N.01
Gennaio/Febbraio 2002

Come preparare le condizioni remote per la risposta vocazionale secondo il cuore di Dio?

La parola sulla quale ci dobbiamo mettere subito d’accordo è quell’aggettivo dopo “condizioni”, “Come preparare le condizioni remote…”. A qualcuno, temo, che questa parola possa dare l’idea di qualcosa di aereo, di astratto, come se questa mattina ci tocchi stare su in terrazza a contemplare i massimi sistemi… In verità “remote” non si oppone a “concrete” ma a “prossime”, condizioni specifiche, immediate. Quindi prendo remote nel senso di fondamentali: quali sono le condizioni fondamentali, cioè radicali, perché si possa favorire una cultura vocazionale, quindi per una risposta vocazionale secondo il cuore di Dio? Questo è in linea con la Novo Millennio Ineunte e con gli Orientamenti Pastorali dei Vescovi per questo decennio. Tutti e due i documenti, come sappiamo, dedicano gran parte, la prima parte, quella fondativa, alla contemplazione. A me pare che si registri nella nostra Chiesa un deficit vistoso non tanto di organizzazione, ma di contemplazione. In questa prospettiva contemplativa vorrei provare a rispondere a questa domanda.

Prima però vorrei dire il mio pensiero su una domanda che penso già (ieri sera) abbiate avuto modo di affrontare. La cultura della società post-moderna, complessivamente considerata, si può ritenere vocazionale? Il Documento Finale del Congresso sulle Vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, tenutosi a Roma dal 5 al 10 maggio ‘97, dal titolo Nuove Vocazioni per una nuova Europa, parlava di “uomo senza vocazione”. In effetti, in una logica di autorealizzazione, dove l’orizzonte del futuro si restringe, per tanti giovani, “alla sistemazione economica, o all’appagamento sentimentale ed emotivo”, recita testualmente questo documento, “il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’uomo senza vocazione” (11c). Un’affermazione pesante, che potrebbe far schierare anche noi dalla parte degli euroscettici, e comunque un’affermazione che sarebbe facile supportare con una valanga di dati statistici, ma forse risultano più eloquenti due citazioni. La prima la prendo da un romanzo (che anni fa mi pare sia stato) molto letto, di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere. Alla conclusione di questo romanzo, la protagonista, parlando col marito, un chirurgo che ha dovuto lasciare l’ospedale, dice con rimpianto al marito: “La tua missione era di operare”. E la risposta del marito è significativa e riassume un po’ tutto il senso dell’opera: “Teresa, una missione è una cosa stupida. Io non ho nessuna missione. Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi di non avere una missione”. L’uomo senza vocazione! Capiamo subito che dietro c’è la filosofia del pensiero debole… Uno dei suoi massimi esponenti, Gianni Vattimo, in un’intervista, ad una domanda sul compito della filosofia rispondeva: “Credo che la filosofia non debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte”. Quindi: nessuna meta, nessuna missione, nessuna vocazione.

A chi paragoneremo, allora, questa generazione? (cfr. Mt 11, 16). Anziché stare ad analizzare tabelle su tabelle di dati statistici, peraltro fondamentali per non andare nel vago, mi servo di un riferimento ad una figura mitologica: Narciso. Mi pare che questo uomo senza vocazione possa essere visto in Narciso, (questo) eroe della mitologia greca, condannato dagli dei ad innamorarsi della propria immagine. La fanciulla che ama Narciso, ha un nome emblematico: Eco. È l’eco di Narciso e Narciso quindi è sempre ripiegato su se stesso. Sappiamo come va a finire la storia: Narciso, un bel giorno, specchiandosi nelle acque gelide di un lago, è stato preso da un raptus di narcisismo e per la voglia di abbracciarsi si è tuffato in queste acque e vi è annegato.

