N.06
Novembre/Dicembre 2003

Parrocchia e vita consacrata: quale sinergia per una cultura vocazionale nel territorio?

Con questa mia riflessione conclusiva tenterò di portare sul nostro cammino l’attuale dibattito che si vive nella Chiesa italiana circa la parrocchia e più in genere la pastorale territoriale della Chiesa e di portare in un secondo momento il nostro cammino di Istituti, di comunità e di singoli consacrati nel cammino della Chiesa. Il sentire cum Ecclesia fa da sfondo alla mia relazione conclusiva. Inizierò servendomi della sintesi fatta dalla segreteria generale della CEI con i contributi pervenuti dagli Uffici CEI in vista della prossima Assemblea di Assisi (a cura di Don Sigismondi), avente per titolo “Come continuare a scommettere sulla parrocchia?”. Si tratta di una riflessione che sviluppa un’affermazione contenuta negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila: Ci sembra molto fecondo recuperare la centralità della parrocchia e rileggere la sua funzione storica concreta a partire dall’Eucaristia, fonte e manifestazione del raduno dei figli di Dio e vero antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 47).

 

La parrocchia come grembo materno che genera alla vita cristiana

L’attuale dibattito pastorale sul significato e le potenzialità della parrocchia registra una larga convergenza nel riconoscere che è grazie a tale istituzione che “la Chiesa particolare cresce nel suo volto di madre”. Quale “porzione umana e carismatica della Chiesa”, di cui è “la più completa e complessa espressione”, la parrocchia costituisce “il volto più vicino e accessibile della Chiesa particolare, la forma nella quale si realizza l’incontro con la Chiesa”. Configurandosi come “comunità di base che pone come unica esigenza per l’aggregazione la professione della fede e il Battesimo”, la parrocchia “è un’unità di luogo e non di simpatia, è una comunità di credenti raccolta sull’essenziale”, vale a dire “è una comunità di battezzati che esprimono e affermano la loro identità soprattutto attraverso la celebrazione del Sacrificio eucaristico” (Ecclesia de Eucharistia, 32). Se la Chiesa particolare è, in certo senso, un “frammento eucaristico” della Chiesa universale, la parrocchia è, per certi versi, il “fermento eucaristico” della Chiesa particolare; mentre la Catholica “si rende presente, si fa evento” in ogni singola Chiesa particolare, quest’ultima si articola in molteplici comunità eucaristiche, nelle quali i presbiteri “rendono presente” il vescovo e, in tal modo, “rendono visibile” la Chiesa universale (cfr. Lumen Gentium, 28).

La parrocchia, intesa come “comunità eucaristica di fedeli” è, dunque, la “comunità allo stato puro”, “come dono e non come elezione”. “Non sono, infatti, le affinità elettive, ideologiche, culturali, né le connessioni socialmente umane a mettere i battezzati in grado di entrare in comunione col mistero del Signore risorto, ma è il Risorto che li raduna in una comunione ecclesiale e li sollecita a superare il nativo egoismo fino a costruire veramente una famiglia”. Ciò che fa della parrocchia non un “raggruppamento di battezzati piuttosto autoreferenziale”, bensì una “famiglia di famiglie”, è la celebrazione del Dies Domini, che “segna indelebilmente il DNA della parrocchia, oltre che del cristiano”. Se la celebrazione domenicale – e non soltanto la celebrazione eucaristica! –, rappresenta, per così dire, il “tessuto connettivo” della parrocchia, è senz’altro lecito richiamare una celebre espressione dei cristiani di Abitene – Sine Dominico non possumus vivere –, parafrasandola in questi termini: “Senza la Domenica la parrocchia non può vivere”.

La parrocchia, quale luogo privilegiato in cui “l’essere popolo precede il valore di una comunità di elezione” e “l’aspetto istituzionale precede il valore delle dimensioni psicologiche” è, quindi, l’ambiente vitale in cui la Chiesa particolare manifesta la propria caratteristica di “Chiesa di popolo”, di “vicinanza alle case della gente” (cfr. Christifideles laici, 26). È sulla base di questo asserto che trova conferma l’opinione, largamente condivisa, che porta a ritenere che la crisi che investe la parrocchia non sia una crisi di fondazione, ma di identità. Si tratta di una crisi che riduce l’appartenenza ecclesiale alla stessa stregua di un rapporto elettivo o adottivo, relegando il “carisma territoriale” della parrocchia a mera questione di geografia o di cifre. Tale “carisma”, quantunque non esaurisca il “carattere popolare” della Chiesa, ne rivela il “dinamismo ministeriale”, che fa di essa non una “chiesuola”, ma una comunità missionaria, convocata dal Signore alla scuola della Parola e alla mensa dell’Eucaristia e chiamata a sostenere la causa dell’evangelizzazione.

