freddo volontarismo o castrazione di sé, ma esprime l’elemento preferenziale implicato in ogni scelta libera. Tale imposizione fatta non per forza, ma per scelta darà un contenuto di gioia al resto della vita.

La bellezza della decisione consiste proprio nell’aver attuato il desiderio: ci decidiamo per qualcosa perché intrinsecamente apprezzabile. La decisione ‘bella’ non si basa su giustificazioni esterne (mi impegno per avere un vantaggio, per paura, per non sentirmi in colpa…), non si basa neanche su motivazioni sociali come la pressione di gruppo (così fan tutti), la tradizione (ci si aspetta che anch’io prima o poi mi sistemi), l’identificazione (mi impegno perché un altro me lo ha detto). La decisione matura si fonda su giustificazioni interne, che derivano dall’apprezzamento per ciò che si sceglie: mi impegno perché io ci credo e questa decisione nasce dalla mia volontà libera. Forse il suo inizio si rifà al gruppo di amici, all’educazione ricevuta, all’esempio degli altri, ma il momento critico è quando l’interessato si stacca da queste occasioni per ratificare in modo personale e in solitudine la decisione di consegnarsi per sempre, senza restrizioni e riserve”[17].

È stato dimostrato anche sperimentalmente che la decisione fornisce tre caratteristiche durature che mancano invece agli indecisi[18]. Chi decide in base a convinzioni

a) è più capace di costanza: in nome dei valori liberamente scelti sa rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri bisogni, è più capace di sopportare la tensione pur di raggiungere l’obiettivo, ha la forza di perseverare rinunciando anche a ciò che piace, ma che risulta fuorviante. 

b) Inoltre, è più capace di resistere alle avversità: proprio perché motivato dalla forza del valore accettato, si possono superare le remore che derivano dalla paura del fallimento e neutralizzare la falsa prudenza che tiene lontano dal rischio e dal pericolo; in nome del valore scelto, si è più disposti a sostenere compiti difficili anche se molto probabilmente portano al fallimento. 

c) In terzo luogo, la decisione abilita la persona a essere maggiormente agente di cambiamento sociale proprio perché non pretende di essere confermata dal rinforzo sociale, la persona è più capace di influire sugli altri e condizionare l’ambiente.

 

 

Prezzo e differenza della decisione cristiana

Ammesso anche che decidersi è bello, non lo si fa. La decisione fa problema e quella cristiana ancor di più, e – se possibile – più ancora la scelta vocazionale. La scelta cristiana è di un tipo tutto particolare che con le altre decisioni ha in comune solo il nome: se ad essa applichiamo criteri che non le appartengono appare assurda e rimane necessariamente inevasa[19].

 

La perfetta decisione “umana”, infatti, deve essere:

a) Sicura: gli elementi di rischio devono essere ridotti al minimo; fra tutte, è migliore quella decisione che più sa assicurarsi contro l’errore e il rischio di sbagliarsi. Di qui la ricerca di quanto possa in qualche modo non solo progettare, ma prevedere, se possibile, il futuro, a partire da ciò che la persona è ed è sicura di saper fare. Qualsiasi scelta che preveda prestazioni percepite oltre le proprie capacità sono accuratamente evitate; il rischio sarà quello di scegliere non il massimo di quel che si può dare e di ripetere quel che si è già, in una sorta di autoclonazione psicologica.

b) A minimo costo: è preferibile quella decisione che raggiunga l’obiettivo con il massimo di efficienza e il minimo di perdita. Sembra criterio molto logico; in realtà nasconde la paura di complicarsi la vita e finisce non di rado per orientare la decisione verso obiettivi non troppo impegnativi, o per ridurre, impercettibilmente, livello e qualità delle proprie aspirazioni. 

c) Precisa e chiara prima ancora della sua attuazione e in tutti i suoi dettagli: gli obiettivi, finali e intermedi, devono essere esaurientemente analizzati fin dall’inizio in modo da ridurre al massimo l’intromissione, nella fase di attuazione della scelta, di variabili future impreviste. Anche questa pretesa sembra molto razionale e prudente; ma lascia aperto un interrogativo altrettanto realista: è mai possibile fare una scelta così, che riesca davvero a prevedere tutto, quando si tratta di scegliere per la vita?