Segni dell’uomo narciso nella nostra società: basti vedere la celebrazione ossessiva della bellezza corporea, il culto degli status symbol, della moda con il suo seducente incantesimo di far significare l’insignificante; o, d’altra parte, il rifiuto della malattia, della vecchiaia, del difetto fisico. Ma pensiamo anche alla ricerca di gratificazione e di consenso. Forse, oltre che a Narciso, ci potremmo riferire anche a Pinocchio, l’uomo bambino, insicuro e spavaldo, con quella frenetica voglia di divertirsi, di giocare, con l’assurda pretesa di realizzarsi facendo a meno del padre, eppure chiamato a diventare figlio. Tuttavia non mi sentirei di bollare la cultura, la nostra cultura, come antivocazionale – a parte che c’è da domandarsi, con un po’ di disincanto, se mai ci sia stata una cultura vocazionale…– perché ci sono vari elementi indubbiamente positivi. Per esempio: il senso della dignità della persona umana, poter esistere nella propria autonomia, al di fuori delle soluzioni prefabbricate e delle eredità prestabilite; il desiderio di autenticità, con la ricerca di senso e il bisogno di dare un significato originale alla propria vita; il desiderio di prossimità, di socialità, di incontro, di solidarietà, di pace (cfr. CV 37). Potremmo dire: la soggettività e l’alterità. Il problema è nel coniugarle insieme, perché se queste cose non si mettono insieme non è possibile assicurare una condizione remota, fondamentale per una cultura vocazionale. Tutto il problema è nel coniugare insieme questi fermenti facendo sintesi tra la ricerca dell’autenticità e l’accettazione dell’alterità, soprattutto occorre dare profondità a questi elementi, purificandoli da incrostazioni ambigue e aprendoli alla trascendenza.

Schematizzando, penso che una comunità cristiana che voglia favorire una vera cultura vocazionale debba garantire tre azioni fondamentali, corrispondenti ad altrettanti verbi: convocare, provocare, invocare.

 

 

 

Con-vocare

La Chiesa, lo sappiamo, è la “santa convocazione”. Questo è il primo verbo vocazionale. Perché la Chiesa riflette e insieme partecipa della convocazione trinitaria. S. Cipriano, citato da Lumen gentium, afferma in proposito: Il sacrificio più gradito a Dio è la nostra pace, la nostra concordia, la nostra riconciliazione e questa convocazione dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La Trinità come fonte e come foce, come la fonte prima, la misura alta e la meta ultima di tutto il nostro cammino. È importante che la Chiesa indichi questo sole trinitario, abbia sempre l’indice puntato, lo sguardo in alto. Nella Trinità noi vediamo le persone in un rapporto talmente stretto tra di loro che possiamo affermare che non solo ogni persona ha una relazione con l’altra, ma è relazione con l’altra. Il Padre non è ripiegato morbosamente su se stesso, ma è totalmente aperto al Figlio e con il Figlio si incontra nello Spirito Santo; per cui possiamo dire che le preposizioni trinitarie sono con, per, in, perché ogni persona è con le altre, è per le altre, ed è nelle altre.

La riscoperta del mistero trinitario è andata di pari passo con la riscoperta della Chiesa come comunione, come convocazione. Essendo Dio una comunione di persone, allora la forma di vita che meglio esprime questa comunione sulla terra è la Chiesa, dove le persone, due o tre o più sono in comunione, vivono con un cuore e con un’anima sola. C’è stato un tempo, un lungo tempo, in cui il mistero trinitario veniva visto in chiave soprattutto intrapersonale: ricordiamo lo Spirito Santo come l’“ospite dolce dell’anima”; sono prospettive che hanno formato santi, quindi si tratta di verità dolcissime e consolantissime, però siamo arrivati al momento di passare dalla dimensione intrapersonale alla dimensione interpersonale, dall’intimo al comunitario, dall’io al noi, è quella che il Papa chiama la “spiritualità di comunione”.

Rileggo un passo che conosciamo ormai quasi a memoria, dalla Novo Millennio Ineunte al numero 43: “Prima di programmare iniziative concrete, occorre promuovere una spiritualità della comunione”, – condizione remota fondamentale – , “facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità”. Quindi spiritualità della comunione significa instaurare, con la grazia dello Spirito Santo, relazioni improntate sul modello trinitario, secondo quelle tre preposizioni che ho appena indicato; non gli uni senza gli altri, gli uni sopra gli altri, gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri, per gli altri, gli uni negli altri.

Sempre nello stesso passo il Papa continua: “Spiritualità della comunione è fare spazio al fratello, portando i pesi gli uni degli altri e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie”. Questi sono virus antivocazionali e quindi bisogna che le comunità li tengano sempre presenti (perché), altrimenti (poi) non vivono questa spiritualità della comunione. Dunque la Chiesa è – diceva Tertulliano – “il corpo dei Tre”. Questa è la prospettiva ideale.

