N.01
Gennaio/Febbraio 2002

Conformati a Cristo per accogliere le sfide di questo nostro tempo

Carissimi amici, sono contento di essere qui con voi stasera. Per tanti motivi, per tante ragioni. Ho la sensazione di tornare indietro negli anni; sì, perché, appena ordinato prete, il mio Provinciale, il mio superiore d’allora, ebbe l’augusta idea di assegnarmi alla pastorale vocazionale e per alcuni anni ho seguito le iniziative dei vari centri vocazioni in Italia, anche a livello nazionale. Ricordo che allora il cavallo di battaglia – parlo di quindici anni fa – era “pastorale unitaria”, “bisogna muoversi insieme, organicamente”… E credo che lo slogan, la parola d’ordine, oggi, più o meno, sia la stessa. Io credo che un’assise come questa davvero è un segno grande di ecclesialità, abbiamo tutti coscienza di avere il comune battesimo, la comune fede in Gesù Cristo… Mentre cantavate pensavo che non siamo qui in questa chiesa per accidente, non semplicemente perché c’è stato qualcuno che ci ha invitati a partecipare a uno dei tanti convegni, o “al convegno”. Direi piuttosto che siamo qui perché, in una maniera o nell’altra, abbiamo incontrato Gesù Cristo. Io credo che questa sia la verità, l’unica vera, grande verità. Se siamo qui in questa chiesa oggi, se facciamo parte di un istituto religioso, se siamo entrati in seminario, se siamo sacerdoti, religiosi, religiose, è perché Gesù Cristo ci ha incastrato! Scusate se uso questa espressione forte, ma io la trovo estremamente aderente a quella che è stata la mia esperienza vocazionale. Io davvero sono stato incastrato dal Signore, dal Padreterno… lo dico senza pudore, perché in testa avevo ben altri piani… Io credo che questa, più o meno, sia l’esperienza di tutti. Non è che uno si svegli al mattino e dica: “Va be’, vado a fare il prete…, vado a fare il missionario”. Ci sono situazioni, circostanze, fatti, accadimenti attraverso i quali il Signore si manifesta.

La verità è che io facevo l’ufficiale di Marina, ero stato in Accademia a Livorno, avevo fatto la Scuola Navale, avevo anche una bella ragazza – devo ammetterlo – e un bel giorno il Signore m’ha incastrato; e m’ha incastrato non da solo, con la mia dolce metà di allora, attraverso una persona fisica. Dico questo perché è un aspetto molto importante: io credo che ognuno di noi è chiamato ad annunciare la Buona Notizia, a testimoniare il Vangelo e a gettare la rete; io credo che ognuno di noi ha questa grande responsabilità. Io non credo che chi opera nel campo delle vocazioni sia un professionista a senso unico: non ci viene chiesto di salvare la nostra specie che rischia l’estinzione, ci viene chiesto di testimoniare il Vangelo e nella misura in cui spontaneamente facciamo questo io credo che i nostri istituti, le nostre famiglie, inevitabilmente, si meritano la grazia di Dio e dunque le vocazioni. 

In fondo questa è stata la mia esperienza, perché ho incontrato un missionario che si chiama Padre Alessandro Zanotelli, allora era appena entrato nella redazione di “Nigrizia”, era davvero un missionario di punta, uno che viveva la frontiera, che vive tuttora la frontiera. Una figura scomoda, molto scomoda, scomoda da tutti i punti di vista; un grande contemplativo, un uomo che stava e sta tuttora tre/ quattro ore a pregare di notte. Io sono contento che questa veglia sia, insieme all’Eucaristia, il momento più importante del vostro Convegno, perché, è inutile nasconderselo, la contemplazione è la prima forma di missione e tutto nasce pregando. Se non c’è un’esperienza carismatica forte, un’esperienza del Dio Vivente, uno rischia di andare per conto suo, di realizzare i propri progetti e non certo i progetti di Dio.

L’esperienza che io ho avuto con Padre Zanotelli, soprattutto nei primi tempi del cosiddetto accompagnamento vocazionale, è stata così forte, così coinvolgente, così spirituale, che davvero mi ha sedotto. Quando dico “spirituale”, però, intendiamoci: non è stata un’esperienza intimista – per carità! sarebbe stata la mia disgrazia! –. Ricordo che Padre “Alex” mi diceva sempre – e me lo ha ripetuto la settimana scorsa quando a Nairobi l’ho incontrato – : “La spiritualità cristiana è vita secondo lo Spirito”. Citava Agostino.

