N.02
Marzo/Aprile 2002

Vocazione e vocazioni di fronte alla universalità della missione della Chiesa

È forse un po’ azzardato affermare che le vocazioni missionarie ad gentes stiano scomparendo; stiamo assistendo certamente alla diminuzione del numero di chi vi risponde o di chi la percepisce. La ricerca e la riflessione dunque investe prevalentemente le ragioni di questa diminuzione e non tanto il suo intrinseco significato e la sua attualità ecclesiale. Ma questo è un fenomeno – quello della diminuzione delle vocazioni – che è generale e riguarda tutta la chiesa, e non per questo credo si possa parlare tout court di una scomparsa della vocazione sacerdotale. Certo è che dopo il Concilio Vaticano II, che pur aveva messo in chiara luce il significato e la specificità della vocazione missionaria ad gentes, è subentrata una forte flessione relativamente a questa specifica vocazione per una specie di corto circuito che si è attuato in seno alla comunità cristiana o meglio in quella parte di comunità cristiana che aveva ed ha delle responsabilità ecclesiali in ordine all’educazione alla fede del popolo di Dio.

Era nato, e ancora per certi versi permane, lo strano convincimento appunto che essendo tutti missionari in forza del battesimo – dimensione riscoperta dopo il Concilio – la vocazione e la realizzazione della missione ad gentes fosse di secondaria importanza o comunque perdesse una sua naturale specificità. Questo è dovuto anche alle pressioni sotto cui le nostre vecchie cristianità si dibattevano (e si dibattono) al loro interno: pressioni legate al fenomeno della modernità e della post modernità, che ha segnato le profondità della nostra società producendo un elevato numero di persone scristianizzate e anche di non battezzate; pressioni nate anche e comunque da un esserci un po’ addormentati sull’acqua del battesimo abbandonando di fatto l’attività evangelizzatrice nelle nostre comunità.

Nel tentativo quindi di ricuperare energie evangelizzatrici interne alle chiese, ci si è lasciati prendere da un’impostazione riduttiva e locale dell’ad gentes con risvolti e conseguenze negative in ordine al problema dell’evangelizzazione dei non cristiani sparsi oltre le proprie realtà ecclesiali; quasi ad affermare che essendo “tutti missionari” (l’universale) debba necessariamente venir meno anche “il missionario ad gentes” (il particolare, lo specifico). Come a dire, amò di esempio, e fatte le debite e sostanziali differenze, che la Chiesa universale, proprio perché universale, assorbe il compito proprio delle Chiese particolari.

 

La necessità della vocazione ad gentes

La domanda se la vocazione missionaria ad gentes “è ancora necessaria”, non può sottintendere la convinzione che essa potrebbe anche non esserlo! È l’essere stesso, intimo della vocazione ad gentes che implica la sua necessità. È vero che tutti i carismi vengono concessi per il bene e l’utilità della Chiesa e dunque hanno e possono avere esistenza in alcuni momenti specifici della storia e poi terminare, ma nel caso dell’evangelizzazione ad gentes, questo carisma che lo Spirito suscita nella Chiesa dovrebbe forse cessare quando si avvererà l’ipotesi che tutta l’umanità abbia ricevuto l’annuncio del Vangelo. Ma noi sappiamo che il Vangelo deve essere annunciato a tutti i popoli e nazioni, di generazione in generazione sino alla fine della storia e del mondo. Dunque la vocazione ad gentes mantiene tutta la sua significanza ed utilità. Sarà invece oggetto di riflessione il suo collocarsi oggi in ambiti e luoghi che sconfinano da semplici ed identificate coordinate geografiche definite “nazioni pagane”, o etnie da evangelizzare.

La Redemptoris missio a riguardo porta un’intensa luce di chiarezza e conferma, in modo autorevole e fermo, la validità e l’attualità della vocazione missionaria ad gentes (cfr. cap. IV). La Chiesa al suo nascere si è rivolta non alla cura pastorale delle comunità cristiane (e questo per la semplice ragione che esse non esistevano ancora!) ma a quanti “barbari o sciti, giudei o greci” ha incontrato sul suo cammino, esprimendo così la sua intrinseca e congenita natura che è quella di rivolgersi all’ad gentes. Quell’ “andate in tutto il mondo ed annunciate il Vangelo” di Gesù, non è un invito declinabile a seconda degli umori ecclesiali o situazioni che incontriamo; è un comando fermo e preciso.

