N.06
Novembre/Dicembre 2003

I consacrati di fronte al territorio e alle sue sfide: occasioni di annuncio vocazionale?

 

 

(il testo è stato ricavato dalla registrazione e non è stato rivisto dall’autore)

 

 

Vi parlo con molta consapevolezza della fatica a dirvi queste cose, ma anche grato del vostro invito in un Convegno che s’interroga in maniera molto intelligente, così come la Chiesa italiana di oggi, sul rapporto tra vita consacrata e territorio e, in questa dinamica, sulla presenza della pastorale vocazionale: il vostro impegno diretto, per il quale la Chiesa vi è molto riconoscente, perché siamo consapevoli che le vocazioni sono il nocciolo di tutto il discorso, anche se non è l’unica realtà che esaurisce i problemi ma è certamente il problema che dà alla Chiesa italiana un tono particolare, o di fatica o di speranza, a seconda delle situazioni.

Il mio dire è condito dall’esperienza – come già è stato detto da don Tonino (che anch’io ringrazio tantissimo, insieme a don Luca per quanto avete voluto realizzare in questi anni…) cui va la mia gratitudine per l’esempio che ci ha dato, per la sua tenacia, il suo impegno nel settore vocazionale, dal quale io ho imparato molto e molto utilizzo anche ora come vescovo a Locri-Gerace.

Arrivo da Bergamo, da un incontro sulla Pacem in terris finito ieri sera, e legherò quello che abbiamo vissuto ieri e l’altro ieri, in dimensione di Chiesa italiana che rivive, che interroga la propria realtà alla luce della Pacem in terris a 40 anni dalla sua proclamazione (11 aprile 1963), perché ha un’immediata attualizzazione nel vangelo di oggi, attraverso il discorso dei segni dei tempi. Voi sapete, fu proprio quell’enciclica a lanciare “i segni dei tempi”, che poi il Concilio riprese in maniera abbondantissima e che ancora oggi è uno dei filoni più interessanti e più vivi. Perciò “leggete” questa mia riflessione su vita consacrata e territorio, come il ponte che unisce le due realtà proprio “nei segni dei tempi”: la capacità di conoscerli, la capacità di interpretarli, la capacità di sanarli (perché non tutti sono limpidi e chiari), la capacità di trasformarli. Le tre parole che io utilizzerò in stile trinitario, saranno proprio queste:

– conoscere il territorio;

– sanare il territorio;

– trasformare il territorio.

 

Ovviamente in stile molto semplice, però in questa logica è molto più facile procedere a livello schematico, per voi che gentilmente mi ascoltate. Davanti a noi abbiamo la figura del Papa, in questi giorni così visibilmente ferito nella carne, ma proprio per questo forse così efficace. Proprio in questi giorni ho sentito un dibattito da parte di una frangia di un cattolicesimo piuttosto critico che diceva: “Ma perché non si dimette?… Perché si ritiene indispensabile?”. Questa fu l’osservazione, molto pungente, che mi fu fatta. Io dissi: “Ma il Papa parlava di più ieri con la sua efficacia, con la sua giovanilità, con il suo sciare e stare in mezzo ai giovani, o parla di più oggi al mondo?”. La domanda resta aperta perché è una domanda di fondo anche sul nostro stile. Sul territorio non siamo efficientisti ma efficaci, e credo che la Chiesa italiana debba giocare attorno a questi due aggettivi: non l’efficientismo ma l’efficacia. Il Papa oggi è un segno efficace non efficientista, non è secondo la logica del look ma è secondo la logica di una presenza densa di Gesù Cristo in Croce, quella Croce che non è la vittoria immediata del mondo ma è vittoria proprio perché nella debolezza, come dice abbondantemente Paolo.