 

La decisione “cristiana” è invece:

a) A rischio: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale, e non solo mentale, che può essere superata solo osando e rischiando, o con quel supporto psicologico e spirituale offerto e garantito dalla fiducia, o dalla fede che porta a fidarsi e a fidarsi di Dio. Nel discernimento cristiano il credente corre il rischio massimo per umana creatura: scoprire la volontà di Dio. Eppure, come dice magistralmente Moioli sulla scia di S. Ignazio, egli sa, al tempo stesso, che nessun comandamento oggettivo, nessuna regola esterna, nessun parere o consiglio di altre persone, persino della guida spirituale, potrà mai dare al soggetto in questione la certezza che quello che deciderà di fare è quello che Dio vuole che egli faccia. “La decisione e quindi il discernimento personale, in concreto, devono essere della persona, del soggetto che si fa ‘dirigere’: in funzione di ciò, il discernimento esercitato dal direttore spirituale si concepisce come ordinato non a sostituire o ad imporsi autoritariamente, bensì a ‘condurre’, a sostenere il discernimento del soggetto. In definitiva, infatti, si tratta di personalizzare in concreto la ubbidienza della fede: e in questo nessuno può farsi sostituire, e nessuno può sostituirsi a colui che deve prestare ubbidienza. L’aiuto a crearsi delle motivazioni autenticamente spirituali… è aiuto a vedere che ‘è bene per me decidere così’, e quindi addirittura è ‘doveroso per me’. Ma sono io che devo riuscire a vedere tutto questo; e sono io che, avendo visto ed essendone persuaso dall’interno, decido di fatto”[20]. Tutto ciò dice la necessità e delicatezza d’un ministero spirituale che orienti e sostenga, aiuti a purificare le motivazioni e a liberare il cuore da attaccamenti di vario genere, consci e inconsci; al di fuori, però, d’ogni tentativo (autoritario, volontaristico, fideistico) di rendere meno autonoma e personale la decisione per l’ubbidienza della fede.

b) A massimo costo: nella decisione cristiana è preferibile quell’azione che fra tutte esprime il massimo di quel che posso dare, anche se mi chiederà un notevole prezzo da pagare, e la maggiore intensità di amore anche se avrà un risultato minimo. La scelta fatta in nome del Radicalmente Altro viaggia su valori ideali massimi, per consentire di vivere in una realtà spesso attraversata da limiti di vario tipo, che si faranno assoluti nel momento della morte. La decisione è cristiana quando esprime il dono di sé, e quando mette la persona in condizione di mantenere l’offerta di sé anche quando questo comporta rinuncia e chiede un prezzo alto: allora ci vuole corrispondenza tra i due livelli, più il costo è alto più grande deve essere l’amore, fino a integrare il massimo della rinuncia di sé col massimo del dono di sé. Per questo ogni decisione è in qualche modo simbolo della morte, perché la fine dei propri giorni sarà il momento in cui il limite o la rinuncia toccheranno il punto massimo, il vertice estremo; sarà allora necessario “vivere” quell’istante (e la preparazione a esso) caricandolo al massimo grado di senso, andando cioè liberamente incontro alla morte, come epilogo d’una vita diventata progressivamente dono, come momento supremo della propria scelta vocazionale.

c) Infine la decisione cristiana deve essere precisa, ma mai potrà esser chiara in tutti i dettagli, al punto da risultare prevedibile e da porre al riparo da ogni sorpresa: i valori accettati all’inizio devono essere oggettivi e realisti, ma non saranno mai esaurientemente chiari; ogni passo della loro attuazione indica una conquista e un compito nuovo; la scelta si scopre man mano che la si attua, in un processo di formazione permanente. Discernere, ancora una volta, non significa disporre del futuro, quasi sapendolo con certezza in anticipo. Significa piuttosto saper leggere una direzione nel presente, che pure va oltre il presente; significa leggere una coerenza tra ciò che si legge e la verità dell’essere cristiano, tra ciò che si comincia a intuire e una possibilità di attuare quella verità in un progetto di vita, dove “io” (cioè il mio essere cristiano qui ed ora), non solo non vengo escluso, “ma vengo assunto come ‘luogo’, anzi come realtà di una sintesi che deve essere trovata. Mi sembra cristiano che io faccia così; mi sembra chiaro che io posso fare così; è prudente che io lo faccia; dunque Dio vuole che io lo faccia, e che, facendolo, io non trovi nel sapere anticipato la sicurezza; la trovi, invece, fidandomi ed affidandomi a Lui[21]. E siamo di nuovo all’elemento fondante, all’architettura di base del processo decisionale credente: la fede che diventa fiducia. La scelta aumenta la fiducia, scegliere è voce del verbo fidarsi.