Quale “struttura fondamentale dell’evangelizzazione”, la parrocchia va pensata, costituita, organizzata e messa in azione come “comunità cristiana missionaria”, pena il rischio di essere ridotta ad una “stazione di servizi religiosi”, se non addirittura ad una “azienda di culto”. Le cause che possono favorire questo processo involutivo della parrocchia vanno ricercate, fondamentalmente, in quello che don Primo Mazzolari, intorno alla fine degli anni ’30 del secolo scorso, chiama il “difetto d’incarnazione” che, a suo avviso, indebolisce la parrocchia nella sua indole propria e caratteristica di “vicinanza alla vita quotidiana della gente”, rendendo vano il moltiplicarsi delle iniziative e degli stessi mezzi pastorali, ritenuti, peraltro, come “surrogati di un’insufficienza spirituale”. Le conseguenze negative del “difetto d’incarnazione” che investe la parrocchia sono rese ancor più pesanti dal cosiddetto “difetto di ecclesiologia” che, da un lato, non favorisce “la reciproca collaborazione e integrazione fra le varie realtà ecclesiali presenti sul territorio”, e, dall’altro, non promuove la crescita di un “laicato audace, intelligente e sintonizzato sulle frequenze del sentire cum Ecclesia”, “un laicato capace di declinare le Beatitudini nel quotidiano”. È su questo terreno che l’Azione Cattolica, che “sa” di avere in parrocchia la propria “casa”, cioè “il luogo in cui esprimere giorno per giorno una dedizione evangelica fedele e generosa”, è interpellata a mettere a segno “l’esemplarità formativa del suo genio associativo”, aiutando il laicato cristiano sia a vivere il proprio “sacerdozio battesimale” nella modalità concreta della mediazione tra Chiesa e mondo, sia a superare l’ottica della collaborazione, per mettersi in quella della corresponsabilità, promovendo, come “principio attivo”, la “spiritualità della comunione” e valorizzando, come “principio educativo”, gli organismi di partecipazione, quali “strumenti di discernimento e non di semplice coordinamento”.

 

Il territorio come luogo teologico della parrocchia

Essendo radicata nell’Eucaristia, fondata sull’essenziale e incarnata in un territorio, “la parrocchia è la casa di tutti”, il luogo in cui nessuno è “straniero” o, al limite, “ospite”, lo spazio al cui interno ciascuno vive la propria identità battesimale di “concittadino dei santi e di familiare di Dio”. Se il radicamento nell’Eucaristia definisce la natura della parrocchia e la fondazione sull’essenziale ne garantisce il “carattere popolare”, l’incarnazione in un territorio contribuisce, più che a circoscriverne i confini, a definirne lo spazio missionario, inteso non come un luogo da “presidiare”, ma come una sorta di “ostensorio” della sollecitudine materna della Chiesa, la quale “non ha dei confini da difendere o dei territori da occupare, ma una maternità da estendere”. La parrocchia, in effetti, quantunque non sia un’istituzione di diritto divino, è “la struttura capillare di comunione e di missione della Chiesa particolare”, a cui è collegata non per ragioni giuridiche ma teologiche. Benché sia radicata in un territorio, che “continua ad essere l’ambito di socializzazione meno selettivo”, la parrocchia non è una semplice porzione geografica della Chiesa particolare, semmai è il suo “farsi locale”, il suo abitare, nello spirito della “logica dell’incarnazione”, le pieghe ordinarie della vita quotidiana. Lo stesso Codice di Diritto Canonico, presentando la parrocchia come “una determinata comunità di fedeli costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa particolare” (CIC, 515§1), pone l’accento non sulla sua articolazione territoriale, bensì sulla sua struttura comunitaria, lasciando chiaramente intendere che “il territorio non va inteso nella sua dimensione geografica, ma antropologica”. Trattandosi di una “comunità di fedeli territorialmente individuata nella Chiesa particolare”, “la qualità territoriale del suo essere fra la gente fa della parrocchia una stazione missionaria”; il territorio è, pertanto, “il primo e più prossimo spazio missionario” e non, semplicemente, il luogo di insediamento di una comunità di fedeli.

Che il territorio non qualifichi lo status della parrocchia, ma contribuisca a definirne il precipuo carattere di statio, è una delle affermazioni più insistenti che animano l’attuale dibattito pastorale. La territorialità più che un “sostantivo” è concepita come un “appellativo”, o meglio, come una sorta di “aggettivo sostantivato”; più che un “ministero” è vista come un “carisma” o, più esattamente, come un “carisma in stato di servizio”; più che una “trincea pastorale” viene intesa come la “prima linea” della “frontiera missionaria” della Chiesa. Movendo da queste considerazioni prende sempre più consistenza l’idea secondo la quale non è “il territorio che deve appartenere alla parrocchia, ma il contrario, nel duplice senso di farne parte e di prenderne le parti”. Anzitutto ne fa parte; ovviamente non alla maniera di un frammento sia pure significativo, ma alla stessa stregua di quello che è l’anima per il corpo che, altrimenti, sarebbe un cadavere. Oltre a far parte del territorio la parrocchia ha il compito di prenderne le parti, non certo per controllarlo o, al limite, per occuparlo, ma per inserire in esso il fermento del Vangelo. Farne parte e, soprattutto, prenderne le parti vuol dire, fondamentalmente, prendere parte alla vita dell’intero territorio su cui la parrocchia insiste, applicando tanto la “legge dell’incarnazione”, quanto la “logica della capillarità”, che consentono non solo di ricevere e di tradurre gli insegnamenti della Chiesa universale e gli orientamenti della Chiesa particolare, ma anche di trasmettere e di comunicare quello che lo Spirito dice alla Chiesa nella sua espressione locale. In sostanza, la sfida che il territorio lancia alla parrocchia domanda ad essa l’audacia di trovare un nuovo modello di presenza: un modello che chiede alla parrocchia non di confondersi con esso e, tanto meno, di porsi di fronte ad esso, ma di stabilire una “relazione di prossimità”, ossia un rapporto di integrazione e di collaborazione, reso saldo dall’evangelica fierezza della profezia e dall’apostolica mitezza della perseveranza.