In questo senso, c’è anche un altro volto che ci aiuta in maniera nettissima, un volto così caro a tutto il mondo oggi, ed è il volto di Madre Teresa, un volto per nulla affascinante dal punto di vista estetico, ma profondissimo e dolcissimo dal punto di vista dell’interiorità dei suoi occhi. Anche il film – forse l’avrete visto – ha reso in maniera, a mio giudizio, abbastanza buona, tutto il suo camminare, questa chiamata nella chiamata, questo procedere di fronte a una logica di Dio sempre più intensa che parla attraverso la voce del cielo e del territorio che lei ha incontrato. Perciò potremmo quasi chiudere qui: quello che voi mi chiedete, ce l’avete in Madre Teresa, rivediamo il film e abbiamo finito… Tenetelo presente però, perché è certamente oggi un’immagine bellissima di come relazionarsi tra vita consacrata e territorio.

Con quest’immagine sullo sfondo, è per me molto bello partire da una frase che nella mia vita personale mi ha aiutato a superare un momento di forte crisi interiore negli anni del liceo, quando ti chiedi se è questa la strada – io ho iniziato dal seminario minore – o se sia invece un’altra…, tante domande che abbiamo tutti e che tutti abbiamo superato, e mi fu di grande consolazione la parola di Paolo nel terzo capitolo della Lettera ai Filippesi: “Corro dietro il Cristo perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù”. Per avvicinarsi a un territorio, bisogna essere stati conquistati da Qualcuno che lo ha amato per primo. Non è possibile amare una terra se prima non sei amato tu e se non ti senti amato profondamente nel cuore. Questa esperienza di amore conquistato, di questo cuore rivestito e riempito dell’amore di Dio si fa certezza. Qui nascono tre parole – io gioco molto sulle parole ma credo sia efficace al vostro ascolto –: poiché l’amore con cui sei amato è gratuito, il tuo stile si fa di gratitudine ed evita un grande pericolo presente nel cuore nostro di consacrati, che è la gratificazione, la ricerca della gratificazione. Il gioco positivo è tra gratuità e gratitudine che, se coltivato bene, diventa efficcacissimo, perché ti senti investito di un amore gratuito, e allora tu immediatamente vivi in rapporto di gratitudine col territorio, con la gente, ed eviti la tentazione ricorrentissima, che abbiamo tutti, in varie età e in vari luoghi, anche il vescovo ce l’ha: la tentazione della gratificazione, la tentazione ricorrente, quella di strumentalizzare il territorio, di strumentalizzare la gente, di utilizzare le iniziative per farti grande. Questa tentazione si evita solo se è profondamente forte l’amore del Signore che ti ha preso, quindi: il senso di gratuità dell’amore di Dio che si fa gratitudine, di stile e di zelo, al di là del numero, al di là dell’efficientismo delle iniziative, al di là dell’apparenza delle cose che noi facciamo sapendo non cercare la gratificazione ma, come diceva S. Ignazio: “ad majorem Dei gloria”, non nostra, in una logica che ci dà la capacità di capire fino in fondo.

Ecco, questo è il primo punto: conquistati anche noi da Cristo Gesù. È chiaro allora che tu conosci il territorio, ma come fai a conoscerlo? Tutti noi siamo sempre tentati, in maniera giusta, in molti casi, di fare un’analisi sociologica, ed è giustissimo, ogni tanto bisogna fare delle indagini, però quanto può dirci realmente un’indagine sociologica? Può dirci spesso la buccia delle cose, può darci l’orientamento di fondo, ma veramente tu puoi conoscere soltanto se ami. È l’eterna domanda dei filosofi della storia: c’è prima la conoscenza o prima l’amore? Per amare bisogna conoscere o per conoscere bisogna amare? È il gioco perenne tra Platone, con il suo seguito in Agostino, i quali dicevano che prima bisogna amare: se ami molto, molto conosci. Aristotele, invece, e Tommaso dicono: “No, prima devi conoscere, più conosci, più ami”. Io non so chi abbia ragione, certo nel Sud, dove io opero (anche se sono nativo delle Dolomiti del Trentino, mi porto dentro un po’ tutte queste realtà), forse anche nella realtà di oggi, l’amore precede la conoscenza e se ami tanto la gente che Dio ti ha dato, il territorio dove sei, puoi veramente andare fino in fondo e costruisci con la gente legami, relazioni nuove. È questo il nocciolo del discorso: il territorio si conosce costruendo legami, costruendo relazioni con tanto infinito ascolto, con frutti lenti ma intensi e profondi che superano ma non annullano, ovviamente, le indagini scientifiche (ci vogliono, però non bastano). Occorre, soprattutto, un cuore che molto ama e che molto perciò conosce. Conoscendo incontreremo anche le ferite di una terra o di una zona o di un popolo. E sono una realtà fondante per poter capire un’esperienza in cui noi siamo inseriti.