E qual è la situazione reale? La situazione reale è che siamo minoranza. Questa situazione non è né una colpa né una scelta, è un fatto e dunque, di fronte a questo fatto, né trionfalismo né vittimismo, né lamentazioni né applausi. Perché anche la Chiesa minoritaria ha le sue tentazioni. Ne indico due. Quella di essere una Chiesa-setta, dove la relazione di appartenenza viene assolutizzata a spese delle altre relazioni; oppure, seconda tentazione, Chiesa-élite, una Chiesa di puri, sia in senso morale – per cui non c’è spazio per gli irregolari – , sia in senso intellettuale – quelli che non sanno fare la monizione alla Liturgia della Parola sono di serie B o di serie C – . Dobbiamo ricordare che anche i peccatori, anche i lontani, anche i disimpegnati appartengono alla Chiesa (Lumen gentium 14). Si sta nella Chiesa non solo per convertire ma, prima di tutto, per convertirsi.

Ora permettetemi di spezzare una lancia a favore di quella istituzione che, tante volte, noi in Italia rischiamo di dare ormai per liquidata, ma che invece all’estero ci invidiano e cioè la normalissima parrocchia. La parrocchia è la Chiesa di tutti, anche dei non praticanti, è la struttura di base che offre a tutti la possibilità di un’appartenenza ecclesiale alla sola ed esclusiva condizione del battesimo e del non rifiuto esplicito della fede. In un articolo molto lucido ma anche molto provocante, Severino Dianich, su Vita pastorale dell’aprile ‘98 (pp. 36-39), si poneva una domanda: Parrocchia sì, parrocchia no? E diceva: “Stiamo attenti, perché rischiamo di cambiare radicalmente la pastorale nella vita della Chiesa”. Anche i movimenti, anche i gruppi hanno bisogno della parrocchia. Perché altrimenti quando uno esce dal movimento o dal gruppo, rischia di uscire dalla Chiesa. Questo no! Nella Chiesa non si entra perché si appartiene ad un movimento o ad un gruppo, ma perché si è battezzati. Questo ce lo dobbiamo ricordare. Perché la parrocchia sia, però, effettivamente la “casa della comunione”, non può ridursi ad essere la parrocchia del “caso”: per caso abitiamo qui e dunque apparteniamo a questa parrocchia; o la parrocchia delle “cose”: le cose da fare, le attività, le iniziative; ma si richiedono almeno due condizioni che ritengo essenziali.

 

Una comunità ministeriale

Occorre innanzitutto passare da una Chiesa clericale ad una Chiesa ministeriale, dove l’unità della missione si esprime nella varietà dei ministeri, non nella concentrazione dei poteri. L’immagine più evocativa che rende bene questa realtà della parrocchia-casa della comunione, è quella della chiesa-coro. Sant’Ignazio di Antiochia dice testualmente nella lettera agli efesini: “Ciascuno di voi si studi di far coro. Nel coro non canta solo il maestro, anzi, il maestro non canta, fa cantare, e devono cantare tutti, però lo stesso spartito, la stessa melodia”. Questa Chiesa-coro si realizza se si coltiva fino allo spasimo la spiritualità dell’unità, ecco la spiritualità della comunione!

Permettetemi di leggere un passo breve di san Bernardo, da un discorso sull’Avvento, meditando sul triplice inferno egli afferma: “Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portati alla rovina. Ma ecco quelli che teme: coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore e rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma anche attira la benedizione di Dio, come egli stesso attesta nei Cantici: ‘Hai ferito il mio cuore o sorella e sposa mia…’ cioè nell’unità – qui il linguaggio è quello lì – dei prelati e dei sudditi”.

Ecco l’unità, la spiritualità dell’unità. Allora concretamente dobbiamo dire no all’individualismo e no al centralismo. L’individualismo si verifica quando ognuno vuole essere il tutto. Il centralismo l’opposto, quando uno vuole essere tutto. Allora, l’individualismo divide e separa, forma il gelo. Il centralismo, invece soffoca e assorbe. Si può morire sia assiderati che soffocati per troppo caldo. Si tratta di veri e propri peccati contro lo Spirito della Pentecoste che invece unifica e diversifica, articola e raccoglie, apre e concentra.