Rimane dunque di somma importanza la sollecitudine della Chiesa per i non cristiani, e perciò quanti vi si dedicano con speciale chiamata, diventano segno paradigmatico di tutta la spinta e di tutto l’amore che la Chiesa ha per l’Evangelo da consegnare a tutti gli uomini. Ed è certo che questo non mette in ombra né svalorizza tutta l’attività d’evangelizzazione che attuiamo quando ci rivolgiamo a quella porzione del popolo di Dio che pur fruendo della quotidiana cura pastorale, conserva nel suo seno o ai suoi margini gruppi e persone che hanno dimenticato la loro appartenenza ecclesiale o sono persone che non hanno ancora ricevuto la Buona Novella. Ma sappiamo che qui si tratta di assumersi delle attenzioni pastorali atte ad attuare la cosiddetta nuova evangelizzazione.

Un’altra ragione dell’importanza e del valore della vocazione ad gentes sta nel fatto che il Vangelo non ha confini, ha bisogno di uscire dalle frontiere interiori ed ecclesiali, qualunque esse siano, proprio per una spinta d’amore intrinseca che lo proietta a dilatarsi, ad andare oltre, a collocare le proprie energie vitali in spazi “vergini” e non dissodati, per attuare anche lì le grandi opere di Dio nel cuore delle persone: la risurrezione di Gesù, la gioia della speranza della vita eterna, la liberazione della morte, il perdono dei peccati.

“Siamo Parti, Medi, Elamiti ed abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi ed Arabi e li vediamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. (At 2, 9-11). Il Vangelo esprime così tutta la sua rinnovata fecondità e alterità. Abbiamo bisogno inoltre di sentire l’universalità della Chiesa, il Volto radioso del Risorto che parla ed abita ogni popolo e nazione, lingua e cultura; e questa caratteristica, che è già dono affidato, si estrinseca e si concretizza perché qualcuno o più, diventano, per grazia e chiamata, segno e ponte di questa sintesi evangelica.

Nessuna esperienza di Chiesa realizza nel proprio vissuto, a se stante, le immense ricchezze che i popoli vivono e che vengono a noi attraverso l’esperienza di coloro che, avendo piantato la loro tenda tra quelle genti in maniera del tutto singolare, portano nella carne viva i segni di questo scambio vissuto nella quotidianità. Essi, nostri fratelli e sorelle nella fede, hanno sperimentato la diversità con cui l’evangelo si incarna e crea uomini nuovi; hanno visto l’intensa luce dello Spirito che irrora alle radici quelle culture e quelle esistenze, diventate ricchezze messe a disposizione di tutti.

La vocazione ad gentes si attua in questo processo di fotosintesi del Vangelo in quanto implica un andare, uno stare, un vivere la propria fede dentro la realtà umana, culturale, religiosa di quelle genti, realizzando un passaggio, una Pasqua intima ed interiore che tocca il cuore e le strutture di coloro ai quali si è inviati e di coloro che sono stati mandati. Nel ritorno di questi ultimi alle proprie cristianità d’origine si concretizza lo scambio e l’annuncio delle meraviglie che il Signore compie tra i popoli.

 

Cosa deve cambiare nell’annuncio e nella proposta?

Oggi siamo così immersi in una rete fittissima di condizionamenti, situazioni, molteplicità di presenze e di necessità che assorbono ed influenzano ogni persona, la quale, per ritrovare la radice di se stessa e la propria identità, deve lacerare parecchi involucri in cui è avviluppata. Anche il valore della chiamata alla missione ad gentes ha bisogno di essere ritrovata alla sua radice ed essere percepibile senza troppe circonvoluzioni, ragionamenti socio/esistenziali o legami fondati su bisogni esterni della gente.

L’inganno per questa (e le altre) vocazione è il presentarla solo come annuncio di luoghi, impegni e modalità missionarie dove spendere la propria vita; o il motivarla quasi fosse parte di un programma Caritas la cui ragione ultima è quella di aiutare gli altri, anche nel nome di Gesù, nei loro bisogni primari. L’unica formula vincente per la proposta missionaria è di incontrare dei missionari che vivono la propria identità vocazionale in una evidente radicalità evangelica. È solo questa che crea interrogativo autentico perché introduce a pensare agli uomini con categorie trascendenti, spirituali e non solo con quelle di bisogni sociali, economici, assistenziali.