Qui mi viene in aiuto la spiritualità della Congregazione a cui io appartengo, gli Stimmatini, (legata molto alle stimmate di S. Francesco, ma molto ha della spiritualità di oggi). Da questa spiritualità io ho imparato la capacita di valorizzare la figura di Tommaso Apostolo. Come ha conosciuto Gesù? Non con un libro, non con un miracolo, non con la gloria esplosiva, ma l’ha conosciuto attraverso le ferite di Gesù che sono rimaste impresse nel petto, nelle mani e nel cuore di Cristo. Attraverso questa grande parola: “Guarda.., metti.., entra la tua mano nel costato”, Tommaso ha conosciuto Gesù, ha conosciuto Gesù dalle ferite.

Il territorio… la nostra vita, ognuno di noi ha tante ferite; oggi poi la psicologia ce le mette in evidenza, ma non ce le risolve, ce le mette in evidenza ed è anche provvidenziale, però non ci insegna l’arte poi di guarirle; anzi, a volte, la psicologia dice: “Rimuovi… mettici una pietra sopra, fai finta che non sia successo niente”, ma non si riesce, sappiamo benissimo, ci riesce di giorno ma poi ci vengono gli incubi di notte, pensi di aver risolto un problema ma ti riemerge dopo anni, pensate alle molte vocazioni, problemi comunitari, etc… riemergono, le ferite riemergono perché le ferite vanno sanate. E allora ecco la seconda fase che voglio dirvi, quella che dal conoscere passa subito al sanare le ferite. E sanare è possibile solo se tu incontri le ferite nella luce del Cristo.

Vi dico una parola che mi ha aiutato tantissimo, anche nella Locride, di fronte a tante ferite di questo territorio: la frase del Papa nella Dominum et vivificantem quando dice che dobbiamo trasformare le ferite in feritoie attraverso le quali passa la grazia dello Spirito Santo, perché è in quel Vangelo (cfr. Gv 20) che Gesù dona ai suoi discepoli lo Spirito Santo, attraverso il quale è possibile perdonare i peccati del mondo. Ed è straordinario trasformare le ferite in feritoie, qui capite il ruolo immenso dei religiosi e delle religiose. Chi potrà fare questo miracolo? Ripeto, non la psicologia da sola: ci aiuta nella prima fase; non la tecnica, non certamente la certezza che io da solo risolvo i miei problemi, no! Ma chi aiuterà a capire che bisogna trasformare le ferite in feritoie è la misericordia e voi siete operatori di misericordia. Le religiose in particolare, i religiosi, a suo modo, sono grandi operatori della misericordia sul territorio, voi avete un immenso potere che è quello di capire le cose dal vivo, entrare nell’animo. Io mi ricordo che in molte realtà, se andavo in una famiglia da solo mi trovavo molto imbarazzato, se tornavo con le suore della parrocchia, i problemi li risolvevamo, perché? Perché c’è una duplicità d’incontro tra la parola del prete e la parola della suora, integrate insieme, di fronte a una situazione difficile e complessa, di fronte alla ferita evidente. Capite la domanda sulla dimensione vocazionale: certo che il territorio ti dona autenticamente una realtà vocazionale perché ti fa vedere fino in fondo e valorizzare in maniera piena quello che tu sei autenticamente, chiamato appunto a sanare il territorio dalle sue ferite facendo in modo che queste ferite non siano gettate via, non siano buttate nel cestino, nulla va buttato nel cestino e tantomeno la sofferenza, mia e degli altri, ma va valorizzata fino in fondo: la crisi di una consorella, la difficoltà di una comunità, i problemi col parroco, le situazioni di una diocesi, i drammi del territorio… tutto è grazia!