 

Il ministero della sintesi

La seconda condizione di possibilità perché si verifichi questa Chiesa-coro: bisogna dire no al parroco manager, al parroco leader, al parroco supertecnico della pastorale. Il suo compito non è quello di organizzare o di commuovere o di eccitare; di far camminare. Perché – dicevano già i vescovi italiani nel ‘77 – il parroco non ha la sintesi dei ministeri, ma ha il ministero della sintesi. Allora, a queste condizioni la comunità può far incontrare un Cristo vivo, non solo nel tabernacolo – perché anche la comunità più scalcinata almeno ha questo tesoro, l’Eucaristia – , ma un Cristo vivo, in quel gruppetto per quanto sparuto e malmesso che è il gruppo dei cristiani che sentono la chiamata a dare corpo alla presenza di Cristo Signore.

Quindi in sostanza, convocare significa, per una comunità cristiana, assicurare tre caratteristiche che ho già detto e che adesso riprendo rapidamente. 

Innanzitutto l’unità. Però, direbbe san Paolo, non l’unità psichica, quella pneumatica, cioè l’unità spirituale, una unità che non si misura dalla temperatura del calore dell’abbraccio al segno della pace, ma – come dice il Papa – dal fare spazio al fratello, dal portare gli uni i pesi degli altri, dal dare la vita, dal dare tempo, dal dare stima, rispetto. Secondo, l’umanità. Cristo Signore si è fatto riconoscere come figlio di Dio, venendo in mezzo a noi non come un angelo – non ha parlato la lingua degli angeli – ma è stato uomo. Come di lui, così anche dei suoi cristiani si dovrebbe dire: Umani così sanno essere solo i cristiani. L’umanità! Perché tanta gente se ne va delusa dalle nostre comunità? Spesso è per questo, perché aveva un problema e il parroco stava lì nervoso, ha dato una rispostaccia. Leggete l’articolo di don Marco Trivisonne su Vocazioni. Quante volte la gente rimane così, agghiacciata da una rispostaccia. Non si tratta di garantire un po’ più di esprit de finesse, nelle nostre parrocchie, ma l’umanità, l’umanità fondamentale.

Terzo: la gioia. Nel profeta Isaia si raccoglie una provocazione che viene dai pagani che dicono agli Israeliti: “Fateci vedere la vostra gioia”. Perché l’alternativa alla gioia è la noia. E anche qui è tragico vedere dei ragazzi che se ne vanno, non sbattendo la porta, ma sbadigliando. Perché uno che litiga prima o poi potrebbe anche ritornare, ma uno che se ne va sbadigliando è molto difficile che ritorni. Dunque, innanzitutto, una comunità è chiamata a convocare. A lasciarsi convocare e a convocare. Ad aprirsi. Dovrebbe essere in piccolo un po’ come Piazza San Pietro, il colonnato del Bernini: queste braccia materne della Chiesa che non soffocano, che accolgono ma che lasciano sempre la possibilità di entrare e di uscire. Perché la Chiesa non è una caserma, non è un’azienda.

 

 

 

Pro-vocare

Provocazione qui lo prendo sia nel senso comune del termine, come sfida, ma anche nel senso biblico di profezia.

 

Una comunità è capace di provocare

Quando è innamorata del suo Signore. Una comunità innamorata di Gesù, che è capace di far capire che il centro è lui, che tutto quello che esiste nella Chiesa, dai ruoli delle persone ai sacramenti, alle preghiere, all’organizzazione, alle varie proprietà e tradizioni è per Gesù. Al centro è lui. Trova in lui la motivazione, il supporto, il fine, la ragione fondante. Questo è importante perché è lui che chiama. È lui che si rivolge personalmente al giovane o alla giovane. È lui, non le tradizioni, le proprietà, la tenuta numerica, il bisogno, la compassione, il gusto, la condivisione di alcuni modi di vivere. Queste possono essere immagini che colpiscono, ma non saranno mai il motivo della decisione. Questa proposta insistente permette di orientare direttamente al centro della decisione tutta la trafila dei dubbi, delle incertezze, delle sicurezze intermittenti, dei momenti di indecisione.