 

 

Fasi del processo decisionale

Vediamo, come ultimo punto, un possibile itinerario della scelta, così come ci è proposto da una prospettiva psicologica integrata con la prospettiva credente. Considerando attentamente le singole tappe del processo verrà più facile cogliere anche le mediazioni educative del processo stesso relative alle singole fasi, oltre al rapporto sempre più stretto tra opzione vocazionale e opzione credente.

 

Esperienza e raccolta dei dati (dinanzi al reale)

All’inizio d’un cammino decisionale c’è il dato esperienziale, ovvero la raccolta dei dati relativi a un certo interesse, reale o solo potenziale, con un certo iniziale coinvolgimento personale, almeno a livello dei sensi esterni e interni. È una fase, questa, che si dà in ogni caso, perché la persona è comunque esposta alla realtà in cui vive, con continua ricezione di stimoli dall’esterno. Se pensiamo al nostro giovane immerso nella cacofonia spesso assordante della società odierna questa prima fase d’un possibile percorso decisionale ci appare subito piuttosto problematica in ordine a una scelta particolare come quella vocazionale. Gli stimoli, infatti, sono tanti, una specie di bombardamento certamente non intelligente, ma purtroppo incisivo ed efficace, progressivo e a senso unico, limitante e selettivo in riferimento a prospettive di vita futura.

Credo che nessuno possa negare questo scenario: d’una stimolazione esperienziale che non apre in senso vocazionale nell’attuale società dell’immagine, ove l’immagine dell’opzione per Dio nel ministero sacerdotale o nella consacrazione religiosa è non tanto disprezzata o esplicitamente negata, ma semplicemente tenuta fuori ed esclusa, come fosse qualcosa d’irreale e improbabile, o buona giusto per proporre il solito spot pubblicitario con la ormai consunta macchietta del frate ammiccante e ambiguo, o pacioso e un po’ ebete, oppure per raccontare la classica patetica fiction del prete mezzo eroe che si consuma per i derelitti e, udite udite!, finisce per innamorarsi. Così pure nel contesto della vita reale credo che si corra in sostanza lo stesso rischio, anche all’interno d’una società non proprio scristianizzata, in cui ancora certi simboli religiosi tengono: il rischio d’una immagine scarsamente attraente, poco incisiva, un po’ fuori del tempo, pochissimo remunerativa in termini di appagamento soggettivo. È chiaro che se non c’è una certa base esperienziale, ovvero una raccolta adeguata di dati o di elementi tali da far nascere un certo interesse o se tale raccolta va addirittura in senso contrario, non ci si potrà certo aspettare un avvio del processo decisionale vocazionale. È come morisse in partenza. Come in effetti avviene per la grande maggioranza dei giovani d’oggi che non prendono nemmeno in considerazione tale ipotesi.

 

Sarà allora importante prender atto di questa situazione, anzitutto. Per poi cercare di migliorarla sul piano dell’esperienza concreta, per quanto dipende da noi.

a) Al primo posto in questo tentativo metterei la qualità della vita e la coerenza della testimonianza di chi ha votato a Dio la sua vita, o, il suo mostrarsi effettivamente lieto e realizzato, appagato e convinto della sua scelta. A livello individuale e comunitario. È un dato che non può passare inosservato; è l’unico che possa “bucare” la scorza dura dell’indifferentismo odierno in materia di valori spirituali.

b) Subito dopo porrei la capacità di mostrare il proprium, l’elemento davvero caratteristico e peculiare, ciò che distingue questo tipo di personalità e di vocazione da ogni altra; il giovane che è in ricerca della propria identità ha bisogno di vedere identità ben definite per provare interesse, non personalità incerte e instabili, perennemente alla ricerca di se stesse e anche un po’ depresse e insoddisfatte, o stili di vita in contrasto con l’opzione di fondo.

c) Terzo: la capacità di mostrare l’incisività della propria azione, l’efficacia della propria parola, la valenza a vari livelli della propria missione. Non nel senso di sopravvalutare i risultati o del sentirsi ed esibirsi a tutti costi come persone rilevanti o “servi utili”, ma nel senso di evidenziare la attualità di questa figura, il suo legame col mondo, la natura estroversa della missione sacerdotale e religiosa, la capacità di relazione umana della persona consacrata a Dio.

d) Quarto: il non dare per scontata la possibilità di lettura corretta della propria immagine, ma il far la fatica di dirla con parole comprensibili dai giovani d’oggi, con simboli e immagini per loro eloquenti, con richiami a valori che incrocino anche i loro ideali il più possibile. In fondo una certa identità vocazionale sacerdotale, o certa spiritualità o proposta di vita cristiana… è sempre detta in termini ancora molto religiosi, non ancora tradotti in linguaggio secolare-postmoderno, poco comprensibili dal giovane di oggi (così come, al contrario, noi comprendiamo molto poco del linguaggio giovanile). 