Questo è il punto fondante. Non cerchiamo una spiritualità senza il territorio, sarebbe gravissimo, ma una spiritualità dentro il territorio, non solo capace perciò di conoscerlo, ma di amarlo così intensamente da poterlo guarire insieme. Nello stesso tempo, guardate, il territorio guarisce noi. Io ho un’esperienza bellissima di un frate nativo del territorio della Locride, che è venuto da me, pieno di guai, nella sua comunità, problemi affettivi, voleva uscire dalla sua congregazione; io mi son detto: “Non so se mi combina più guai a prenderlo…”. Allora mi sono informato e ho visto che era un tipo molto valido, l’ho accolto e gli ho detto: “Ti mando in un paese difficile” (la Locride è piena di paesi difficili). Lui ci ha pensato su un mese prima di accettare la proposta, e poi ha accettato. Nel paese si è trovato a contatto con le situazioni e i problemi gravissimi della gente; lentamente il paese ha guarito il frate. Lui ha dato tantissimo aiuto alla gente, era un uomo molto intelligente e molto bravo, però ha capito che i suoi problemi, le sue difficoltà, le sue ferite erano ben poco di fronte a quelle della gente, anzi, poiché aveva capito nella sua sofferenza quanto era difficile soffrire, ecco che la sofferenza sua ha aiutato la gente e la gente ha aiutato lui, in una duplicità che io auguro a tutti noi. Questa è la soluzione ai nostri problemi: non noi da una parte e il territorio dall’altra ma integrati insieme, noi abbiamo bisogno della gente, non la gente ha bisogno di noi, siamo noi ad aver bisogno della gente perché senza di essa avremmo una spiritualità astratta e capricciosa e in certi momenti addirittura oziosa. Con la gente, ti accorgi che quello che credi e ami lo condividi e si allarga come il profumo.

Il Giovedì Santo, quando nella cattedrale antica di Gerace io inserisco nell’olio di oliva, per consacrare il Crisma, il profumo tipico della Locride, qual è il Bergamotto – voi sapete che solo lì cresce, in pochi chilometri, questa pianta di un profumo intensissimo –, si riempie tutta la cattedrale del profumo densissimo che dura mesi e mesi, tanto che quando faccio le Cresime ancora si sente, tanto è intenso. Così è il carisma della vita religiosa: è un “bergamotto”, un profumo intenso, così forte ed efficace che non può non sentirsi da tutti e nello stesso tempo il territorio ti dà la capacità di dare vigore e senso a quello che sei. Qui interviene nella mia vita l’esperienza che io ho fatto in carcere per tre anni a Crotone con alcuni miei compagni di cammino.