Una comunità è capace di provocare quando risponde al bisogno di felicità degli uomini. La Chiesa è per la felicità degli uomini, non solo per l’aldilà, perché se no nostro Signore poteva risparmiarsi di scendere giù in mezzo a noi, poteva mandare un angelo o far penzolare una corda dall’alto e poi “chi può si aggrappi”. La Chiesa è per la felicità degli uomini, per la loro pace, per la bellezza, non per la noia, per il dovere, per l’ordine, per la disciplina, per la morale. La fede deve dare gusto alla vita e la Chiesa è la comunità di chi vuole dare gusto alla vita; e Dio chiama giovani ad affiancarsi a lui per sprigionare questo gusto della vita. Preti contenti di vivere, religiosi entusiasti, religiose felici sono molto meglio di tutte le tavole rotonde e le videocassette a tema vocazionale. Preti e suore che vivono la loro vocazione come tali e non come turabuchi organizzativi. Le esperienze di rinnovamento della propria congregazione religiosa e una ridefinizione coerente del proprio carisma sono condizione necessaria per proporre scelte di speciale consacrazione.

Una comunità è capace di provocazione quando è capace di esperienze radicali di vita cristiana. Anche esperienze un po’ trasgressive rispetto alla routine quotidiana. La vita cristiana non è un concentrato di buon senso, ma di dedizione senza riserve ad una causa, è una passione. L’unico modo per essere cristiani è sposare una causa, quella dell’amore, della dedizione, del servizio. Sono allora utili esperienze di vita comune, in cui ci si può disinfettare dalla ingessatura dei genitori o degli amici.

Quando questa comunità ha il coraggio di chiedere tanto, di chiedere tutto. Il coraggio di osare di chiedere nei luoghi più impensati della vita del giovane. La vocazione alla vita consacrata è un atto controcorrente e spesso attecchisce di più laddove la corrente si è fatta strada obbligata verso l’insignificanza, la banalità, la morte delle aspirazioni più belle.

 

Operare alcuni passaggi

Passare dalla logica del merito alla logica del dono. Viviamo in una società fortemente meritocratica che ha smarrito il valore della gratuità. E in questo capitalismo e materialismo e marxismo finiscono per convergere, anche se per opposti motivi. Uno facendo del denaro la molla della vita e l’altro relegando il gratuito alle favole per bambini. L’economicismo esasperato che guarda più ai profitti che all’occupazione è un tratto marcato del nostro occidente opulento e disperato. La nostra generazione sta dissipando i risparmi delle generazioni precedenti e sta sperperando le risorse del domani. E dobbiamo ricordare che tutto questo comporta un alto tasso di violenza. Questa nostra società è molto violenta. È una società in cui ha ragione sempre chi vince e vince sempre il più forte. Mentre la logica evangelica non è quella farisaica del merito, è la logica del dono, della grazia: tutto è grazia (Rm 9, 16; 1 Cor 4, 7). Santa Teresa di Lisieux sottolinea in proposito: la vita cristiana “non è questione di volontà, né di sforzi dell’uomo, ma di Dio che usa misericordia”. Tutto è grazia. Sempre santa Teresa di Lisieux: “Il merito non consiste nel fare né nel donare molto, ma piuttosto nel ricevere, nell’amare molto”. Nel ricevere! E lei che se ne intendeva, dice: “Gesù dice che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, ma lasciamo a lui la gioia di dare, a noi la gioia di ricevere!”. Dunque, bisogna dire anche qui dei no. No al perfezionismo illusorio e frustrante, no al volontarismo spasmodico e disperante. Sartre diceva: “Bisogna avere sperimentato l’amore prima della morale, altrimenti è lo strazio”. No per dire sì. Sì alla gratitudine e alla condivisione: tutti siamo abbastanza ricchi per poter dare, abbastanza poveri per dover ricevere. Bisogna che la comunità cristiana riscopra il valore della gratuità e delle cose inutili, del contemplare, innanzitutto. L’obolo della vedova: i poveri sono i nostri tesori; poveri di cultura, poveri anche di spiritualità coltivata, gente che non ha fatto mai corsi, convegni, però ci precede anni luce nel cammino verso il regno. Il più piccolo movimento dell’amore – questo è Giovanni della Croce – è più utile alla Chiesa di tutte le sue opere messe insieme. Anche questo Teresa di Lisieux lo cita almeno tre volte. Il valore del pregare senza preoccuparci di verificare se siamo stati o no esauditi. Quindi pregare per le vocazioni senza stare a contare… È il lasciarsi sciupare per amore, lasciarsi “sfogliare” – è sempre santa Teresa di Lisieux – : “Cosa sarebbe la Chiesa se la sua agenda fosse fitta di impegni, di attività caritative, se la sua borsa fosse piena di denaro per i poveri, e la casa di Betania fosse senza il profumo dell’amore?”.

