N.06
Novembre/Dicembre 2003

La vita consacrata di fronte alla sfida che il territorio pone alla Chiesa

Due compiti mi sono stati affidati dagli organizzatori del convegno: un saluto e la presentazione del convegno stesso. Il primo compito lo svolgo con gioia e serenamente, ringraziando dell’occasione che mi è data, come presidente della Conferenza dei Superiori maggiori, d’essere presente fra voi, di conoscervi e riconoscervi, di sostenere, evidenziandone il valore, questa iniziativa che esprime comunione nella Chiesa, in modo concreto e anche visibile.

In questo stile, ce lo siamo già detti lo scorso anno, potremo fare tanta strada per il bene nostro e dei fratelli: saremo Vangelo vivente, rappresentando spazi e luoghi d’umanità riconciliata, collaborando generosamente, e dicendo così con la nostra vita, quell’annuncio che evoca sensi per l’esistenza e quindi dispone ad intenderla, la vita, come una chiamata che esige la giusta risposta per trovare il suo pieno compimento.

Sono lieto quindi di salutarvi e di augurarvi buon lavoro, nella consapevolezza certa che il nostro convenire, che vuole portare frutto nelle opere e nei giorni, è già frutto in se stesso. Esprime una voglia di condividere, di stare insieme, di uscire dal proprio “sé” che è disposizione dell’animo assolutamente benefica.

Leggevo nei giorni scorsi una pagina di un autore di qualche decennio fa, H. Cox, che operava una distinzione fra personalità concentrica e personalità eccentrica, dove eccentrica non significa strana o stravagante, ma che ha il suo centro fuori di sé, che non trova tutto il suo senso in se stessa. Applicando questa distinzione a noi, come appartenenti a vari istituti o aggregazioni, credo si possa dire che dobbiamo augurarci di non essere “concentrici”, chiusi dentro i nostri recinti e così autoreferenziali da preoccuparci solo delle nostre problematiche (magari di sopravvivenza), ma piuttosto “eccentrici”, nel senso di desiderosi di ricevere e dare, trovare senso nell’incontro, nello scambio, nella collaborazione e nella sinergia.

Noi sappiamo che, nell’evangelizzazione e nella pastorale, il campo è comune, e comune deve essere l’atteggiamento di fondo: scommettere sulla comunione come dono ed obiettivo fondamentale; riconoscere di non essere degli assoluti, ma parte di un tutto, accogliersi vicendevolmente per una mutua compresenza, complementarietà e corresponsabilità[1].

Credo che ci sia futuro quasi soltanto per istituti e aggregazioni con personalità eccentrica, cioè aperte all’incontro e alla condivisione: se la vostra presenza rappresenta questa caratteristica o questo impegno degli istituti, delle realtà o aggregazioni ecclesiali a cui appartenete, dico che state dandovi realmente una possibilità di futuro.

Il secondo compito che mi è stato assegnato è già un po’ più impegnativo e lo affronto con un po’ più d’imbarazzo. Mi è chiesto di presentare il Convegno e questo posso farlo solo guardando con voi le linee di fondo che esso esprime, attraverso la sua articolazione programmatica e gli obbiettivi che esso di è dato.

Prima però mi pare importante segnalare una rilevante sintonia di percorso, nella realtà di Chiesa italiana, che riguarda un po’ tutti e che trova naturalmente la sua ispirazione fondamentale nel programma decennale proposto dai nostri Pastori in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Infatti è evidente in questo Forum l’attenzione prioritaria al tema del territorio e alla comprensione delle sue peculiarità nella situazione attuale, prima ancora che alle sfide che ne vengono per la pastorale vocazionale. Mi piace sottolineare che su questa problematica si misurerà fra poco più di un mese l’Assemblea Generale della CISM che ai primi di novembre, nel suo appuntamento annuale, tratterà il tema: Chiesa locale, vita consacrata e territorio e, a seguire, il Convegno per i nostri formatori e formatrici che si svolgerà a Collevalenza, tratterà lo stesso tema sotto il titolo: Nel solco del territorio… per il mondo.