e) Infine, più sul versante del giovane, sarebbe importante provvedere o, meglio, stimolare perché la sua esperienza sia il più possibile completa, non parziale e selettiva, da figlio della società del benessere che non sa vedere al di là del suo naso e del suo star bene; che non ignori dunque i grandi problemi e i grandi interrogativi, che sia messo a contatto diretto, personale ed epidermico, addirittura, della sofferenza. Se l’orizzonte percettivo è ridotto e limitato non ci si può aspettare grande slancio vocazionale. Da questo punto di vista, il giovane d’oggi soffre d’una sorta di analfabetismo emotivo anche a causa d’un analfabetismo sensoriale, i suoi sensi sembrano non consentirgli di vedere, sentire, toccare, soffrire, annusare in modo integrale la realtà attorno a sé, o di fare tutto ciò in modo limitato e riduttivo, banale e superficiale, ripetitivo e scontato, allegro e menefreghista (almeno per una notevole maggioranza). Non parliamo poi del vero e proprio analfabetismo spirituale e poi religioso, legato all’assenza di conoscenza esperienziale di valori come il silenzio, la solitudine, la contemplazione del bello, il gusto della generosità, il dono del proprio tempo, la sapienza che viene dal contatto con la sofferenza… Sta nascendo una sottospecie umana, l’uomo di plastica, o l’uomo informatizzato che possiede molti dati, forse, ma che non fa alcuna esperienza, e tanto meno accede a nessuna sapienza. Apriamogli gli occhi e le orecchie se vogliamo aprire poi anche un discorso vocazionale!

 

Sensazione emotiva

La sensazione corrisponde all’avvertenza immediata emotiva del rapporto tra l’oggetto in questione e l’io, quel rapporto che normalmente s’esprime con la formula classica, “mi piace…” o il suo contrario. È una fase istantanea, come una reazione incontrollata e istintiva. Il problema è che spesso diventa come un assoluto, qualcosa che è così e basta, e che magari fa partire un’azione corrispondente e irriflessa (e molte volte addirittura irragionevole e assurda, come molti fatti di cronaca ci raccontano…). Azione che sarebbe semplicemente dettata dall’istinto, ma senz’alcuna garanzia di cogliere la verità della persona, quel che essa è ed è chiamata a essere. Di fatto molte scelte sono fatte a questo livello elementare e un po’ selvaggio, come espressione incontrollata d’una emozione non sottoposta a giudizio alcuno o subito falsamente riconosciuta come autentica e forse doverosa espressione dell’io, facendo così confusione tra sincerità e verità.

L’intervento educativo in tale fase sarebbe proprio questo: rilevare e aiutare a rilevare l’emozione, riconoscerla come parte di sé e del proprio vissuto, ma senza cadere nell’errore di considerarla necessariamente rivelatrice infallibile della sua identità. Un conto è la sincerità, un conto è la verità. Anzi, l’educatore intelligente inviterà il giovane a non agire in base alla sensazione, positiva o negativa che sia, ma a sottoporla, come vedremo subito, a una salutare riflessione (auto)critica. Magari mostrando in se stesso un esempio, per così dire, di… “sensazione evangelizzata e convertita”, ovvero di persona che ha imparato a trovare gratificante quanto umanamente sembrerebbe mortificante. In ogni caso è indispensabile testimoniare che anche a livello di sensi, di sensazioni istintive, di pulsioni umane si può esser del tutto contenti consacrandosi a Dio.

 

Giudizio razionale

La terza fase dovrebbe sollecitare la valutazione intelligente del rapporto tra l’oggetto e l’io, quella valutazione che dovrebbe consentire di passare dall’istintivo “mi piace…” (o il contrario) al “mi piace perché…”. È una sorta di esame, alla luce della ragione che riflette e dunque di motivi oggettivi, della valutazione istintiva precedente, perché non diventi definitiva e il giovane non sia succube delle sue emozioni immediate. A tale scopo l’educatore lo dovrà provocare ad andare oltre la scorza delle sensazioni, a non illudersi di esser sincero semplicemente perché dice quel che sente, ma a domandarsi, semmai, perché, come mai una certa cosa o prospettiva di vita mi attira o non mi attira, cosa c’è dietro questa sensazione? Perché mi viene da rifiutarla o mi fa paura o non la sento per me? Quale memoria o condizionamento del mio passato sta influendo su questa reazione, magari determinandola? E fare magari scoperte interessanti sul suo mondo interiore, forse mai scrutato con attenzione. Pensate quale grande valore educativo potrebbe avere un accompagnamento del giovane che lo sappia rendere attento a queste realtà personali, aiutandolo a scoprire la propria verità, resistendo a pressioni di gruppo, alla moda del momento, all’ideologia corrente, al neo-pecoronismo giovanile imperante[22]!

