N.02
Marzo/Aprile 2002

Vocazione e vocazioni nel quadro culturale di valori e relazioni di un territorio che cambia

“La Chiesa oltre le rughe”: si titola così l’ultimo libro di Mons. Luigi Bettazzi, ancora fresco di stampa. Una Chiesa comunione, una Chiesa nel mondo, una Chiesa sempre più umana, una Chiesa per tutti. Con questi tratti il vescovo emerito di Ivrea delinea il volto della Chiesa, oltre quelle rughe che ognuno scopre e sperimenta giorno per giorno. Una Chiesa che, come “primo sacramento” e come carta di identità, ha il coraggio di presentarsi ad un mondo frantumato come comunione. E, in un mondo fortemente diviso, in un’umanità frazionata e ribollente di contrapposizioni e di guerre, questa Chiesa è chiamata ad essere e a vivere la comunione, che consiste essenzialmente nella convivialità delle differenze.

La diversità all’interno della Chiesa – tra le singole persone, gruppi, parrocchie, istituzioni, famiglie,…– deve rivelarsi non come sorgente di tensioni o di lotte, bensì come occasione e stimolo alla comprensione reciproca, alla collaborazione, alla comunione pur nelle diversità. E questo non solo per motivi pratici di organizzazione e di efficienza ma per motivi teologici sostanziali: Dio, in realtà, si è rivelato come la più grande convivialità delle differenze nella profondità stessa della sua identità.

Un sogno, una chimera, una teoria ben orchestrata, un realissimo disegno e sogno di Dio? Un po’ tutto ma, se Dio lo vuole, l’impossibile può anche diventare possibile. Tutti lo percepiamo: la Chiesa sta vivendo, in questo inizio del terzo millennio, uno dei momenti più decisivi della sua missione, non solo perché la storia sta riprendendo un’altra volta il largo, ma perché si può dire che tutti, anche i lontani, anche gli indifferenti ed i nemici la stanno provocando ed interpellando in cerca di speranza e di buona compagnia, a causa degli spessi banchi di nebbia della solitudine, delle incertezze, del buio e del fatalismo, che avvolgono la condizione umana di questo tempo. In tal modo la Chiesa di questo tempo sente di dover sperimentare l’umiltà di camminare tra problemi nuovi e, per questo, deve lasciarsi interpellare in modo speciale dal contesto attorno, che non è più quello di un tempo.

 

Che cosa è successo?

Se è vero che i credenti del futuro non potranno né dovranno essere semplicemente dei “tentativi clonati” del cristianesimo del passato oppure dei fedeli, che hanno ingabbiato la loro fede nelle maglie della tecnologia o in una tecnocrazia, per quanto eccellente, ma dei credenti autentici, annunciatori e testimoni lungo le traiettorie attuali e future della storia, c’è immediatamente da chiedersi perché ci sono ancora, a tutti i livelli della vita ecclesiale, tanti nodi, che non si riescono a sciogliere.

Ad esempio, tutti concordano che la Chiesa è costituita da una reciproca mutua interdipendenza tra i diversi stati di vita e che la comunione organica tra “i membri della Chiesa è frutto dello stesso Spirito Santo” (MR 5), però non si vede in pratica come riorganizzare questa comunione organica, questa compenetrazione e questa simultaneità di rapporti. Noi, nel nostro discorso, siamo preoccupati soprattutto dei nodi, finora insolubili, della pastorale ed animazione vocazionale ma tutta la pastorale si può dire “in discussione”. Infatti, se le correnti teologiche del XX secolo hanno dato il via alla cosiddetta svolta antropologica, con maggiore attenzione al soggetto, alle sue domande esistenziali, ai contesti culturali dell’evangelizzazione, nella maturazione delle responsabilità nella società e la maturazione di prospettive ecumeniche, multireligiose e planetarie, occorre affermare che rimane un vistoso ed effettivo scollamento, con poco dialogo e collaborazione, tra questi addetti ai lavori di pensiero ed i “manovali” della pastorale, la quale cammina ancora sui binari e schemi piuttosto datati oppure lavora sulla sperimentazione selvaggia, con scarso o povero impianto di riferimento teologico.