 

L’evangelizzazione come frontiera della parrocchia e la cultura vocazionale

“Nella Chiesa particolare la parrocchia è luogo ordinario e privilegiato di evangelizzazione della comunità cristiana”; essa si configura come “campobase dell’evangelizzazione”, una “frontiera” tutta da esplorare! Sebbene la parrocchia sia nata “per far fronte al problema dell’evangelizzazione delle campagne”, tuttavia “non ha alle spalle una storia di evangelizzazione”; pur avendo mantenuto sempre viva “l’istanza centrale di comunicare la fede”, essa, di fatto, ha posto al centro la cura animarum. Quantunque non si possa “distinguere accuratamente tra evangelizzazione e cura delle anime”, l’evangelizzazione è, senza dubbio, la scelta missionaria che la parrocchia è sollecitata a compiere, non solo per superare i confini territoriali che la circoscrivono, ma anche per porre fine a quella sorta di “esilio pastorale” in cui rischia di rimanere confinata da certe forme di religiosità che sconfinano nel folklore. Di qui l’urgenza per la parrocchia di “non anteporre nulla alla centralità dell’anno liturgico” che, con la sua pedagogia, spinge ad assumere il “modello catecumenale come paradigma dell’azione pastorale”. Chiamata a prendere coscienza del fatto che “l’iniziazione cristiana non è tanto un settore della pastorale, quanto il suo modello ispiratore e il suo paradigma esemplare”, la parrocchia ha l’obbligo di concentrarsi sull’essenziale, sia favorendo “un rinnovato ascolto della parola di Dio”, “fondamento perenne e cuore pulsante della fede”, sia aprendosi “alle diverse situazioni spirituali dei non-credenti, degli indifferenti, di quanti si accostano o si riaccostano al Vangelo, di coloro che cercano alimento per il loro impegno cristiano” (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 59).

“Ciò che di fatto la parrocchia è dipende, in verità, da come inizia alla fede” e “iniziare alla fede” vuol dire, essenzialmente, “introdurre, trasmettere, educare”. A riguardo dell’iniziazione cristiana, che rappresenta la “prima linea pastorale” che la parrocchia ha la responsabilità di raggiungere, da più parti si tende a riconoscere che è “in parrocchia che il catecumenato trova la sua attuazione ordinaria”, a condizione che essa sappia far capire che “chiedere il Battesimo è domandare la Chiesa e non alla Chiesa”. A margine di questa sottolineatura sono in molti a ritenere che la parrocchia non possa limitarsi ad “iniziare ai sacramenti”, ma debba impegnarsi a concepire l’itinerario catecumenale in termini mistagogici, vale a dire come un’esperienza di fede in cui si è “iniziati dai sacramenti”. È fuori dubbio che si esce dall’alternativa, “iniziati ai sacramenti” o “iniziati dai sacramenti”, “prospettando il compito dell’iniziazione come atto di trasmissione della Chiesa”. Del resto, “la Chiesa è il frutto di questa convergenza: l’azione dello Spirito, la libera decisione delle persone, la trasmissione della buona notizia”; “solo nella comunicazione del Vangelo da persona a persona la fede accade!”.

Quanto questo sia vero, e cioè che “solo nel rapporto interpersonale la fede accade”, spiega come mai la parrocchia sia interpellata direttamente a raccogliere con simpatia e, al contempo, a lanciare con energia la sfida della “nuova evangelizzazione”. A questo proposito si registra una sostanziale consonanza nel ritenere che sia il dialogo con i genitori che chiedono il Battesimo per i loro figli, sia il rapporto con le famiglie degli anziani e dei malati, come pure il confronto con i migrantes che domandano di diventare cristiani, possano essere “un banco di prova per l’evangelizzazione in parrocchia”. Quello dei genitori che chiedono il Battesimo dei figli è, senz’altro, uno spazio pastorale che apre orizzonti nuovi al percorso di evangelizzazione che la parrocchia è invitata a seguire, coprendo la distanza che la separa da coloro che si sono allontanati dalla via della fede. Quello degli anziani e dei malati è, altresì, un ambito pastorale che consente di accostare i loro familiari e, specialmente, quanti vivono ai margini o, addirittura, fuori dalla comunità ecclesiale. Persino il confronto con i migrantes assicura alla parrocchia inedite possibilità di evangelizzazione, qualora essi chiedano di diventare cristiani. Tale richiesta, destinata a crescere sempre di più, offre alla parrocchia l’opportunità di accompagnare e di sostenere il percorso di chiunque domandi alla Chiesa di “rendere ragione” della speranza e della fede in Cristo; una fede che esige di essere testimoniata sul versante della fides qua, più che su quello della fides quae.