Dice il documento del congresso europeo: “Quanti giovani non hanno accolto l’appello vocazionale non perché ingenerosi e indifferenti, ma semplicemente perché non aiutati a conoscersi, a scoprire la radice ambivalente e pagana di certi schemi mentali e affettivi; e perché non aiutati a liberarsi delle loro paure e difese, consce e inconsce nei confronti della vocazione stessa. Quanti aborti vocazionali a causa di questo vuoto educativo!”[23]. O quanti giovani considerati “soggetti non interessanti” (e abbandonati) da poco intelligenti (dis)educatori vocazionali!

 

Giudizio credente (dinanzi al mistero)

Finora non s’è parlato esplicitamente di fede, ma adesso è possibile far entrare in gioco la prospettiva credente, come un aiuto per capire meglio o per riesaminare, alla luce di motivi trascendenti, i risultati delle fasi precedenti. 

L’arte dell’educatore vocazionale è ora quella di penetrare delicatamente nel processo decisionale perché non devii, non s’arresti, non divenga sterile e infinito, da un lato, e dall’altro non partorisca decisioni maldestre e azioni affrettate, ma si apra al mistero. Compito dell’educatore saggio e umile è, abbiamo detto all’inizio, condurre alle soglie del mistero, e dunque anzitutto porre il giovane dinanzi al mistero, per saper mostrare come una certa esigenza di valore e di senso, di bellezza e di verità, di identità e di autorealizzazione, di presente e di futuro…, sia ineliminabile nell’uomo che cerca, e possa trovare piena risposta nella fede cristiana. L’arte, dunque, di far nascere i dubbi intelligenti, quelli che consentono di uscire dalla banalità e superficialità e di cercare nella direzione giusta, e di porre le domande giuste, quelle che “costringono” a porsi dinanzi a Dio, o l’arte di scavare e scalare le domande, per cogliere e far cogliere come all’inizio e alla fine d’ogni storia umana, d’ogni desiderio terreno c’è sempre e solo Dio, l’unica vera attesa presente nel cuore del vivente[24]!

Certo, ci sono dei passaggi da rispettare, delle logiche da articolare correttamente, con gradualità. Un’autentica pastorale vocazionale parte dai valori elementari della vita, per poi proporre una modalità o formalità credente di attuazione di quella logica elementare, che finisce per andare al di là d’essa, molto al di là. Personalmente sono sempre molto sorpreso dalla coincidenza tra l’analisi razionale e psicologica, che scopre la vita d’ogni essere come un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato, e il modello di vita cristiana offerto dall’esempio di Gesù, il Figlio che riceve tutto dal Padre e dona interamente la sua vita per il bene dell’umanità. In quel Figlio, il figlio per eccellenza, è raccontata la storia e la vocazione d’ogni vivente, che ha ricevuto un dono che deve per forza restare tale, che non può tener per sé, altrimenti lo snaturerebbe finendo per farsi del male, e che deve dunque lasciare che diventi dono per altri. Egli sarà felice solo quando rispetterà questa logica, umana ed evangelica al tempo stesso, potrà fare le scelte che crede per il suo futuro, ma non potrà uscire da questa logica se non vuole il suo male, la sua infelicità, il suo suicidio psicologico. Quando un giovane comincia a scorgere il legame tra queste due logiche, è dinanzi al mistero e inizia forse a divenire credente. Può essere che non si farà prete né frate o suora, ma sta scoprendo in ogni caso d’esser chiamato e di poter e dover rispondere.

Ora, io credo che un giovane non possa non essere interessato ad affrontare, e a farlo in modo serio, il problema di sé e delle sue aspirazioni, della sua identità e del suo futuro. Ecco perché sosteniamo che forse oggi la proposta vocazionale (non come proposta immediata ad alcuni d’una speciale consacrazione, ma come provocazione rivolta a tutti a pensare e ripensare in modo intelligente la direzione da dare alla propria vita) potrebbe essere la strada lungo la quale risvegliare una fede sopita o fare nascere una fede nuova, che possa condurre a scelte radicali e generose, e la pastorale vocazionale divenire la pastorale centrale e decisiva in questi tempi post-moderni, la pastorale tipica della nuova evangelizzazione, proprio perché è pastorale strettamente legata a un interesse vivo e facilmente evocabile, specie quando rispetta certi passaggi e certe esigenze psicologiche.