Quindi, se da una parte c’è lo Spirito, c’è l’Eucaristia, c’è la Parola di Dio, c’è la grazia, i sacramenti, la sola fede che condividiamo, il solo battesimo,… se da una parte c’è lo Spirito, dall’altra c’è la vita, la vita di tutti i giorni, le grandi sfide del mondo, nelle quali uno si deve buttare, si deve gettare. Io credo che la grande sfida missionaria sia davvero nel coniugare Spirito e vita. Il rischio grande che, a volte ho visto, rischio che, paradossalmente, ho rischiato anche io, davvero in prima persona, quello di sbilanciarmi più da una parte o più dall’altra. Eppure, io credo che sia importante vivere la spiritualità cristiana e testimoniare la spiritualità missionaria perché è quella che ci consente di rispondere in maniera adeguata alla Parola.

La Parola è forte; l’abbiamo ascoltata poc’anzi, l’esperienza di Paolo nella Lettera ai Filippesi: “Tutto, ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù”. Sappiamo bene che Paolo non è che fosse stato uno stinco di santo. Era un uomo iroso, aveva le scariche di adrenalina. L’altro giorno stavo leggendo un commentario del cardinale Martini proprio su Paolo, ed era interessante il famoso litigio tra Paolo e l’amico Barnaba, il suo maestro. Era interessante perché Paolo usa una parolina – paraxusmos – “s’incavolò”, “gli venne il sangue alla testa”. Davvero Paolo aveva le scariche d’adrenalina, era uno in carne ed ossa. Non era certamente il tipo di santo che, forse, a volte abbiamo immaginato; una grande umanità, conquistata da Cristo. E quando uno incontra Gesù Cristo fa l’esperienza dell’ apocalypsis. Paolo descrive l’incontro con Cristo con questa parola: “apocalypsis”, “rivelazione”, “manifestazione”, “epifania”, quella che celebriamo in questi giorni. Quando uno fa l’esperienza del Dio vivente, non rimane con le mani in mano, ma sente l’esigenza di condividere con gli altri la Buona Notizia. Sente questa spinta ad uscire fuori le mura. 

Questo, in fondo è quello che ho sentito, nonostante – questo tengo a precisarlo – la mia debolezza. Io ricordo che avevo una grossa “fifa”, e la fifa più grande riguardava la vita affettiva, perché, sì, c’era stata la ragazza, però poi, ce l’avrei fatta nel tempo? So di essere sensibile, per certi versi anche istintivo; la mia natura umana sarebbe riuscita, attraverso la grazia, a rispondere? In questi anni, quante volte la parola di Paolo mi ha consolato. Paolo usa una parola in greco bellissima: l’asteneia, la debolezza, ma più che debolezza è proprio fifa, questa precarietà di fronte a quella che è la grande sfida. Siamo tutti come Pollicino, siamo tutti piccoli, di fronte alla Parola di Dio, di fronte alla sfida della missione. Uno può essere religioso, sacerdote, consacrato, addirittura – e lo dico con tutto il rispetto – vescovo, ma la Parola di Dio è ancora più grande, la sfida missionaria è ancora più grande. Tutti sperimentiamo una inadeguatezza, umanamente parlando, di fronte alla sfida della missione. Eppure la grazia di Dio davvero è grande. E io sono qui adesso, innanzitutto e soprattutto per dire grazie al Signore, perché nonostante la mia debolezza, il Signore ha compiuto prodigi; dice Paolo: “Virtus in infirmitate perficitur”, “È nella debolezza che si manifesta la potenza del Signore”, la forza del Signore, e “quando sono debole, è allora che sono forte”. E io, in questi anni di vita missionaria, questo, vi assicuro, l’ho sperimentato sulla mia pelle. Una cosa è certa, credo che il Signore davvero ci chiami alla militanza. La vita consacrata, la vita religiosa, la vita sacerdotale sono situazioni di frontiera; non possiamo rimanere in sacrestia, non possiamo stare a guardare i candelabri; in chiesa ci stiamo per pregare, per spezzare il pane nel nome del Signore, per ascoltare insieme la sua Parola, per pregare anche a livello personale, perché è fondamentale, perché è l’inizio della missione. Ma poi la missione è fuori, la missione è nel mondo, la missione è sul muretto, la missione è nel mondo della politica, nel mondo della comunicazione… La missione è in Africa, è in Asia, in America Latina, ma anche nelle periferie delle nostre città… Perché il Signore Gesù Cristo non è che ci chiama tanto per il gusto di chiamarci, perché bisogna riempire i seminari, perché è importante riempirli, o perché il carisma del nostro santo fondatore o santa madre fondatrice deve andare avanti a tutti i costi, no. Il Signore ci chiama per darci una missione.