Bisogna perciò diffidare di chi, andando oltre il consentito, propone ai giovani d’oggi un impegno missionario coincidente troppo con un pronto soccorso materiale o anche un benessere interiore e mette in secondo piano la necessità di interpellare i giovani ad impegnarsi con Cristo e per Lui nell’opera evangelizzatrice. Ci sono già organizzazioni cristiane e non, che vivono e si propongono come luoghi dove esercitare la filantropia o la solidarietà fraterna verso tutti i bisognosi. Non c’è bisogno più di tanto che questo diventi in primis il cavallo di battaglia cavalcato dal missionario.

Forse sta anche qui una ragione per cui oggi la vocazione missionaria ad gentes agli occhi di alcuni giovani perde significato: l’equiparano ad altri servizi di volontariato che rimangono comunque meno impegnativi sia da un punto di vista interiore personale che nell’impegno di tempo cui dedicarsi. È pur vero che presentare oggi la vocazione missionaria come chiamata del Signore a stare con Lui per poi andare a predicare (cfr. Mc 3, 14) rischia di cadere su un terreno giovanile impreparato a questo tipo di motivazione per il semplice fatto che a volte esiste una precomprensione di fede per quel tipo di servizio, molto modesta e generica o non esiste affatto. Per questo allora sono necessari, nel caso di una sensibilità di fede già sussistente o di cammini impegnati, degli itinerari vocazionali personali che precisino ed approfondiscano la chiamata ad gentes. A questo punto è necessario che la persona che aiuta il giovane a discernere la propria vocazione, sia capace di entrare nel suo cuore facendolo sentire amato da Dio (Mc 10, 21) affinché si apra alla proposta che il Signore intende fargli.

Rimangono di necessità anche tutti quegli “strumenti missionari” utilizzabili per creare coinvolgimento, interesse, sensibilità relativamente al problema missionario che possono produrre seri interrogativi in ordine ad una disponibilità vocazionale specifica. Di non poco conto sono anche quei luoghi missionari (Case, Seminari, Centri di animazione…) frequentati dai giovani per vari motivi: essi devono “trasudare” l’esperienza della missione ad gentes per le proposte e le attività che in esse vengono fatte. Ma anche qui come è naturale la visibilità della missione ad gentes e la sua bellezza viene resa unicamente dai missionari che lì si incontrano. E non è poca cosa che i “due o tre missionari” riuniti insieme testimonino attraverso la loro fraternità e santità la forza e l’amore che emana dalla loro vocazione.

È grande la nostra responsabilità a riguardo ed è qui il grande cambiamento che va permanentemente attuato in ciascuno di noi per manifestare la gioia di essere stati chiamati all’opera di evangelizzazione nella grande avventura dell’ad gentes. E questa gioia non è altro che il senso di vita piena e di profonda pace che sgorga dall’essere stati servi fedeli a quel Padrone della messe che si è chinato su di noi, ci ha scelti dal suo popolo e ci ha affidato l’annuncio della buona novella ai poveri. (cfr. Lc 4, 18-19).

Termino con un richiamo che non va dimenticato e che è la chiave di volta e non la soluzione di ripiego in ordine alle vocazioni e cioè l’invito di Gesù a “pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe” (Mt 9, 38). Questo invito colloca il problema della proposta vocazionale nella sua sede originante quella cioè di un ministero che sgorga direttamente dal cuore di Dio, quale dono invocato attraverso la preghiera. Essere convinti e fedeli a questa “strategia vocazionale” che è la preghiera, da parte di coloro che vivono già la vocazione ad gentes, non è poca cosa, anzi è la fondamentale, ma rischia spesso di essere disattesa e sostituita con altre formule ritenute vincenti nell’orizzonte sociale e psicologico.

Rimane comunque affascinante e misterioso, irraggiungibile e inspiegabile l’impulso vocazionale di alcuni “chiamati” alla vita consacrata avvertito al di fuori di ogni cammino ordinario di fede o di particolare itinerario vocazionale. Il Signore della messe dunque pur richiedendo a noi quanto doveroso in testimonianza ed impegno vocazionale, si riserva, a nostro ammaestramento, quella libertà di grazia e di amore per il suo gregge al quale non farà mancare i suoi inviati.