Altro passaggio: dalla logica del progetto a quella della sequela. Il narcisismo punta sull’autorealizzazione. Il progetto. Ma la vocazione non è scegliere, è essere scelti, è farsi scegliere. Il cristiano non pensa a salvarsi, a realizzarsi, e la comunità cristiana non punta a difendersi o ad affermarsi. È il discorso delle testimonianze vocazionali fondamentali, che dovrebbero essere assicurate a tutte le comunità cristiane, anche a quelle in cui non ci sono più le suore da anni… perché quei giovani non devono venire a contatto con una comunità religiosa?, magari in un pellegrinaggio, in un giorno di deserto, di ritiro. È fondamentale.

Testimonianze date da preti che vivono una esistenza serena, grata e appagata. Prima di Natale mi è stato regalato un romanzo, scritto da un prete che non conosco, Luisito Bianchi, che mi dicono sia cappellano della comunità monastica di Viboldone, La messa dell’uomo disarmato. Vi riporto la conversazione tra un ex novizio e il suo parroco anziano. Parlano del fratello di questo ex novizio, che è un giovane medico che è andato in guerra in Grecia e che rischia di farsi amputare le gambe perché ha dato le calze di lana, che la mamma gli ha mandato, ai suoi compagni che avevano più freddo di lui. Ma lui non va in chiesa. Allora l’ex novizio dice al parroco: “La mamma è molto preoccupata per Piero, perché Piero non va in chiesa. Mamma dice: ‘Se Piero doveva cambiare, sarebbe stato meglio che avesse continuato ad andare in chiesa, chiudendo le sue mani bucate? Solo Dio sa…’. Ed ecco la risposta del parroco: ‘Per conoscere le persone, caro, non è necessario vivere loro accanto, è sufficiente volergli bene e cercare di capire le loro reazioni e le loro scelte. Certo, è necessario volergli bene, altrimenti non si capisce nulla; non dico amarle, che è troppo impegnativo’ – la retorica dell’amore! –, ‘forse presuntuoso, ma volergli bene’. Anche qui l’arciprete manifestava quella misura che adoperava nel bere al bicchiere o nel leggere un canto della Divina Commedia. E riprende: ‘Piero, ecco, io l’ho visto nascere, l’ho battezzato, gli ho fatto il catechismo, è cresciuto lentamente, senza fretta, nel mio animo. Come è capitato per te. Ho visto tuo padre quando cercava con lo sguardo tua madre nei banchi delle giovani, durante la messa alta. Li ho sposati, come si fa a non volervi bene? Non è necessario che voi ve ne accorgiate. Se si cammina sulla stessa strada si cresce insieme; e un prete, se non sta attento a questa crescita, che senso potrebbe dare alla sua vita?’. Ma, risponde questo ex novizio, fratello di Piero: ‘E se la crescita non va secondo il suo desiderio?’. ‘Vedi, caro,’ risponde il prete anziano ‘ci sono dei tempi e dei modi di crescita che il prete non conosce né può conoscere. Non deve provare nessuna amarezza se non corrispondono ai suoi tempi. Il suo voler bene non sostituisce l’amore di Dio, e qui bisogna proprio parlare d’amore’. – Questo termine lui con pudore riserva all’amore di Dio – ‘L’amore di Dio conosce quello che c’è in Piero, non posso fare altro che adorare questo amore. L’amarezza e la delusione non sono indizi di una buona adorazione. Certo, certo – mi prevenne – ci può essere una sofferenza se si constata una infedeltà, secondo i nostri parametri, al dono di Dio, ma mai amarezza o delusione. D’altra parte è la stessa sofferenza che proviamo nel constatare la nostra infedeltà’”.