Di fronte al carcere c’è un grande, immenso problema che è il male. Io ricorderò sempre quando ho incontrato un uomo che mi ha raccontato, senza che chiedessi nulla, perché era in carcere. Molti carcerati parlano e si sentono tutti innocenti, ma quel giorno quell’uomo mi raccontò come aveva ucciso la moglie; lo dovetti ascoltare per dovere, ma descriveva con tanta particolarità che mi fece raccapriccio sentire tutte quelle cose. Quando gli diedi la mano, mi sembrava – perdonatemi – di rivedere ancora il sangue di quella donna nelle mie mani. Andai a casa e le lavai più volte. Ma perché – mi chiesi – devo incontrarmi in maniera così densa col male? Il carcere è un luogo in cui il male lo senti visibilmente…, e andai in profonda crisi perché non riuscivo a vedere il rapporto tra la fede e il male: un conto è se ne senti parlare, un conto è se lo vedi, se lo hai davanti, quello che c’è dietro certi volti, pensate alla mafia; allora, per diverse settimane non riuscivo a darmi una risposta, finché attraverso un libro, attraverso l’esperienza di chi, più avanti di me, ha vissuto la realtà del carcere, riscoprii il bellissimo brano di Matteo (5, 43-48) che voi conoscete benissimo, che è il brano in cui dice “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. Questa frase mi ridiede infinita speranza perché mi fece vedere con occhi diversi la realtà e la storia, in quanto capii che Dio non guarda il merito delle persone, Dio va oltre il merito, perché ai suoi occhi non siamo buoni o cattivi, ma figli e come tali amati sempre e comunque. È questo fatto di andare oltre il bene o il male compiuto da una persona, di andare oltre il merito. Noi siamo eternamente meritocratici; specialmente nell’ambito della vita religiosa, noi siamo molto selettivi: questa persona ha fatto…, questa no… Io stesso nel valutare i sacerdoti, cado spesso in questa situazione: questo è bravo, questo meno, questo ha una parrocchia in gamba, questo mi combina pasticci…

Allora, la domanda mi investì immensamente, però mi diede questa bellissima risposta: Dio non ha davanti un uomo bravo o un uomo cattivo ma ha davanti un figlio, perciò l’acqua non la dona ai bravi, e ai cattivi no, ma la dona a tutti. Quando in un paese ci fu una grande siccità, tutti andavano a pregare mentre un tale un po’ anticlericale, diceva a chi lo invitava: “No, io non ci vengo, perché se piove sul tuo campo pioverà anche sul mio”. Capite il senso della battuta… oltre il merito! Allora noi vediamo come realtà diversa la situazione, veramente con occhi di misericordia: non giudichi il territorio (“…ma che classe mi è capitata!”, oppure, i ragazzi del catechismo… Attualizzatela in mille modi e vedrete quante volte il giudizio – perdonate – “ci frega” nella nostra attività pastorale perché partiamo con degli schemi, con delle prevenzioni, e questo ci rovina l’approccio. Anzi, ecco qual è il senso profondo del Vangelo: proprio la pecorella più bisognosa è quella che va cercata ed è la grande bellissima pagina di Gv 10 o di Lc 15. La misericordia, allora, vissuta addirittura nella ricerca, per cui il risanare diventa lo stile della vita religiosa nel territorio. E il territorio, come dicevo, risana la nostra vita.

Non basta però né conoscere, né sanare, bisogna trasformare, che è quello che abbiamo detto prima con le parole del Papa: trasformare le ferite in feritoie di grazia, questo è frutto dello Spirito Santo. 

Se il primo punto era centrato sull’incontro con Gesù, il secondo sul “sanare” del Padre che dona l’acqua e il sole, qui è lo Spirito Santo, è la grande realtà di Lui che ci aiuta, proprio perché donato da Cristo nella sera di Pasqua: “Ricevete lo Spirito Santo… a chi rimetterete i peccati…”. In questa realtà ci accorgiamo che la sua presenza è capace di trasformare; allora, non ci sono più coincidenze ma ci sono provvidenze, tutti i fatti della vita sono un segno di Dio, tutti i luoghi dove sei, sono luoghi di provvidenza.