È ovvio che l’evangelizzazione “non può essere semplicemente kerygmatica, ma deve assumere connotati culturali”; essa, infatti, “non è un qualsiasi uscire fuori, ma è un saper captare lo spirito del tempo, per entrarci in dialogo e provocarlo con la forza del Vangelo”. Pertanto, l’evangelizzazione comporta non certo l’abilità di “immergere il temporale nello spirituale”, bensì l’audacia di “inserire lo spirituale nel temporale”. Tale opera di inserzione o di fermentazione, finalizzata a dare “veridicità temporale alla parola eterna del Vangelo”, si propone di ricercare “il punto di contatto e di tangenza tra il messaggio cristiano e l’uomo che lo recepisce”. Si tratta di una ricerca che non rappresenta una “deriva virtuale” o, al limite, una “prospettiva ideale”, ma una “sfida reale”; una sfida che contribuisce non poco a configurare l’azione pastorale della parrocchia secondo il “modello catecumenale” che, per così dire, orienta la sollecitudine missionaria della Chiesa verso i quattro “punti cardinali” dell’evangelizzazione.

Scendere da Gerusalemme a Gaza (cfr. At 8,26-40): è la strada dei “lontani”, percorsa da Filippo il quale, “con dolcezza e rispetto”, introduce un Etiope – intento a leggere il profeta Isaia – alla scoperta della “verità tutta intera”.

Scendere da Cana a Cafarnao (cfr. Gv 4,46-54): è l’itinerario dei “cristiani della soglia”, compiuto dal funzionario regio il quale, recatosi da Gesù per chiedergli di scendere a guarire suo figlio, non esita né ad affidarsi alla parola del Signore, né a fare appello all’intelligenza della fede.

Scendere da Gerusalemme a Emmaus (cfr. Lc 24,13-35): è il percorso compiuto dai discepoli di Emmaus – figura di quei cristiani il cui cuore “non arde nel petto” –, ai quali “Gesù in persona” si accosta, spezzando loro il “Pane della parola” e, poi, il “Pane della vita”.

Scendere da Gerusalemme a Gerico (cfr. Lc 10,25-37): è il sentiero seguito dal buon Samaritano, autentico prototipo di quanti affidano alla testimonianza della “fantasia della carità” non solo il “noviziato” del loro cammino di fede, ma anche la “mistagogia” della loro esperienza di fede.

In questo contesto mi chiedo con voi quali siano i contenuti che determinano l’imprescindibile volto vocazionale delle nuova evangelizzazione e quale evangelizzazione promuove realmente quella cultura che può essere definita “vocazionale”. La risposta l’abbiamo avuta qualche anno fa dal Papa quando il Santo Padre consacrò il Messaggio per la GMPV del 1993 proprio al tema della cultura vocazionale. In quel messaggio – che suggerisco di andare a rileggere integralmente con le vostre comunità come abbiamo fatto recentemente in una giornata di studio all’Auxilium – non era difficile cogliere l’articolazione di alcuni elementi che si potevano così sintetizzare.

 

Elementi per una cultura vocazionale

Ci sono alcuni elementi che definiscono una cultura autenticamente vocazionale: la formazione delle coscienze, la sensibilità ai valori spirituali e morali, la promozione e la difesa degli ideali della fratellanza umana, della sacralità della vita, della solidarietà sociale e dell’ordine civile. Questi elementi – sottolinea il Santo Padre – permettono all’uomo di ritrovare se stesso; permettono all’uomo di diventare se stesso; permettono alla cultura di diventare più umana. Si tratta di una cultura che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, riappropriandosi dei valori superiori d’amore, d’amicizia, di preghiera e di contemplazione. Questo mondo, travagliato da trasformazioni spesso laceranti, ha più che mai bisogno della testimonianza di uomini e donne di buona volontà e specialmente di vite consacrate ai più alti e sacri valori spirituali, affinché al nostro tempo non manchi la luce delle più sublimi conquiste dello spirito.

 

Comunicazione e cultura

La costruzione di questa cultura non è per pochi intimi. Reclama lo stile missionario che guarda ogni uomo come destinatario del vangelo della vocazione. Ed il Papa mette il dito sulla piaga di un linguaggio che probabilmente non riesce ad intercettare i bisogni profondi delle nuove generazioni e farsi capace di smantellare le gravi ambiguità e gli inganni di una cultura fuorviante. Così, come abbiamo visto, il Papa: …la Chiesa dovrà parlare un linguaggio semplice e vicino alla sensibilità dei giovani, facendo intelligente uso di tutti i moderni mezzi di comunicazione sociale, perché il suo parlare sia ancora più incisivo e maggiormente compreso. Soprattutto sarà necessario che la pastorale giovanile sia esplicitamente vocazionale, e miri a risvegliare nei giovani la coscienza della “chiamata” divina, affinché sperimentino e gustino la bellezza della donazione, in un progetto stabile di vita. Ogni cristiano, poi, darà veramente prova di collaborare alla promozione di una cultura per le vocazioni, se saprà impegnare la propria mente e il proprio cuore nel discernere ciò che è bene per l’uomo: se saprà, cioè, discernere con spirito critico le ambiguità del progresso, gli pseudovalori, le insidie delle cose artificiose che talune civiltà fanno brillare ai nostri occhi, le tentazioni dei materialismi o delle ideologie passeggere.