 

Nuova emozione (alle soglie del mistero)

E proprio il rispetto d’un approccio graduale all’uomo globale (mente-cuore-volontà-sensi interni ed esterni…) è ciò che consente lentamente alla sensazione precedente di cambiare, facendo sorgere un’emozione nuova. Si tratta d’un processo normalmente non breve, a volte impercettibile, ma possibile e reale, che conduce pazientemente all’esperienza d’una attrazione diversa, evangelizzata, che comincia a spingere (e-motus) nella direzione del giudizio riflessivo credente.

È un’ascesi, potremmo dire, che conduce pian piano a una mistica (e chi l’ha detto che il giovane non ne sia capace?), ma in ogni caso questa mistica, ossia l’emozione che spinge, il pungolo che inquieta, l’attrazione che sollecita, lo splendore che affascina, è condizione psicologica basilare indispensabile perché vi sia autentica decisione.

E se è vero che oggi il giovane soffre di questo strano fenomeno dell’analfabetismo emotivo diventa ancor più importante e insostituibile un cammino attento alle varie dimensioni dell’essere umano, senza lasciarne fuori alcuna. In tal senso può diventare decisiva quella proposta delle varie articolazioni del cammino credente, che proprio perché variamente articolata si rivolge a “tutto” l’uomo, e può dunque sollecitare progressivamente un coinvolgimento altrettanto globale. Il cambiamento dei gusti e delle attrazioni, che determinano nuovi sapori e nuova sensibilità, diventano il segno più eloquente non solo di questo coinvolgimento, ma di un cammino di fede che sta giungendo a maturazione. Credere, abbiamo prima detto, vuol dire fidarsi, e fidarsi vuol dire sentirsi amati e amare, ovvero l’emozione più umana che vi sia, ma anche la più “cristiana”!

 

Orientamento generale: la decisione-madre (oltre la soglia del mistero)

E il coinvolgimento è così reale che determina una decisione. Che non è ancora l’azione vera e propria, ma la concretizzazione del giudizio razionale e credente in una presa di posizione consequenziale personale. La decisione, da un punto di vista formale, è dunque un fatto ancora soprattutto intellettuale, come una predisposizione generale ad agire o come un convincimento interiore ma che ancora non è passato alle vie di fatto, e tuttavia è importante perché è gradino indispensabile per giungere a un compromesso reale che sia motivato e razionalmente plausibile, di cui la persona è sempre più convinta.

Da un punto di vista invece contenutistico la decisione è determinata dalla intuizione progressiva, da parte del giovane, del senso radicale della vita (e della morte), di ciò che è importante in sé e dà senso e sapore a ogni vita, e dalla scoperta che in tale significato è nascosta anche la sua propria identità, o che sempre quel senso generale è vero, bello e buono in se stesso, ma è pure ciò che dà verità, bellezza e bontà al giovane stesso. Di qui la decisione di identificarsi con l’oggetto, di riconoscervi se stesso, di sceglierlo come ideale o progetto di vita. La decisione è un po’ sintesi di una oggettività ideale con la propria soggettività. È, sul piano della fede, la scoperta di Gesù come “via, verità e vita”, e la scoperta che lì, dentro di lui, è adombrata e detta anche la propria identità. Questa è un po’ come la decisione-madre, fondamentale, come grembo vitale o orientamento generale da cui poi deriveranno altre successive decisioni e poi azioni, come chiariremo meglio ora. Ma alla decisione manca ancora qualcosa per divenire operativa.

Sembrerà strano, ma a volte vi sono delle azioni che non sono precedute da decisioni, dunque non abbastanza razionali, ancora troppo o solo istintive. Ma c’è anche il pericolo di decisioni che… non si decidono mai a divenire azioni. Vediamo perché.

 

Azione: scelta graduale vocazionale (nel cuore del mistero)

Anche qui distinguiamo l’aspetto formale da quello contenutistico. Formalmente l’azione è la messa in atto della decisione presa. Ma non è semplice esecuzione o pura trasmissione d’un comando che dal cervello è finalmente giunto ai sensi esterni che hanno provveduto a renderlo operativo. L’azione, che per noi rappresenta tutte quelle scelte che sono in funzione della opzione finale vocazionale, è resa possibile dal progressivo coinvolgimento emotivo della persona; è infatti l’emozione che implica in sé l’idea di movimento, ed è solo l’emozione che imprime dinamismo alla vita, il suo autentico dinamismo (e-motus). L’azione, per esser più precisi, è la decisione (= dimensione intellettuale, da cui la convinzione) più l’emozione (= nuova sensibilità e nuove attrazioni), ma naturalmente sia l’una che l’altra sono legate al cammino precedente, alla linearità e costanza con cui si sono percorse le tappe precedenti.