Per esempio, in questo periodo – e lo vivo anch’io come vescovo dall’altra parte – ci sono i trasferimenti… Oh quante lacrime! Quante difficoltà, quante tensioni, quanti problemi, anche nell’ambito dei sacerdoti. Io ne ho trasferito 10 su 50 della Diocesi, insomma, c’è un po’ di subbuglio. Allora come vivere questo momento? Questo momento ti dice veramente se tu credi nelle coincidenze o nelle provvidenze: “Ah ma là mi troverò? Ma come farò? E qui senza di me?” ecc., le mille domande che ci sono. Un trasferimento dice il cuore nostro, se siamo capaci di un rapporto libero e liberante con il territorio dove Dio ci ha mandato. È la verifica di quello che tu sei, non perché non devi soffrire, anzi… Se a me vengono le delegazioni delle parrocchie per dirmi: “Lasciateci il nostro parroco”, a me fa piacere, perché vuol dire che gli hanno voluto bene e vuol dire che lui ha voluto bene a loro, meno male! Guai se io trasferissi un parroco e non ci fosse nessuno che protesta, sarebbe bruttissimo segno. Dove è però il nocciolo del problema? Il nocciolo del problema non è il dolore della gente, non è il dolore del tuo cuore se sei trasferito, ma è come tu gestisci quel momento, perché tutto sta nella persona trasferita, se chi è trasferito, pur nel dolore, dice: “Io accetto questo, anzi, l’ho chiesto io”, oppure “Vi vedo un segno di Dio…”. Allora tu educhi la gente alla gratuità dei rapporti, alla libertà dei rapporti e compi un miracolo immenso e prepari, a chi viene dopo di te, la strada come Giovanni Battista. Se invece, tu ti ritieni indispensabile, se ti riempi di mille obiezioni, se ti fai infatuare dalle parole spesso amplificate dalla gente, ecco che allora tutto diventa difficile, ti complichi la vita perché il trasferimento ti impedisce di volare – un trasferimento, infatti, vuol dire volare più in alto –, complichi la vita della gente, che non educhi a passare verso l’altro, complichi la vita del povero vescovo che non sa come fare… A me è capitato: un vescovo di una Diocesi vicina, per un pelo è stato salvato dalla polizia da un linciaggio per un trasferimento.

La colpa è nostra, dipende da come vivo e parlo del trasferimento, perché quello è il momento in cui tu sai dare. Tutto quello che hai dato al territorio lo hai donato; poi arriva anche il momento in cui dici: “Vado!”, perché hai capito, o Dio o l’obbedienza ti ha aiutato a capire, che il tuo tratto è finito. L’esempio che io faccio quando trasferisco un prete o inserisco un nuovo parroco, lo faccio anche a voi: è l’esempio della corsa a staffetta, che è molto bella. La corsa a staffetta sapete come si fa? Uno fa 100 metri e 100 un altro, però gli viene dato in mano un pezzetto di legno che si chiama “testimone” (una bellissima immagine anche liturgica). Questo uomo, questo religioso o sacerdote, stringe il testimone, custodisce la fede, la restituisce ad un altro che prende in mano il testimone, farà anche lui i suoi 100 metri veloci e così via, lungo i secoli. Chi vince alla fine? Vince la squadra, non l’ultimo, tutti, l’ultimo taglia il traguardo, ma vince la squadra. Così anche noi, giochiamo a squadre, non a livello individuale. Questo non significa “se vince la squadra io mi arrangio!”, no! Il tuo tratto tu lo devi fare in maniera piena, bella, veloce, con passione, devi dare il meglio di te, laddove sei, poi un altro raccoglierà e insieme vinciamo. È qui, allora, il senso profondo del rapporto con il territorio che non è mai individuale ma è sempre comunitario.

Il rapporto con il territorio si costruisce insieme ed è tanto più forte il rapporto che ho personalmente, che ho con la gente, se è un rapporto intrecciato insieme. Il filo da solo, l’ho detto il primo giorno che sono arrivato in Diocesi, si spezza, un filo intrecciato insieme diventa robusto e non si spezza, così è la nostra comunità. Se il legame tra me e il territorio è isolato, prima o poi, si spezza, oppure si complica (pensate alla castità). Se, invece, è intrecciato insieme, diventa fecondo, solido e tenace. È questa la grande risorsa che noi abbiamo: parlare alla gente con il linguaggio della comunità in un mondo che tende all’individualismo. L’individualismo, tuttavia, pervade insidiosamente, se non stiamo attenti, anche le nostre comunità perché è una tentazione che ormai arriva anche nel cuore dei consacrati, ovunque.