Testimonianze vocazionali, quindi, offerte da sacerdoti; da laici impegnati nella coerenza al vangelo, senza che la coerenza diventi angoscia. Tu non vai ad annunciare la tua vita, ma la morte e la resurrezione del Signore. Puoi solo dire: lui mi ha salvato! Questo puoi dire, non quello che hai fatto tu. Di religiose e di religiosi che non facciano dire, come diceva Madre Teresa, “Ci sono dei frati, delle suore, dei consacrati che vanno in giro con certe facce, come se dicessero: ‘Guardate cosa m’hanno fatto!’”. E quindi, attenzione, l’angoscia per le vocazioni produce angoscia, non produce vocazioni.

Terzo passaggio: dalla logica idolatrica a quella eucaristica. Mi capita spesso di citare un passo di Bonhoeffer che è profetico. Dice Bonhoeffer: “Il contrario della fede non è l’incredulità, come noi pensiamo; è l’idolatria”. Sappiamo cos’è l’idolo; l’idolo non è tanto la statuetta, di legno o di marmo o d’oro, è il prolungamento del mio io. Bisognerebbe riscoprire Feuerbach, che ha indovinato; ha sbagliato solo nel dire che così nasce il dio vero. No, così nasce l’idolo.

Qualche giorno fa mi capitava di sfogliare le Fonti Francescane. Nella Leggenda dei tre compagni si da una pennellata sulla conversione di san Francesco, in questo modo: “Dopo il bacio al lebbroso, da quel momento Francesco smise di adorare se stesso”. Questa è l’idolatria. Questo è narcisismo. Qualche anno fa Eugenio Scalfari ha pubblicato un romanzo, intitolato Incontro con Io. Questo Io che, secondo l’autore, crea Dio a propria immagine e somiglianza. E dice così: “Quelle maestose presenze divine altro non sono che gli specchi costruiti da Io affinché riflettano le rifrazioni prismatiche che la mente distintamente è in grado di filtrare”. Allora, l’autore conduce un dialogo interessante con “orecchie narcise”, cioè ascolta se stesso, e si sente, alla fine, di essere “solo su un treno deserto: nelle stazioni c’è gente, luce, talvolta allegria. Ma subito si riparte, non si sa perché, non si sa dove”.

Bisogna passare dall’idolatria all’Eucaristia. Perché nell’Eucaristia noi abbiamo il massimo del decentramento, è Dio che, in un certo senso fuoriesce da sé, è Cristo che si fa pane e che dice: “Prendete!”. Non dice : “Io vi do”, “Prendete, mangiate; prendete, bevete”. Tutto è grazia. Allora, alla grazia di Dio deve corrispondere il grazie dell’uomo, questo è l’Eucaristia, il grazie (cfr. 1 Cor 1, 4; 1 Ts 5,18). Quando san Paolo dice: In ogni cosa eucaristeite – scrive Paolo – e viene reso dalla Bibbia ringraziate. Potremmo benissimo tradurre fate eucaristia. Dunque non le lagne, la pastorale delle lamentazioni, per i tempi funesti di morta fede e di empietà trionfante, ma la gratitudine, la riconoscenza. Sempre nel documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, al punto 36c c’è una bella pagina su la vocazione come riconoscenza, come eucaristia. Ad essa vi rimando per ulteriori approfondimenti

 

 

 

In-vocare

Nel duplice senso: sia nel senso del pregare, sia nel senso più esistenziale del domandare aiuto.

 

In senso liturgico

Innanzitutto pregare, perché ogni vocazione nasce dalla invocazione (NVNE 27a). Non si tratta solo di dire preghiere per le vocazioni, ma di vivere la preghiera, la grande preghiera, la liturgia come il luogo dell’annuncio e della realizzazione vocazionale. L’anno liturgico è strutturalmente itinerario vocazionale: è la celebrazione della storia della chiamata di Dio e della risposta della Chiesa[1]. I nostri giovani vivono su questa terra, in questa Chiesa, con un anno liturgico che comincia la prima domenica d’Avvento e finisce con la festa di Cristo Re. Camminano; ora, si tratta di aiutarli a camminare, questo è l’accompagnamento vocazionale, questo è il discernimento. Aiutarli a rispecchiarsi nella storia d’Israele, della Chiesa, di Cristo. Cristo è la vocazione, perché è il sì di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. Il tempo pasquale come celebrazione della vocazione e missione di Cristo, il tempo natalizio con l’Avvento è il tempo dell’attesa e della venuta del Signore, il tempo ordinario come cammino di conformazione a Cristo, con il sì di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio.