 

Corresponsabilità e sinergia educativa

Ogni buona idea ed ogni miglior programma non riuscirà a prendere concretezza e vigore senza l’apporto insostituibile delle responsabilità personali. In particolare in questo contesto il Papa fa appello innanzitutto ai vescovi per la particolare responsabilità di animazione che essi svolgono all’interno del popolo di Dio: Chiedo a voi, Vescovi della Chiesa di Dio, di rinvigorire il tessuto sociale della comunità cristiana per mezzo dell’evangelizzazione della famiglia; di aiutare i laici a innervare i valori della coerenza, della giustizia e della carità cristiana nel mondo giovanile. E poi egli si rivolge a tutti coloro che sono chiamati, a diverso titolo, a definire e ad approfondire la cultura vocazionale: ai teologi, perché tale cultura abbia anzitutto un solido fondamento teologico; agli operatori nei mass-media, perché sappiano entrare in dialogo con i giovani; agli educatori, perché sappiano rispondere alle loro aspirazioni e sensibilità; ai direttori spirituali, perché ognuno possa essere aiutato a riconoscere quella voce che lo chiama per nome. Infine a voi che già siete consacrati al Signore e, in maniera particolare, a voi presbiteri: avendo già udito e riconosciuto l’appello del Buon Pastore, prestate la vostra voce a Colui che ancora oggi chiama molti a seguirlo!

 

La sinergia dei carismi e dei ministeri per la costruzione di una parrocchia aperta e missionaria

E si giunge al 4° punto della nostra riflessione nel quale vogliamo ulteriormente approfondire e concretizzare questa sinergia di cui parla il Papa. Riprendendo il filo del discorso che ci viene proposto dagli Uffici della CEI si potrà senz’altro concordare con il fatto che “la parrocchia è un’istituzione più che un’organizzazione”, è una comunità chiamata ad essere viva e non semplicemente vivace; in effetti, le parrocchie organizzate corrono il rischio della “lottizzazione pastorale” o, peggio ancora, del “semipelagianesimo”, cioè di quell’attivismo pastorale fatto di “iniziative prive d’iniziativa”. “Pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale” (Novo Millennio Ineunte, 38). Di conseguenza, occorre “creare delle parrocchie vive, ove le persone si aggreghino intorno alla Parola e all’Eucaristia”, che costituiscono degli autentici “luoghi di educazione missionaria”, il cui carattere essenziale e vincolante “è intrinseco alla stessa struttura interiore della personalità cristiana e alla natura misterica della comunità ecclesiale”. Inoltre, occorre “creare delle parrocchie aperte, ove si coniughi fede e vita”: comunità parrocchiali che sappiano affidare “la propria azione missionaria alla maturità di fede dei laici”, sui quali “incombe” la grave responsabilità di aprire il mondo al Vangelo, “favorendo e affrontando il dialogo con chi non crede”. Occorre, altresì, “convertire la parrocchia da aggregazione di praticanti a comunità di credenti”, da semplice “somma” di associazioni e movimenti – realtà suscitate dallo Spirito e poste “come un’avanguardia in ambiti spesso ai confini della parrocchia” – a comunità “olistica”, “che vive la comunione ecclesiale e sperimenta la corresponsabilità pastorale”.

L’opera di edificazione della Chiesa, a cui la parrocchia partecipa con il “carattere della popolarità” e il “genio della prossimità”, domanda ad essa di pianificare una “pastorale integrata”, senza la quale è impossibile fare della Chiesa “la casa e la scuola della comunione”. Concepita e vissuta come “comunità di popolo”, la parrocchia non può non essere una realtà “aperta ai poveri, in tutte le accezioni della parola”, vale a dire “una parrocchia che scommette sulla forza testimoniale del suo essere comunità di credenti, più che sull’efficienza della propria organizzazione interna”. Pertanto, “la pastorale della carità deve diventare un antidoto contro la grave carenza che la parrocchia vive sul piano relazionale” impedendole, fra l’altro, di aprire un serio processo “di collaborazione e di integrazione” con le parrocchie che insistono sullo stesso territorio. È all’interno di questa “capacità relazionale”, che fa della parrocchia “non un luogo di arrivo, ma un luogo di transito permanente”, che si inserisce l’auspicato passaggio dall’asse “parroco-parrocchia” all’asse “comunità presbiterale-unità pastorale”! Si tratta di un obiettivo che, comunque, si colloca nel quadro più ampio del cammino di “conversione missionaria della pastorale” che, per così dire, apre alla parrocchia “la strada dell’esodo pastorale”, che comporta tutta una serie di passaggi.