 

Tre cose per concludere. Un metodo di rapporto con il territorio – io l’ho imparato dalla GIOC (Gioventù operaia cristiana), dal Card. Cartin –. Questo metodo aiuta tantissimo a capire, è fatto di tre parole:

– vedere;

– valutare;

– agire.

Nel “vedere” c’è un insieme continuo di domande, in modo tale che alla fine sono molto più lunghe di tre, ma permettono di capire la realtà, di illuminare la realtà (ecco il sanare alla luce della Parola) e di trasformare la realtà nell’agire, attraverso impegni precisi. Ieri nell’incontro a Bergamo, avevo vicino un prete anziano che ha sempre praticato la revisione di vita e mi diceva che lì migliaia di giovani contadini e muratori – quindi, persone difficili – sono diventati persone coraggiose, tenaci, profondamente consapevoli, tramite questo metodo, specialmente nelle zone più povere, più sole, più abbandonate; il metodo coscientizza e coscientizzando ti permette di incontrare Cristo laddove tu stai crescendo.

Un’altra figura che io additerei come figura che ci aiuta a capire è don Milani. Oggi lo stiamo riscoprendo sempre più perché ha saputo amare il territorio in maniera viscerale. Voi sapete che l’hanno mandato in quel paesello sperduto di 80 abitanti per punizione. Lui che ha fatto il giorno dopo? Pensate il segno: è andato in Comune e ha comprato la tomba perché ha detto : “Qui Dio mi ha mandato, qui io ci resto, fino a morire, qui voglio essere seppellito”. Pensate il legame col territorio, un prete mandato in un posto senza strada, senza luce, senza acqua. Quest’uomo non ha maledetto il trasferimento, oppure ha detto: “Appena è possibile mi vendicherò”. Ha detto: “Qui Dio mi ha mandato, anche se in modo molto strano e inedito, qui mi ha mandato, qui voglio essere sepolto”. Ha capito che l’amore al territorio deve essere talmente grande da comprendere la totalità della propria dedizione al punto tale da dire questo. Questo uomo ha trasformato l’obbedienza, che poteva essere “schiavitù”, in un’esperienza innovativa di donazione totale. Da qui si capisce la sua scuola, che faceva sotto i castagni sulle colline dell’Appennino, scuola che faceva tutti i giorni, 365 giorni l’anno, attraverso tutto il suo metodo attivo, con quello slogan che diventa oggi grande esperienza – lo dico a voi come lo dico a me –: “Fai strada ai poveri senza farti strada”. Questo è il nostro rapporto con il territorio.

Promuovi la gente che Dio ti ha dato, spingila in avanti, ma non cercare la tua strada. Abbiamo detto di gratuità, gratitudine e non gratificazione : “Fai strada ai poveri senza farti strada”. In questo senso, sempre più, va amata la politica. Amare la politica, lo dico a denti stretti, guardando un po’ lo scenario nazionale, però, al di là delle esperienze di ciascuno, delle simpatie o antipatie che noi abbiamo nel cuore, resta vero che, oggi, la politica è una dimensione importantissima per noi. Lo dico a voi perché direste: “Non è compito nostro”. Non è compito vostro la partitica, ma la politica sì! E politica vuol dire – don Milani ci dice – uscire insieme dai problemi; carriera vuol dire, invece, uscire in maniera egoistica dai problemi. Lui distingueva tra carriera e politica. La carriera è: io mi risolvo i fatti miei, esco io e lascio gli altri nella miseria; politica è: uscire insieme dai problemi.