Il Concilio ha inaugurato una nuova stagione di riscoperta della Chiesa locale e particolare all’interno del territorio ma contemporaneamente c’è stato e perdura tutto un rifiorire di movimenti ed associazioni, che si collegano in parallelo o si posizionano alle periferie della Chiesa istituzionale, dando vita sovente a “comunità alternative”. Come se non bastasse, con l’imperversare in atto della cultura globalizzante, in ogni piccolo mondo antico ecclesiale si sono rotti gli argini e tutti questi nodi si sono ulteriormente moltiplicati e complicati.

Un tempo si poteva giustamente pensare che, rafforzando in una qualsiasi realtà la rete istituzionale sia civile che ecclesiale, anche la rete delle relazioni e dei valori da vivere si poteva dire garantita. Oggi i fatti dicono sovente il contrario: più si potenzia l’organizzato istituzionale, più sembra indebolirsi la robustezza della relazione tra le persone; infatti prevale di fatto il privato, dove ciascuno ama stare chiuso nel suo appartamento e gli unici valori forti sembrano quelli reclamizzati dal consumismo con il solo criterio di valore della monetizzazione di tutto, in Euro naturalmente. Tutto questo, per l’angolare che ci interessa, complica e sfida notevolmente la pastorale ed animazione vocazionale, in particolare per quello che riguarda le vocazioni presbiterali e le vocazioni religiose e si perde quel “reciproco influsso tra i valori di universalità e quelli di particolarità nel popolo di Dio” (MR 18).

 

Alla ricerca di un senso

Sarebbe troppo comodo, di fronte a questo, cedere alla rassegnazione pastorale, continuare a coltivare lo stereotipo di riti e di prassi, chiudendosi in un guscio che, più di tanto, non difende più o mettendosi, al massimo, in aspettativa, sperando che qualcosa, in un futuro non molto lontano, finalmente cambi. Occorre dire che una certa fetta di Chiesa è orientata in questo senso. Così ci troviamo per lo più di fronte a comunità cristiane spente, integriste, addirittura “fossili viventi” o musei.

Il Giubileo, da poco passato, ci ha indicato, tra l’altro, le vie attraverso cui sia la Chiesa universale sia le Chiese locali possono essere segno di speranza. In modo peculiare, come la Chiesa particolare può essere segno di speranza nel proprio territorio. Una Chiesa locale non ridotta a realtà amministrativa ed organizzativa ma scoperta come contesto esistenziale fondamentale della vita cristiana. Una Chiesa che si riconosce umana tra gli uomini; e se agli uomini deve annunciare le novità di Dio, dovrà farlo nella condivisione con la vita di tutti. Questa condivisione della Chiesa con il mondo, allora, diventa fondamentale non solo per avere una qualche speranza di futuro ma soprattutto per la riscoperta teologica della realtà che ci sta dietro. La condivisione e l’integrazione organica infatti sono il modo di vivere della Trinità Santissima, pur salvaguardando l’identità di ogni persona e poi la condivisione è lo stile esistenziale adottato dal Figlio di Dio nella sua incarnazione.

Nei giorni in cui percorreva le nostre strade, ha camminato tra gli uomini in veste di uomo comune, è stato nelle case della Palestina con parole e gesti semplici, insieme alle cose naturali degli uomini, come star seduto sull’orlo di un pozzo, accanto ad un secchio, come bere volentieri il vino alle nozze di Cana, come giocare coi bambini sulle piazze e stare volentieri con la folla di Palestinesi assetata di felicità. Dunque, queste realtà e questi stili “fontali” devono “dare il là” ad ogni comunità cristiana, per accordare il proprio essere ed il proprio operare.

Ogni comunità cristiana deve preoccuparsi di porre la propria tenda nell’habitat umano, dove la gente conduce quotidianamente la propria esistenza. La Chiesa particolare allora diventa il luogo concreto in cui tutti i membri del popolo di Dio esistono ed esercitano la propria missione. Il luogo in cui Dio chiama ed ognuno deve rispondere. In altre parole, il luogo vocazionale per eccellenza. Le Chiese particolari sono “formate a immagine della Chiesa universale ed è in esse ed a partire da esse che esiste l’una ed unica Chiesa cattolica” (LG 23).