Passare dalla pastorale diretta a “presidiare” il territorio a quella finalizzata a “presiedere” comunità adulte nella fede, “affidate alla Parola”, pronte a coltivare gli spazi della comunione, valorizzando gli organismi di partecipazione che, “com’è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare” (Novo Millennio Ineunte, 45).

Passare dallo “spirito elitario”, che tende a ridurre la parrocchia entro i margini di una “chiesuola”, allo “spirito popolare”, che riconosce nella parrocchia una struttura pastorale concretamente presente sul territorio, concepito come “insieme di ambienti di vita e di lavoro”. 

Passare dalla “rete pastorale” delle parrocchie di un determinato territorio alla “pastorale a rete” delle unità pastorali, intese non come una sorta di “contenitore”, bensì come “soggetto progettuale” riferito ad un’area territoriale omogenea, in cui operano più parrocchie, raccolte in modo organico in forme di corresponsabilità partecipativa.

Passare da una visione di parrocchia concepita come “somma” di molteplici realtà ecclesiali ad una prospettiva “olistica”, capace di fare di essa non il luogo dell’assembramento o, al limite, dell’assemblaggio delle comunità religiose, delle associazioni o dei movimenti laicali che possono essere presenti sul suo territorio, ma “la casa e la scuola della comunione”.

Passare dall’affanno o, addirittura, dall’asma pastorale delle riunioni ad oltranza all’ansia apostolica di comunità radunate dal Signore attorno all’Altare, “luogo dove permanentemente la Chiesa si esprime nella sua forma più essenziale” (Communionis notio, 5).

Passare dalla pastorale del “campanile”, diretta alle masse, a quella del “campanello”, attenta al “lievito” e rispettosa della “legge della gradualità”, che domanda l’audacia di unire la pazienza dell’attesa all’intelligenza dei “segni dei tempi”.

Passare dalla vivacità della pietà popolare, “vero tesoro del popolo di Dio”, alla vitalità della “nuova evangelizzazione”, configurata “secondo il modello dell’iniziazione cristiana”, che provoca l’intera comunità ecclesiale a riscoprire “la grammatica di base del primo annuncio”.

 

Vita consacrata e cultura vocazionale del territorio

A partire da questo sentire con la Chiesa e avendo accolto con gioia come un appello la necessità di immaginare una nuova presenza di tutti nel cammino comune tentiamo – a partire anche dalle riflessioni emerse in questi giorni – di vedere come la vita consacrata è chiamata a far suo questo appello e a collocarsi sempre più decisamente e amorevolmente in quel popolo che l’ha generata, che le è madre e che la chiama ad una stagione di nuovo e vigoroso impegno in vista di una nuova evangelizzazione. Potremmo chiederci: Sì, ma come?

Mi si consenta di accogliere subito una preziosa sollecitazione di Mons. Bregantini che ci chiedeva di far precedere il conoscere e l’operare da una rinnovata stagione dell’amore. San Giovanni della Croce ci ricorda che alla sera della vita saremo giudicati sull’amore. Ma quale amore? Quello di Gesù. Mi sembra la prima risposta che il Forum ci consegna. L’amore per le nostre comunità ha in Gesù la sorgente e in Gesù il pedagogo.

D’altra parte mi sembra di poter subito dire che sono comparsi ripetutamente ed armonicamente tre soggetti interagenti e destinati a sostenersi reciprocamente: ci siamo in questo cammino come singoli consacrati, come comunità, come istituti. Non l’uno a prescindere dall’altro né, tanto meno, l’uno contro l’altro. Ognuno di essi porta un arricchimento: la tua passione; la vostra testimonianza; il servizio dei vostri istituti alle comunità e alle singole. Non ha mai ragione l’uno o torto l’altro in questa spinta propulsiva che lo Spirito genera nei cuori dei nostri istituti trasferendo in essi l’amore di Cristo per la sua Chiesa. Insieme, confrontandoci, dialogando ma perseguendo questa direzione di rotta risponderemo alle attese della Chiesa. Ripartire da Cristo ai nn. 16 e 17 apre questi orizzonti in vista di una nuova stagione di impegno proprio per quanto riguarda l’animazione vocazionale.

E allora sì, ma come?

 

Ripartendo da Cristo anche nel “come”

Esserci

Conoscere, sanare, trasformare ci suggeriva Mons. Bregantini che andremo a rileggere con gioia nel mese prossimo quando avremo tra le mani queste relazioni.

Cercare

Con l’amore e lo stile di Cristo.

Starci

Con l’atteggiamento di chi sa che non può vivere senza la carne anche se la carne appesantisce e ha desideri diversi da quelli che vorremmo noi: il territorio e la comunità cristiana del territorio sono la nostra carne.