Quello che ho capito – e lo dico davvero con tanta umiltà – in questi anni, è che la vocazione, se da una parte ha una sua dimensione unica, appunto carismatica, che vale per tutti, (ma) nel tempo acquista un dinamismo. Dico questo perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Quando sono entrato nei Missionari – vi dicevo, facevo l’ufficiale di Marina – sono entrato nei Missionari perché mi piaceva vivere questa dimensione, mi sentivo chiamato a questo ministero. Non avrei mai pensato di essere chiamato poi a fare il giornalista. Non m’era mai passato nell’anticamera del cervello di operare in questo campo, in questo settore. È stata la missione a mettermi in discussione e a spingermi a questo apostolato, che, peraltro, il Papa raccomanda nel suo Magistero. 

In quella bellissima Enciclica missionaria, la Redemptoris missio, (il Papa) parla del mondo della comunicazione come uno dei grandi ambiti nei quali dobbiamo vivere oggi l’ad gentes. Non è certamente una categoria geografica, però è una realtà trasversale alla nostra società, nella quale dobbiamo essere presenti. In fondo la comunicazione è la prima forma di missione: Gesù Cristo è stato il primo comunicatore per eccellenza, Gesù è la Parola. Non è un caso che i nostri vescovi insistano tanto, di questi tempi, sulla comunicazione. Per avere vocazioni, per vivere la missione, dobbiamo tutti imparare ad essere comunicatori. E, ammettiamolo, facciamo tutti fatica a comunicare, oggi. Facciamo un serio esame di coscienza… un po’ tutti, io per primo. Stiamo attenti a non usare, tante volte, il “politichese”, il linguaggio astratto; parliamo la lingua della gente, come faceva Paolo. E non comunichiamo astrazioni, comunichiamo la vita. Perché, se da una parte è vero che il primato è della Parola, del Vangelo che è stato proclamato poc’anzi, se a questo Vangelo non associamo la vita, la vita della gente, i nostri sono bei pensierini, sterili, che non servono a un accidente. 

Proviamo a chiederci, come preti, quando predichiamo dal pulpito, la gente se ne torna a casa con quale messaggio? Ha capito qualcosa? Li abbiamo provocati? È davvero, come dice Paolo, la Parola, una spada a doppio taglio che quando entra dentro ferisce? O, invece, i nostri sono discorsi belli, corretti dal punto di vista sintattico, ottima la grammatica, e poi la gente se ne torna a casa con quale messaggio? Con quale “buona notizia”? Io credo che le sfide oggi siano tante; le sfide che vengono dal mondo sono davvero tante.