Incarnazione e territorio sono quindi due elementi coesistenziali ed inscindibili. Dunque, il punto di partenza, per enucleare ed evidenziare il senso delle problematiche, di cui sopra, è la vocazione e la missione della Chiesa nel mondo ed insieme il modo con cui i diversi membri vi partecipano. E tutto questo ha nel territorio il luogo in cui giocare la grande sfida tra i sogni di Dio e le provocazioni al Vangelo del mondo contemporaneo. In sintesi potremmo dire che c’è una nuova ragione pastorale , che deve stare alla base dei nostri interrogativi e di tutto il nostro discorso:

* il popolo di Dio è unico, anche se si differenzia in diverse vocazioni;

* tutti i carismi suscitati dallo Spirito sono fatti per la comunione sia nell’offerta e dono di sé sia nell’accoglienza;

* i carismi sono tutti ministeriali e si concretizzano in determinati servizi. Guai tuttavia se diventano un assoluto per servire soprattutto l’immagine di se stessi, senza tenere conto dei segni dei tempi e delle trasformazioni in atto sul territorio.

Tuttavia, cosa intendiamo per territorio? Pensiamo ad una piccola parte di mondo identificabile con una certa omogeneità di valori condivisi e difesi e tenuta insieme per una certa consistenza di legami istituzionali, che formano una specie di rete di contenimento. Territorio è quindi un luogo antropologico e culturale e, per quanto abbiamo accennato sopra sull’incarnazione, essenzialmente un luogo teologico. Il quadro culturale dei valori e delle relazioni forma l’anima del territorio.

Per cogliere tutto questo occorre che il territorio non sia guardato con l’occhio curioso del turista, che viene, visita, compra e se ne va; oppure con l’occhio insicuro, spesso impaurito dell’emigrante ed extracomunitario, che è preoccupato soprattutto di trovare uno spazio per sé ed avere qualche possibilità di beneficiare di opportunità di lavoro, di servizi e di guadagno, per “tirare a campà”, anche senza impegni di appartenenza, perché, in fin dei conti, non è la sua patria; oppure con l’occhio profittatore del residente, che è attento a cogliere ogni occasione di sfruttamento delle risorse per i propri interessi. Per cogliere il senso del territorio con l’animo giusto, occorre incarnarsi, osservando e vivendo con la passione di chi vi è nato e vi abita; perciò sa apprezzare le grandi risorse che ci sono, frammiste a limiti più o meno vistosi, e desidera lasciare l’ambiente e la cultura migliori di come li ha trovati.

È proprio su questo fondale, colto con l’occhio buono e profondo, che si possono rinforzare le fondamenta e costruire le cose nuove. E questo diventa anche una specie di liquido omeopatico, che permette di sciogliere, uno dopo l’altro, i nodi intricati che dicevamo.

 

Prospettive aperte… per partire col piede giusto

Che cosa dobbiamo cambiare? Quali orientamenti dobbiamo prendere? Da dove iniziare? Sono le domande ricorrenti in ogni riflessione, in ogni incontro e confronto. Abbiamo cercato di descrivere alcuni elementi della situazione, non solo per cogliere i nodi problematici ma anche tentando di scavare nei perché. Reagire semplicemente alla situazione sa di improvvisato e denota poca saggezza. Purtroppo, in molti casi, questa è la metodologia più usata.

Scavando nei perché, abbiamo toccato alcune questioni di senso, che possono spiegare in qualche modo la situazione; certo, esse rimandano oltre, al fondale antropologico, culturale e teologico del territorio. Solo così è possibile avviare qualche orientamento, aperto a 360°, perché stiamo ancora riflettendo sul più da capire e perciò ci stiamo indirizzando su ipotesi di lavoro in gran parte da sperimentare. Tuttavia un’urgenza c’è, e, mi sembra, un’urgenza con tutti i crismi dei segni dei tempi: sperimentare il territorio, dar vita ad un laboratorio della fede e della comunione, per alzare le vele al vento dello Spirito ed essere finalmente portati al largo, fuori delle secche, che tante volte ci incagliano nella navigazione del tempo della Chiesa. Un laboratorio fecondo di fede e di comunione, gestito dalla pedagogia della condivisione dei carismi.

Siamo un po’ tutti analfabeti – riconosciamolo con sincerità – di questa scuola e di questa educazione. Se il significato originario di parrocchia (paroikìa) è abitare accanto, peregrinare come in un paese straniero, ciò deve essere inteso che essa è il segno concreto della Chiesa che cammina di luogo in luogo. La parrocchia non è il tempio ma ha un tempio; non sono gli edifici e le attrezzature parrocchiali ma dispone di mezzi per vivere e servire nel territorio, destinata a farsi carne viva fra le strade, le piazze e le case, dove gli uomini svolgono la loro esistenza quotidiana, come compagna di viaggio e di vita. Parlare di pedagogia e di educazione significa lavorare ed intervenire con metodo, non a colpi dati a casaccio o secondo le sensazioni del momento.