 

In senso esistenziale

Invocare anche in senso esistenziale. Cito Riccardo Tonelli, che dice: invocazione è “l’atteggiamento esistenziale di chi vive il frammento di esistenza di cui è protagonista, proteso, con una speranza operosa, verso una ragione di senso che riconosce di non possedere”. Ogni uomo si porta dentro una fame di assoluto, ma da solo non riesce a saziare questa fame. L’unica possibilità è che l’Assoluto gli si faccia incontro e l’uomo vi si abbandoni. Forse si fa fatica ad ascoltare e a capire bene. Io renderei questa definizione del senso esistenziale, con quella storia di Bruno Ferrero, di quella famiglia che di notte deve scappare di casa perché si è sviluppato un incendio in casa. Papà, mamma e figli più grandi subito escono, ma quando sono fuori vedono un grande fumo e non vedono il bambino più piccolo. Il papà chiama questo bambino e finalmente si sente una voce dalla mansarda, il bambino chiama “Papà, papà”, e il papà dice “Buttati giù”, e il bambino “ma io non vedo niente”, “Ti vedo io, buttati giù”. Se noi fermiamo la moviola nel momento in cui questo bambino sta per decidere di buttarsi, ha le spalle al fuoco: non può tornare indietro; davanti ha il vuoto, il fumo: non vede niente, il buio. Cos’è che lo fa decidere a buttarsi? Non è vedere il papà, ma sapere che c’è il papà, “Ti vedo io, buttati giù”.

Questa è l’avventura della fede. La vocazione è fede, se no che roba è? Questo deve garantire una comunità cristiana. L’educazione alla fede, cioè al fidarsi, all’affidarsi, al buttarsi, non perché tu vedi, perché tu credi che anche se non c’è la rete di protezione, ci sono però le braccia forti di papà, di questo Dio Abbà, che non ti fa sfracellare nel vuoto.

 

Alcune piste di concretizzazione

Primo: occorre ridire con parole nuove povertà, castità, obbedienza. La povertà mi libera dalla voglia di possedere e mi apre alla gioia di condividere. La castità non spegne l’affettività, ma la tiene in vita. L’obbedienza non reprime la libertà, ma la mantiene in quota. Don Milani: “Quando uno regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela”.

Ancora. Le esperienze associative, in cui è chiaro e ben sperimentabile il fine, sono utili e per molti giovani indispensabili; sono piccoli tirocini in cui ci si misura, in cui ci si sostiene in un cammino che ha un minimo di continuità, di orientamento costante ad un obiettivo, di prova delle proprie capacità di tenuta.

Ancora. L’ascolto della Parola, aiutare i giovani a pregare, a scoprire la bellezza della preghiera. Ma dove sta scritto che i giovani non vengono. Come è possibile che i giovani non si lascino più incantare, affascinare dalla figura di Gesù? L’ascolto della Parola, se non è da routine o da estetisti o da filologi, ma capace di interpretare la vita, aiuta a trovare punti di riferimento per la decisione. Ad essa è collegata la preghiera e la utile frequentazione delle vite dei santi. I religiosi e le religiose a questo riguardo hanno molte possibilità di far balenare davanti l’esito di una risposta alla chiamata di Dio nella vita dei loro santi fondatori. Ovviamente, una vita da cui ci si è lasciati contagiare.

Ancora. Una guida spirituale che capisce e rilancia all’interessato la decisione, senza creare solitudine e nemmeno dipendenza; capace di proporre esperienze significative e quasi simulatrici della futura strada che si ha in mente di percorrere. Spesso è sufficiente curare luoghi che permettono un dialogo spirituale, aperti sugli orari dei giovani, come monasteri e conventi. Luoghi di forte esperienza religiosa per far capire che ci sono altre strade, le strade di Dio da intercettare.

 

 

Note

[1] Cfr. M. SODI, ‘Vocazione’, in Dizionario di omiletica, p. 176