Fissare ed amare

Come fa Gesù con il giovane ricco, con Zaccheo, con Nicodemo, con l’adultera, con la cananea, l’emorroissa, Pietro ed anche con Giuda…

Raccontare, testimoniare, farsi vedere

Ma in maniera libera e liberante secondo le prospettive dei pellegrini: non padroni della fede della nostra gente ma servi della loro gioia; nella gratuità e gratitudine e non costruendo pericolose rincorse alla gratificazione…

 

Convertendoci alla persona e ad uno stile di servizio

Parte viva di un popolo dal quale siamo partiti e al quale veniamo donati (ricordiamoci che è tempo di fare il biglietto di ritorno verso quella casa che ci appartiene e che ora ci chiama a prenderci cura di tante ferite che la secolarizzazione ha marcato a profondità inimmaginabili). Quando si fa il bene bisogna farlo bene: dal servizio alla persona occorre far scaturire le ragioni della nostra vita di comunità e la nostra formazione permanente. Se via della Chiesa è l’uomo possiamo immaginare che non lo sia per noi. Non bisogna aver paura di sporcarsi ci ha detto Bregantini.

Immersi nel territorio siamo chiamati a viverne i ritmi e le realtà socioculturali portando tuttavia quella passione per il regno che ci fa essere sempre oltre, profezia – come amava dire la lettera a Diogneto – e così diventare sale, luce, città… È insomma tempo di ricollocarci con i ritmi, i tempi, gli orari, gli spazi delle nostre famiglie, dei nostri giovani, delle nostre parrocchie senza considerarle delle variabili ininfluenti rispetto alla vita delle nostre comunità. Costruendo quindi la nostra comunità non a prescindere dal territorio ma sempre immaginandola nel territorio sapendo comunque conciliare attività e vita comune perché non c’è attività utile se non sgorga ed è frutto di una profonda comunione nel Signore e nella comunità. Come si raggiunge questo equilibrio tra esigenze del territorio e vita di comunità? Come fanno le nostre migliori famiglie: facendo sì che l’amore per la nostra terra non appartenga a qualcuna ma a ciascuna e a tutte: forse l’aureola comunitaria di cui si è parlato potrebbe essere proprio questa.

 

Convertendoci ad un sentire con la Chiesa

Un sentire con la Chiesa che non si improvvisa e non nasce all’improvviso quando ci accorgiamo che da soli non riusciamo a raggiungere i nostri obiettivi. La prospettiva di servizio non si traduce propriamente in un servirsi della Chiesa ma farsi servi dell’uomo con e nella Chiesa. Un sentire con la Chiesa che si costruisce pian piano e fa riferimento alla nostra esperienza e alla nostra pazienza: la nostra capacità feconda e generativa all’interno del popolo di Dio non può essere diversa da quella che avviene ogni giorno nelle nostre comunità: esperti nell’arte dell’attesa, della tenacia e della pazienza la riversiamo come ricchezza nei percorsi delle nostre comunità che troppo spesso si dimenticano la parabola del seme che cresce malgrado noi…

Un sentire con la Chiesa che si misura coraggiosamente accettando le sfide del nostro tempo, un tempo tanto diverso da quello in cui è maturata la nostra vocazione ma che non vede Dio amare di meno l’uomo del nostro tempo rispetto a quello del passato. Un sentire con la Chiesa che ci fa esperti di comunione tra i nostri fratelli, coinvolgendo sempre tutti ed utilizzando questo come criterio principale di impegno. Nell’arte della costruzione della comunità noi siamo esperti e capaci di offrire coordinate preziose e sperimentate alle nostre famiglie nella fatica che fanno per divenire famiglia di famiglie, ai nostri giovani per trasformare in vera esperienza di Chiesa i loro cammini di gruppo, nel portare ad unità la varietà dei gruppi che si formano anche spontaneamente nelle nostre comunità, nel saper stare vicino ai nostri sacerdoti perché il dono che essi portano – noi lo sappiamo bene – è infinitamente più grande di come qualche volta ce lo portano.

Un sentire con la Chiesa che aggiunge un criterio importante alla riconversione anche delle nostre strutture nate dai vari carismi: scuole, ospedali, oratori… prestando volentieri una attenzione maggiore alla vita del territorio.

 

Conclusione

Mi si consenta di concludere riprendendo la riflessione sulla parrocchia fatta dagli uffici della CEI. Mi sembra bella, profetica e ci dona un grande respiro.

Concludendo. Quello della “nuova evangelizzazione” è, senza dubbio, “l’esodo pastorale” più impegnativo che la struttura tradizionale della parrocchia è chiamata a compiere e a metabolizzare. Del resto, la crisi profonda di cui soffre la parrocchia può essere superata solo nella misura in cui essa rimane fedele alla propria identità missionaria di “cellula staminale” dell’evangelizzazione. La soluzione di tale crisi non sta, dunque, in una semplice riforma organizzativa, bensì in una “nuova interpretazione dei valori, della funzione e della strutturazione della parrocchia”, che costituisce una sorta di “ordito” in cui “la grazia tesse la prima trama gerarchica e opera la prima infusione di vita”. In sostanza, “non si tratta di ammodernare la parrocchia, ma di rinnovarla in termini pastorali, cioè missionari”; non si tratta nemmeno di delineare una nuova tipologia di parrocchia, ma di fare di essa una realtà nuova, estraendo dal tesoro della sua tradizione nova et vetera, alla stessa stregua dello scriba di evangelica memoria il quale, divenuto “discepolo del Regno”, “è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). È ovvio che non si tratta neppure di mettere “vino nuovo in otri vecchi”, magari dopo un accurato risciacquo, ma di versare “vino nuovo in otri nuovi” (cfr. Lc 5,37-39), altrimenti l’effetto sarebbe dannoso e per il vino e per gli otri! Se il processo di rinnovamento della parrocchia non può essere concepito come un’opera di “risciacquo”, esso non si può ridurre neanche ad un lavoro di “rammendo” o, al limite, di “cucitura”, semmai può essere assimilato all’arte della “tessitura”, che comporta l’abilità di inserire la trama della novità nell’ordito della struttura tradizionale della parrocchia.