Sotto il profilo del contenuto, invece, l’azione di cui parliamo ora nel nostro tentativo di delineare un percorso vocazionalmente praticabile, non è un’unica azione, magari quella risolutiva, ma una serie di decisioni-azioni che vanno tutte, però, in una certa direzione vocazionale. Quasi delle scelte pre-vocazionali, che magari possono sembrare piccole e di poco conto, ma che invece svolgono un ruolo importante nella genesi e dinamica vocazionale. Ad esempio, se il giovane si sta orientando in una certa prospettiva, sarà cosa buona proporre o sarà buon segnale il fatto che lui stesso si proponga una serie di comportamenti in linea con la scelta conclusiva, quasi a prepararlo in vista di essa, a sondare la sua effettiva disponibilità, a fargli assaggiare le prime rotture ma anche il sapore della sua novità, ad approfondire direttamente, sulla sua pelle, la conoscenza dell’oggetto e i suoi risvolti, a passare dall’idealità alla concretezza, o magari dalla paura (di non esser capace o dell’esigenze dell’ideale) alla fiducia, dal dubbio al coraggio di scegliere. Non per fare verifiche o test, ma per consentire al giovane di penetrare sempre più nel cuore del mistero. È molto importante questa intelligente gradualità, è vera e propria formazione vocazionale (indipendentemente dalla scelta finale) e davvero potrebbe fare svanire incertezze e timori che bloccano la scelta. Non è saggio, infatti, proporre subito tutto o tutto in una volta.

Se vi sono tanti giovani che sembrano vocazionalmente ben disposti, che sembrano anche attratti da un certo ideale, che si fanno seguire e lasciano ben sperare, ma poi non si decidono mai o restano perennemente dubbiosi, ciò accade, oltre a eventuali scompensi intrapsichici del soggetto, proprio perché è debole l’impianto generale del processo decisionale o non gradualmente articolato. E se è vero che la cultura odierna è cultura dell’indecisione, questo è un motivo in più per fornire ai nostri giovani percorsi rigorosi e corretti sul piano dell’evoluzione progressiva della decisione vocazionale.

 

Rinforzo e personalizzazione (l’identità nel mistero)

L’azione, da parte sua, o un certo genere di decisioni che si concretizzano in azioni, non solo rinforza il giudizio riflessivo credente e, in ultima analisi, la fede del soggetto, ma consente di penetrare nel mistero, senza fermarsi alle soglie, di averne una conoscenza non più per sentito dire, ma personalmente “verificata”, sofferta e gustata, soprattutto permette di sentire sempre più la scelta fatta come la rivelazione della propria identità, come ciò che effettivamente le dà verità, bellezza e bontà.

Non che tutto divenga improvvisamente facile e convincente, anzi; l’ideale scelto manifesterà senz’altro anche aspetti non abbastanza calcolati e forse anche più duri ed esigenti del previsto, ma ciò che più conta è che l’individuo in tal modo si rinforza nella convinzione che lì è scritto il suo nome, lì dentro è nascosta la perla preziosa, e cresce la disponibilità, anzi, la voglia, di andare, vendere tutto per acquistare quel campo…

 

Consolidamento della traccia emotiva

Le singole decisioni-azioni svolgono a questo punto un compito molto importante e davvero decisivo: vanno infatti a rinforzare anche l’emozione-attrazione… appena nata (3.4.5), facendola diventare sempre più “sapienza credente”, come un modo assolutamente nuovo di dare senso alla vita, di stabilire una gerarchia d’importanza, di fissare ciò che conta e ciò che è spazzatura.

Non è più solo un semplice processo mentale, ma una traccia emotiva depositata nella psiche dalle singole decisioni-azioni prese, come una memoria affettiva che finirà per indirizzare sempre più sensibilità, gusti, desideri e ulteriori scelte in una direzione precisa, creando nuove abitudini e atteggiamenti credenti, che a loro volta influiranno sulle singole fasi dei successivi processi decisionali, a partire dall’esperienza della realtà, dal modo di raccogliere dati e recepirli, con nuove sensazioni e giudizi ecc., ma che soprattutto daranno finalmente la forza psichica e spirituale di fare la decisione vocazionale definitiva.