Voi e noi siamo tutti dentro il cammino di un popolo, di un esodo, non al di là o al di fuori, ma dentro una realtà. Capite che questo è spazio vocazionale immenso e qui coinvolgi i laici, qui lavori con loro, qui dai a loro ciò che tu puoi dare e loro ti danno quello che ti possono dare, intrecciati insieme tra vita religiosa e vita laicale. Anche i voti cambiano se il territorio è presente nel tuo cuore, nella tua vocazione. Provate a pensare ad esempio qual è la misura della povertà. In un incontro che ho fatto in questi giorni con un Istituto che sta facendo una revisione mi hanno fatto questa domanda: “Qual è la misura della povertà?”. Come fai a misurare? È il permesso della superiora che decide la realtà e le scelte di povertà? Questa è la domanda perenne che noi abbiamo. Allora la risposta è – coniugando un triangolo che è di Rosmini, ma mi è piaciuto molto –: povertà = libertà. Ma povertà e libertà si fondono sulla fede.

Il triangolo è: povertà, libertà e fede. Dovunque lo prendi puoi girare attorno perché la fede determina la povertà, e la povertà ti produce la libertà.

Qual è il senso allora? La povertà si misura prima di tutto dalla tua vita di fede perché non c’è povertà che non sia visibilizzazione di quello che tu credi; se credi, sei povero, stai certo. Non ti posso dire io quello che puoi avere o non avere, è il tuo cuore di credente prima di tutto. Poi però è necessario confrontarsi. Con chi? Con il territorio. Cambiamo macchina, che macchina prendiamo? Questa è funzionale, questa è più grande, questa è più comoda, questa è più pratica… d’accordo; però la gente che dirà? Non dite: “La gente dirà quel che vuole”. Non è vero, perché le scelte sono visibilizzazione, sacramenti del tuo essere. Allora è importantissimo che tu misuri le tue scelte di povertà con la realtà in cui sei. Roma certamente non è un paesello dell’Aspromonte, però anche lì ognuno di voi sappia valutare cosa può dire attraverso il suo tenore di vita, le scelte che fa. Ovviamente, sia a livello personale, che comunitario. Ecco perché è molto importante oggi. Il voto di povertà, viene tradotto – con termine giovanile un po’ riduzionista, ma chiaro – con “sobrietà”, che è una parola bellissima. Sobrietà di vita vuol dire che tu hai un tenore di vita non quanto puoi ma quanto, guardando attorno, è giusto che tu abbia. L’uso dell’acqua, per esempio, dipende dall’attenzione che hai. Un missionario che opera in una terra molto povera di acqua, ci ha scritto: “Provate voi in Italia a vivere con 20 litri di acqua al giorno per tutte le cose: pulizia personale, far da mangiare, lavare, ecc.”. Mi ha profondamente interpellato questa domanda; anche se la Calabria è ricca di acqua, buona e abbondante, mi sono detto: quest’uomo mi ha fatto una domanda, tramite lui è Dio stesso che me la fa. Allora, io devo custodire il dono dell’acqua perché non è mio, anche se abbondante nel paese dove io sono, è un dono di tutti. Qui nasce quella bellissima esperienza a cui i giovani oggi sono sensibilissimi: la salvaguardia del creato. È una realtà meravigliosa. Il creato oggi è l’attuazione biblica del territorio. “Territorio” è un termine giustissimo ma più tecnico; “creato”, invece, è una parola biblica straordinaria, anzi, più che creato io parlerei di “giardino”, perché è la parola biblica che c’è in tutta la Bibbia: dall’inizio, dove Dio ha posto l’uomo in un giardino, al sogno nel cammino del popolo verso la terra promessa; presentato dai profeti; cantato nel Cantico; Cristo muore e viene sepolto in un giardino; la vita nuova nasce da un giardino, tanto che la Maddalena scambia quell’uomo che aveva davanti per il custode del giardino e l’Apocalisse finisce nei capitoli 21-22 con il giardino dove l’acqua è abbondante e i frutti sono segni della grazia di Dio.

Pensiamo: io e il territorio, io e il giardino che Dio mi ha affidato, o meglio, ci ha affidato. Allora tutto diventa completamente diverso.

Io vi ringrazio e che Dio vi benedica.