Ma prima di parlare delle sfide che sono parte integrante della vocazione, perché senza quelle la vocazione non ha significato, credo sia importante sottolineare un aspetto che a volte sfugge. Nel Vangelo Gesù dice che dobbiamo essere sale della terra e luce per il mondo; dice che dobbiamo essere come lievito. C’è una sproporzione vistosa tra il lievito, quel tocchettino di lievito, e la massa. C’è una sproporzione vistosa dal punto di vista quantitativo, tra il sale, quel pizzico di sale che sala, e la pasta. Quello che ci viene chiesto come religiosi, come consacrate, nella pastorale vocazionale credo sia innanzitutto e soprattutto la capacità di salare, di far lievitare. Ma non dobbiamo trasformare tutto in una saliera, non dobbiamo trasformare tutto in un tozzo di lievito. No, per carità, perché fa schifo una saliera; uno mangia il lievito? No. L’evangelizzazione sta proprio nel coniugare il sale con la pasta, il lievito con la massa, e che sia la massa a crescere. Perché dico questo? Perché nella mia esperienza nel mondo dei mass media mi sono reso conto che io non dovevo convertire nessuno a Gesù Cristo. Voi direte, sto dicendo un’eresia. No. La conversione è opera di Dio. È Gesù che converte il cuore. Io posso fare i salti mortali, posso trovare i più grandi espedienti tattici, e tornarmene a casa a mani vuote. La conversione è opera del Signore, dello Spirito, è una grazia di Dio. Io davvero mi sento impotente di fronte al mistero della conversione. Quella è opera di Dio. A me viene chiesto però di testimoniare la Parola, di annunciare la buona notizia. Giovanni Paolo II nel suo Magistero insiste molto su queste due vie della missione che sono fondamentali. Da una parte la testimonianza, che è la prima forma di missione, e poi l’annuncio, che ricapitola tutto: io devo dire che Gesù è il Signore. E uno lo deve fare nel mondo, in una società dove le contraddizioni sono tante. Noi viviamo davvero momenti difficili. Se uno legge i giornali, ascolta la radio, guarda la televisione… non è solo la tragedia delle Twin Towers, non è solo la tragedia del Pentagono, quei tragici fatti dell’undici settembre, non è solo quella la cronaca… È tutto il mondo in subbuglio. Le “Twin Towers” nel Sud del mondo ci sono tutti i giorni. L’altro giorno parlavo con il Patriarca di Babilonia dei Caldei, che mi diceva che solo in Iraq ogni mese muoiono oltre 5000 bambini. È come se ogni mese ci fosse la tragedia delle Twin Towers, per i bambini! Che riguarda solo gli infanti! Per non parlare poi delle guerre dimenticate dell’Africa, dell’Asia dell’America Latina, del Sud Sudan, dell’Uganda, dell’Angola, la lista è lunghissima… e queste sono le sfide che vengono da una società inquieta. E poi c’è la recessione economica… e poi vediamo che, anche da un punto di vista sociale, i valori, i valori evangelici, quelli a cui noi crediamo, a noi tanto cari, spesso sono calpestati. Vediamo qui da noi un’istituzione “sacro-santa” come quella della famiglia, messa in discussione; aumentano i casi di divorzio, separazioni; i genitori fanno fatica a dialogare con i figli, i figli fanno fatica a dialogare con i genitori… Sulla base della mia esperienza, credo siano tre gli ambiti nei quali dobbiamo sporcarci le mani.

Uno l’ho accennato prima: il mondo della comunicazione. Dobbiamo comunicare e dobbiamo imparare a comunicare. Se non siamo comunicatori tradiamo la nostra vocazione. Non è che dobbiamo entrare tutti dalle Paoline, per carità, le Paoline hanno la fortuna di avere una vocazione particolare; ma, in un modo o nell’altro, tutti dobbiamo essere comunicatori e metterci profondamente in discussione. Un secondo ambito che mi sembra molto importante è quello politico. Voi direte, ma che c’entra la politica? Eccome se c’entra! La nostra è una fede politica, ma per politica intendo dire: attenta al bene comune. Noi spezziamo il pane durante l’Eucaristia e quel pane lo condividiamo con i vicini e con i lontani. Non possiamo essere individualisti. Spesso ci accorgiamo che viviamo in una società che vive l’esatto contrario, vive un profondo individualismo. La crisi della politica nel nostro Paese, la crisi delle istituzioni, ci mette profondamente in discussione. Quando noi parliamo di vocazione, abbiamo coscienza che la chiamata alla vita religiosa è davvero una chiamata all’impegno per il bene comune, per la res publica? Prima, mentre stavo venendo in questa chiesa, mi sono fermato nella segreteria e vedevo le fotografie che illustravano il percorso di un grande santo italiano: La Pira. C’è bisogno, nella nostra società, di gente così. C’è bisogno di gente che vive immersa nel mondo e lo trasforma coerentemente in fedeltà al Magistero della Chiesa, alla Parola di Dio, annunciando con coerenza la Buona Notizia.