La prima cosa è fare prendere coscienza a tutti gli inquilini del territorio, che sono popolo di Dio, che c’è un’unità centrale, per vivere il Vangelo e diffonderlo in questo nostro tempo, e questa è la sequela del Signore, una sequela che si sostanzializza nell’essere tutti Chiesa. È questa l’unità centrale utilizzata da più utenti, per cui tutti vi partecipano ed appartiene in eguale misura a tutti, indipendentemente dallo stato di vita di ognuno. Dopo la vocazione alla vita, questa rimane la vocazione più importante, siglata solennemente nel Battesimo e nella Confermazione, perché questa sta al centro ed è veramente significativa ed importante per la vita di ognuno. Il rapporto interpersonale parte di qui e diventa scambio reciproco per l’edificazione comune. Di conseguenza, formare alla condivisione è lo stesso che dire formare alla relazione vicendevole in senso pieno.

È qui che le due preoccupazioni più forti devono essere: l’acculturazione, cioè ritradurre il Vangelo e la vita cristiana in “lingua corrente”, perché siano compresi da tutti, vicini, saltuari, lontani; e l’inculturazione, a cui, nel nostro contesto di antico cristianesimo, diamo soprattutto il significato di conversione alla libertà di lasciarci evangelizzare tutti, ministri ordinati, consacrati e laici. Segni concreti di tutto questo saranno una vera scuola di formazione insieme sia alla teologia e sia alla antropologia della comunione ed un collaborare insieme effettivo nell’analisi della situazione del territorio, nella stesura di una mappa dei bisogni e dei veri problemi della carità e della pastorale e poi avviare e porre insieme segni di speranza nello stesso territorio.

La pastorale/animazione vocazionale – di cui finora abbiamo ancora parlato poco – ha bisogno di questo substrato e di questo terrapieno robusto, di questo humus fecondo e profondo. Le poche o tante vocazioni che ci sono e che spesso ci deludono, perché, dopo un po’ di cammino ci lasciano sia nei seminari che nelle case religiose, a ben guardare, sono come pianticelle senza radici e senza riferimenti forti. C’è un bell’accusare e denunciare che sono giovani fragili ed inaffidabili o solo euforici per qualche momento gratificante. Forse e senza forse non abbiamo denunciato con uguale intensità che il contesto da cui provengono – non solo familiare ma anche sociale ed ecclesiale – è poco significativo quando inesistente. Forze più che a servizio del Vangelo, in parallelo o in corto circuito, destinate a bruciare lo sviluppo della risposta vocazionale. Ed allora tutto si consuma nel lampo euforico di qualche stagione.

Certo, il futuro richiederà, molto di più del passato, che i candidati alla vocazione consacrata e sacerdotale siano persone di relazione a tutti i livelli ed esigerà quindi che si faccia un serio discernimento su questo e che siano formati ed abilitati profondamente in questa direzione; proprio perché la riflessione ed il cammino della Chiesa di questi anni ha fatto riscoprire che la vocazione è essenzialmente un evento relazionale tra Dio che chiama e la persona che risponde in comunione con le altre risposte e, rispondendo, si pone come un forte nodo di relazione del reticolato del vissuto umano.

Ma tutto ciò è possibile solo se il contesto di provenienza (leggi: territorio) è davvero uno spesso intrico di relazioni ritrovate e di relazioni rifondate. È la grande sfida per la Chiesa e per l’umanità del terzo millennio, a meno che interessi di piccolo cabotaggio, apatia e corsa al successo della propria istituzione non continuino a dominare le nostre scelte di priorità. Speriamo proprio di no.

 

Bibliografia di riferimento

AA.VV. (GUCCINI L. a cura di), Una comunità per domani. Prospettive della vita religiosa apostolica, Bologna, EDB, 2000.

BETTAZZI L., La Chiesa oltre le rughe, Bologna, EDB, 2001.

CENCINI A., Dalla relazione alla condivisione. Verso il futuro, Bologna, EDB, 2002. 

FALLICO A., Pedagogia pastorale questa sconosciuta, Catania, Chiesa-Mondo, 2000. 

GUARDINI R., Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, Brescia, Queriniana, 2000.

MARTINEZ DIEZ F., La nuova frontiera. Dal rischio dell’estinzione alla sfida della rifondazione della vita religiosa, Cinisello B., S. Paolo, 2002.