 

Scelta vocazionale definitiva (svelamento del mistero)

È l’approdo naturale di questo percorso. Non certo finale, perché quando il soggetto sceglie all’interno di questa logica progressiva e articolata, non finirà di scegliere, di scegliere sempre più, e di scegliere con sempre maggior passione il suo ideale. A questo punto davvero i due percorsi, quello vocazionale e quello credente, si salderanno in un unico cammino, ove la fede è e dà la forma alla vocazione, e quest’ultima esprime il proprio modo, assolutamente unico-singolo-irripetibile di credere. Oggi mi sembra che non possa esistere altro modo di credere al di fuori della modalità vocazionale.

 

 

 

Note

[1] Persino sulla croce Gesù rifiuta questa richiesta o resiste a questa tentazione. Ed è oltremodo significativa l’inedita “lettura spirituale” che il malfattore di destra (primo “convertito” in quel momento drammatico) fa dell’evento e della croce di Gesù come segno di regalità (“Gesù, ricorda ti di me quando entrerai nel tuo regno”), proprio perché Gesù subisce un ingiusto castigo senza far valere la propria innocenza né manifestare e sfruttare il proprio potere sconfiggendo gli avversari (“noi giustamente siamo condannati, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”). L’assenza e il rifiuto, da parte di Gesù, del segno potente diventa segnale di verità e autenticità della sua regalità; il suo riconoscimento apre le porte di questo regno (“Oggi sarai con me nel paradiso” Lc 23,39-43).

[2] Nuove vocazioni per una nuova Europa (NVNE), Roma 1997.

[3] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Roma 2001. 

[4] NVNE, 27-28.

[5] Ibidem, 28.

[6] Ibidem.

[7] È interessante che in tali Orientamenti sia esplicitamente sottolineata la scelta pastorale di ricomporre certe polarità (almeno apparenti) del dinamismo della fede, come contemplazione e servizio, fede e cultura, formazione e missione, annuncio e testimonianza… (cfr. CEI Camminare, 32-62).

[8] Ibidem: cfr. ancora l’intera sezione II. La Chiesa, a servizio della missione di Cristo, specie il n. 50.

[9] Cfr. NVNE, 28.

[10] NVNE, 28.

[11] A tal proposito è interessante notare che l’idea della fede in ebraico sia espressa col verbo che è presente nel nostro amen, verbo che significa “essere stabile, fondato” su una roccia sicura (cfr. G. RAVASI, Il ponte sul fiume, in Avvenire, 22/1/1998).

[12] Cfr. NVNE, 26a. b. g.

[13] È il titolo della poderosa opera di P. SEQUERI, Un Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Brescia 1996.

[14] Prendiamo lo spunto per questo paragrafo dalle penetranti analisi dell’amico A. MANENTI, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio, Bologna 1988, pp. 208-213. Ma cfr. anche M. E. KAPLAN – S. SCHWARTZ (eds.), Human judgment and decision processes, New York 1975; I. JANIS – L. MANN, Decision making. A psychological analysis of conflict choice and commitment, New York 1977.

[15] Cfr. A. CENCINI – A. MANENTI, Psicologia e Formazione. Strutture e dinamismi, Bologna 1998, pp.198-200.

[16] H. B. GERARD, Basic features of commitment, in R. P. ABELSON, Theories of cognitive consistency: a sourcebook, Chicago 1968, p.457.

[17] MANENTI, Vivere, 209.

[18] PH.G. ZIMBARDO, “Cognitive dissonance and the control of human motivation”, in R. P. ABELSON, Theories of cognitive consistency: a sourcebook, Chicago 1968, pp. 439-447.

[19] Cfr. C. J. PINTO DE OLIVEIRA, Lieux et enjeux de l’experience morale aujourd’hui, in “Le supplement” 129 (1979), pp.175-176; 179.

[20] G. MOIOLI, Discernimento spirituale e direzione spirituale, in L. SERENTHÀ – G. MOIOLI – R. CORTI, La direzione spirituale oggi, Milano 1982, pp. 66-67. 

[21] MOIOLI, Discernimento, 64.

[22] Circa l’aiuto da dare in questo cammino alla ricerca delle vere motivazioni in prospettiva vocazionale cfr. A. CENCINI, Il mistero da ritrovare. Itinerario formativo alla decisione vocazionale, Milano 1997, pp.33-40.

[23] NVNE, 35a.

[24] Cfr. CENCINI, Il mistero, 22-32.