Non è che ci stiamo rincorrendo o… copiando: è che siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda, e questo mi sembra molto importante. Del resto questa è la lunghezza d’onda sulla quale sono posti i Vescovi. Nel recente intervento di prolusione del Consiglio Permanente, in vista della prossima Assemblea Generale dei Vescovi ad Assisi, il Cardinale Ruini, parlando del futuro della parrocchia nella situazione attuale, ha detto: Il significato della parrocchia ruota intorno al rapporto tra vita cristiana e territorio e proprio da qui nascono i più frequenti interrogativi circa il suo futuro e la sua vitalità, perché sembra diminuire nell’attuale trasformazione della società – con l’accentuarsi della mobilità, dell’anonimato e dei rapporti prevalentemente funzionali – l’importanza del territorio per la vita reale della gente. (…) Sarebbe fuorviante – continua il Cardinale – una diagnosi che ritenesse il territorio ormai privo d’importanza per le esperienze, le scelte, i comportamenti, i rapporti sociali di coloro che vi abitano[2].

È davvero importante notare che stiamo tutti lavorando e riflettendo in sintonia: non si può proprio dire per noi che fu scritto una volta e cioè che in quel tempo in Israele ognuno andava per la sua strada. In questo senso una stagione feconda di “comunione” la stiamo già vivendo ed essa non mancherà di portare il suo frutto. Il cammino comune di riflessione e lo scambio e l’arricchimento reciproco degli apporti che vengono dalle varie esperienze è la premessa importante e la base necessaria per riscoprire e condividere le potenzialità vocazionali dei carismi e ministeri presenti nella comunità cristiana, per contribuire al diffondersi della cultura vocazionale nel territorio[3].

Si tratta dunque di convertirsi al territorio, vedendo in esso la vera ed unica opera per fare il bene con tante attività apostoliche e carismatiche. Convertirsi al territorio[4] significa entrare in pieno nella logica dell’incarnazione: è una necessità insita nell’annuncio nell’impegno dell’evangelizzazione: La Chiesa per essere in grado di offrire a tutti il mistero di salvezza e la vita che Dio ha portato all’uomo, deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso movimento con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali visse[5].

Il rapporto della Chiesa con il territorio, esigito dalla dinamica stessa dell’incarnazione, ha da sempre profondamente influenzato i linguaggi dell’annuncio cristiano elaborati in dialogo con le culture territoriali e nello stesso tempo ha plasmato e modificato i rapporti sociali e relazionali. È la Chiesa che si fa storia, che ha parole umane per comunicare e per raccontarsi, pur sapendo che le parole non esauriscono mai la comunicazione della Parola, e che stare sul territorio non fa dimenticare, anzi annuncia, che siamo in cammino verso il Regno[6].

La comprensione della complessità del territorio consente di cogliere ed accogliere gli aspetti peculiari che caratterizzano e travagliano il modo di essere, di relazionarsi, di agire degli uomini e delle donne di un ambiente, e di conseguenza, di aprire un dialogo costruttivo e profondo sulle domande di senso.

Oggi il territorio non è solo né prima di tutto – lo sappiamo – uno fatto geografico, ma culturale, religioso e sociale: è la gente concreta, con tutti i suoi valori, problemi ed attese. Oggi è oggettivamente più difficile conoscerlo e comprenderne la fisionomia culturale, l’identità spirituale, i bisogni che esprime: vi sono tratti che rendono ogni luogo uguale all’altro e contemporaneamente ogni luogo è plurale, presenta una realtà con molti volti, è palcoscenico dove ogni attore (o gruppo di attori) recita la sua parte senza curarsi del vicino. Entrare in relazione con un territorio significa allora avere primariamente consapevolezza che la società contemporanea è, ad un tempo, omogenea, uguale a se stessa al punto da poter parlare di villaggio globale, e simultaneamente caratterizzata da dimensioni che fra loro risultano spesso giustapposte, frammentata in gruppi talvolta anche spazialmente disgiunti, aggregato di minoranze portatrici di interessi divergenti.

È quanto mai necessario acquisire una conoscenza capace di descrivere la realtà, ma anche in grado di spiegare i meccanismi che la determinano, di focalizzare la natura dei fenomeni che la caratterizzano, di scoprire le patologie che la tormentano. Giovanni Paolo II, nella Pastores dabo vobis afferma che è importante la conoscenza della situazione, tuttavia segnala che non basta una semplice rilevazione dei dati; occorre un’indagine scientifica con la quale delineare un quadro preciso e concreto delle reali circostanze socio-culturali ed ecclesiali. Ancor più importante è l’interpretazione della situazione, nel discernimento evangelico[7]. È in questa realtà che la vita consacrata oggi è chiamata a proporre la propria testimonianza, dando continuità ed innovando una tradizione secolare di presenza fatta non solo di opere e di attività pastorali, ma di testimonianza di santità, di amore evangelico, di compassione e di condivisione del dolore. Sono questi i fili invisibili ma resistenti che hanno saldamente ancorato le comunità al territorio.