Ma quello che il Signore ci chiede è di essere segni di contraddizione; segni di contraddizione, nel mondo della comunicazione, nel mondo della politica, e, direi, soprattutto, in un altro ambito, che ci tocca tutti da vicino, che è quello della globalizzazione. Voi direte, che c’entra la globalizzazione? C’entra, c’entra, eccome! Tutti sperimentiamo forti condizionamenti, ma non solo per quanto concerne l’economia. La presenza di tanti fratelli che vengono qui nel nostro Paese la dice lunga, tanti fratelli del Sud del mondo che bussano alle porte delle nostre sacrestie, delle nostre parrocchie, delle nostre case.

La globalizzazione del pensiero. Papa Giovanni Paolo II insiste tanto sulla “globalizzazione della solidarietà”, il modo intelligente per rispondere a questa sfida. Io, tutto questo lo sperimento a livello personale, come missionario, perché, lavorando in una agenzia di stampa che si sforza di dare voce al sud del mondo, alle giovani chiese, operando in un ambito difficile – dare voce a chi non ha voce, credetemi, non è facile; spesso ci si trova di fronte ai muri di gomma – … io credo questo sia un modo intelligente per vivere la vita consacrata oggi, di testimoniare i valori del Vangelo. 

E la sfida viene dalla missione. Io sono contento di vivere la mia consacrazione attraverso la povertà, la castità e l’obbedienza, ma perché mi rendo conto che questa consacrazione è davvero in funzione della missione, e non viceversa. L’altro giorno un ragazzo mi chiedeva: “Ma tu ti senti più religioso o più missionario?”. Io non vedo una contrapposizione tra queste due dimensioni, ma se dovessi scegliere, direi: mi sento, innanzitutto, missionario, perché la mia consacrazione serve a servizio della missione. Credo che questo sia un aspetto estremamente importante. Per carità, quando mettiamo avanti il “convento”, un certo stile di vita, che condiziona poi la missione… io credo che debba essere la missione che mette in discussione il nostro modus vivendi. Io credo che su questo sia importante avere una visione davvero a 360 gradi; e devo dire che ringrazio il Signore di aver avuto dei superiori illuminati nella mia famiglia religiosa, nella mia congregazione, che questo l’hanno capito. Io ricordo che quando iniziai il progetto della MISSNA, nel 1997, avevo una grande fifa perché mi chiedevo fino a che punto potessi conciliare la mia vita di religioso, di sacerdote, di missionario, con la vita giornalistica, con una vita “laica”, avevo paura di non farcela. Devo dirvi che mi ha aiutato moltissimo la direzione spirituale, m’ha aiutato tantissimo la celebrazione dell’Eucaristia, m’ha aiutato tantissimo la preghiera, soprattutto la preghiera dei miei confratelli, che quando io, alle due di notte, stavo e sto in redazione, pregano per me. La sento molto questa “Koinonia”, questa comunione. La Chiesa, checché se ne dica, segue la logica dei vasi comunicanti: quando uno sta giù, l’altro pompa su. 

C’è un aspetto che mi sembra molto, molto importante. Tutto il discorso missionario, tutto il discorso vocazionale, si gioca innanzitutto e soprattutto nella “frontiera”. Ed è lì che mi sento realizzato come persona; ma non da un punto di vista psicologico, direi da un punto di vista proprio esistenziale. Io ho sentito, in questi anni, le grandi sfide della società del mondo nel quale vivo. Queste sfide le ho colte in Africa, negli anni di missione, di apostolato diretto, in Uganda, in Kenya, viaggiando per l’Africa, per il Sud del mondo, dalle Filippine al Venezuela; ma capisco anche che tutto questo significa passione per il regno. Passione per il regno che si sperimenta innanzitutto nella frontiera. Prima vi parlavo della sacrestia, dicevo: attenzione alla sacrestia, perché il rischio grande, tante volte, è quello di rimanere in sacrestia. Io credo che ognuno di noi deve trovare la sua frontiera. Per me la frontiera è il mondo della comunicazione. Però ogni istituto religioso, ogni famiglia religiosa deve davvero fare maggiore chiarezza sulla propria frontiera, perché la frontiera è dinamica, è qualche cosa che non rimane statica nel tempo.

Ho parlato troppo. Colgo quest’occasione per dirvi grazie; grazie per la preghiera, nella cristiana certezza di essere con voi sulla barca di questa Chiesa, Chiesa italiana che veleggia in questo terzo millennio. Sia lodato Gesù Cristo.