In definitiva, “la parrocchia merita la fatica del diventare nuova”, purché si abbia il coraggio di un suo rinnovamento anche strutturale, “che deve convergere nell’unità della pastorale prima ancora che sulle unità pastorali”. “Si ha l’impressione, infatti, che la parrocchia abbia cercato, in questi ultimi decenni, più ad affermarsi che ad aprirsi, a farsi efficiente più che incidente, nell’illusione che il permanere di un suo ruolo sociale, più che religioso, potesse garantirle validità permanente”. Occorre, quindi, prendere le distanze non tanto “da chi ritiene che la parrocchia sia in dissoluzione”, quanto “da chi la difende come irriformabile”. A questo riguardo può essere utile rileggere alcuni passaggi, tra i più significativi, del discorso che il card. Carlo Maria Martini ha rivolto ai parroci dell’Arcidiocesi di Milano il 20 febbraio 1994: “A me pare che la parrocchia si possa oggi paragonare al povero Giona nel mare in tempesta. Come Giona, la parrocchia ha ricevuto una missione da Dio e, come lui, è tentata di aver paura di fronte all’enormità della sua missione. Cerca però di sfuggirvi rifiutandosi di riflettere sulla situazione attuale, evitando di conoscerla nella sua gravità. La parrocchia fugge come Giona di fronte a Ninive, non guarda a se stessa con realismo, nella sua povertà e nella sua pochezza, con quel coraggio, invece, che ha Davide nei riguardi di Golia; Davide guarda Golia, guarda se stesso, vede la differenza, la valuta e quindi si decide. Davide di coraggio ne ha anche per noi”.

Il cammino di “conversione pastorale” che “con fiducia, creatività e coraggio apostolico” la parrocchia è sollecitata a promuovere, conosce inedite opportunità, ma anche non poche difficoltà: si tratta di difficoltà legate alla complessità del momento presente, che vede la Chiesa impegnata a “prendere il largo” nel “mare aperto” del terzo millennio; si tratta di difficoltà che, per certi versi, sono molto simili a quelle incontrate da Israele lungo la “strada dell’esodo”.

La mormorazione, suscitata dalla nostalgia o dai complessi del passato, ossia dalla difficoltà a mettere mano all’aratro della “nuova evangelizzazione” senza cedere il passo alla tentazione di volgersi indietro o, peggio ancora, di tornare indietro.

La nausea, provocata dall’ingratitudine, vale a dire dalla diffidenza ad accogliere con gioia, quale “frutto dello Spirito”, la straordinaria ricchezza della “fioritura” carismatica e ministeriale della grazia battesimale.

La sete, causata dall’arsura, ossia dalla ritrosia a concentrarsi sull’essenziale, mediante “un rinnovato ascolto della parola di Dio”, “nella sua verità e nella sua totalità, senza mutilazioni, senza distorsioni, senza aggiunte stridenti”.

La chiusura, alimentata dal miraggio dell’idolatria, vale a dire dall’incapacità della parrocchia di superare il campo visivo offerto dal proprio campanile, ignorando non solo la sua appartenenza alla Chiesa particolare, ma anche la sua apertura alla Chiesa universale.

La paura, accresciuta dalla stanchezza, ossia dalla resistenza a raccogliere con convinzione la sfida delle unità pastorali, che vanno intese come “luoghi di comunione ecclesiale e di corresponsabilità pastorale”, alla stessa stregua delle antiche Pievi medievali.

“Come continuare a scommettere sulla parrocchia?”: questo non è un qualsiasi interrogativo, ma è un appello a non ridurre il processo di rinnovamento della parrocchia ad una “tecnica di rianimazione” o, peggio ancora, ad una “opera di restaurazione”; molto semplicemente questo è un invito a scorgere non certo nell’esperienza dell’Esilio, bensì nell’avventura dell’Esodo l’immagine biblica più adatta a tracciare il cammino che attende la parrocchia, la quale si configura come “scuola della santità”, come “scuola primaria di ecclesiologia”, come “scuola della preghiera”, come “crogiolo e cantiere dell’azione missionaria della Chiesa”, come “luogo ordinario e privilegiato di evangelizzazione”, come “laboratorio” aperto ai giovani e, in particolare, alle famiglie. La famiglia – “piccola Chiesa domestica”, oltre che “cellula fondamentale del tessuto sociale” – è il “perno” e il “fulcro”, se non addirittura “l’embrionale centro di ascolto” della parrocchia; essa, infatti, non è una sorta di Chiesa “in miniatura”, semmai è una “miniatura” della Chiesa, che rende prezioso quel singolare “codice” che la contiene e la custodisce: la parrocchia!