Convertirsi al territorio significa superare le logiche elitarie fatte di autosufficienza spirituale ed organizzativa, di illusione di superiorità o di specialità, di pretesa di una specie di immunità dalle umili fatiche della collaborazione e del confronto. Convertirsi al territorio, per i consacrati, significa prendere coscienza delle potenzialità e dei limiti del territorio in cui si è inseriti, sentirsi radicati profondamente in esso, coinvolti nelle sue vicende, pronti a collaborare con le strutture che offre. Tale sensibilità rende il lavoro degli animatori vocazionali più lucido, più consapevole della necessità di radicarsi nel territorio mantenendo la propria identità e specificità carismatica.

Il rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale dell’Educazione per il Ventunesimo Secolo (Nell’Educazione un tesoro), indica come sfida prioritaria per l’educazione del terzo millennio la tensione fra globale e locale e riconosce in essa una questione interna al tema dell’identità tesa fra l’appartenenza alla propria comunità e il sentirsi cittadini del mondo. Nella società odierna complessa e frantumata, alla propensione di tracciare i perimetri della propria umanità dentro lo spazio ridotto delle personali sensibilità e all’emergere di spinte disgreganti, si contrappone la tendenza sociale, economica e culturale della globalizzazione con il valore ed i limiti che essa comporta.

In un contesto così contraddittorio mi pare compito formativo far maturare atteggiamenti di pieno inserimento nel locale e di piena apertura al globale (pensare globalmente ed agire localmente – secondo una formula nota). Mentre segnare i confini è operazione necessaria per costruire un’identità genuina, fatta di memoria e di appartenenza, rinchiudersi dentro i propri confini significa rendere sterile la propria identità. Per affrontare questa sfida è necessario formarsi al pensare contestuale, al pensare insieme, al lavorare insieme. L’ottica di rete è la nuova epistemologia di ogni serio ed efficace prendersi cura dell’altro, anche nel compito di far maturare la sua consapevolezza vocazionale: la rete è una concretezza di fili – il territorio, la sua specificità, le sue caratteristiche –, importanti tutti, ma inutili ed insensati se non in connessione con gli altri.

Mi pare che questo possa essere un modo attuale di intendere per gli animatori vocazionali la parola del Signore che chiede di gettare la rete: ognuno è solo un filo, solo insieme siamo la rete: un filo, o un insieme di fili non raccoglie proprio nulla, se non è rete… Formarci a questa capacità di camminare con gli altri, di programmare insieme, sia a livello di istituti e di comunità ecclesiale che di uomini di buona volontà, è il compito aperto dei nostri giorni. Vivendo dentro la Chiesa locale aperti alla Chiesa universale, dentro la Chiesa locale e aperti al territorio, dentro il territorio e aperti alla casa-mondo possiamo sperimentare ognuno in pienezza ciò che siamo e ciò che portiamo, avendolo ricevuto in dono, cioè la pienezza del nostro carisma.

Nelle Idee-guida di questo Forum è stato scritto che ciò di cui oggi si avverte il bisogno è di costruire luoghi di appartenenza. Si tratta di modelli di vita che siano veri luoghi di appartenenza per come funzionano, sia per il clima di fraternità, sia per lo stile dei rapporti, ricostruiti da gente in nome della comunione. Ecco la carta di identità della Chiesa particolare: un solerte laboratorio di costruzione di luoghi di appartenenza in nome della comunione di Dio[8].

Vi auguro e mi auguro che il Forum sia questo: sia un’esperienza di appartenenza, sia un solerte laboratorio che costruisce comunione, sia, già in se stesso, un luogo e un segno concreto di quelli che andiamo cercando, per una pastorale vocazionale sempre più attenta all’oggi degli uomini e del nostro tempo e sempre più comunionale.

 

 

 

Note

[1] Vedi Idee-guida per il Forum, p. 1.

[2] Cfr. Prolusione al Consiglio Permanente CEI del 22/9/03, pubblicata in “Avvenire” del 23/09/ 03, p. 6.

[3] Vedi Idee-guida per il Forum: obiettivo p. 1.

[4] Prendo qualche spunto dallo Strumento di Lavoro predisposto dalla CISM per il Convegno dell’Area Formazione del prossimo novembre a Collevalenza.

[5] VATICANO II, AG 10; cfr. GS 22.

[6] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, nn. 34-43. 

[7] GIOVANNI PAOLO II, Pastore dabo vobis, n. 10. 

[8] Idee-guida per il Forum, p. 3.

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