N.06
Novembre/Dicembre 2003

Per una rinnovata presenza dei consacrati nella Chiesa locale al servizio di ogni vocazione

Un saluto a ognuno di voi con animo e cuore fraterno e con timore perché penso sia un atto di presunzione l’aver accettato di offrirvi il mio pensare su tema come quello di oggi piuttosto complesso. Sono convinta che dire la vita religiosa oggi[1] esiga competenze diverse da quelle che io posso riconoscermi. Comunque ho accettato e cercherò di fare quello che mi è possibile. Io ho bisogno anzitutto di impostare la questione.

Personalmente non so fare nessuno sviluppo del tema senza precisare la questione, senza la ratio, senza il motivo, il perché. Comprendere la vita religiosa nell’orizzonte e nella logica dell’incarnazione e della Chiesa è fondamentale, costitutivo del suo essere e del suo esprimersi. La vita religiosa che si nega alla incarnazione e si tiene lontana dal sentire la Chiesa non solo non può servire le altre vocazioni, ma perde il suo senso. La vita religiosa che si sottrae alla dinamica dell’incarnazione perde il suo destino. Il sottrarsi al sentire ecclesiale depotenzia la profezia e rende la vita consacrata ripiegata, curva su di sé[2]. Ho creduto di fermare la mia attenzione sui due termini chiave: l’Incarnazione e la Chiesa. Li assumerò come due prospettive. In realtà sono due universi molto ampi, difficile esplorarli in modo esaustivo nel tempo di una riflessione.

1) Dapprima fermerò il mio dire a tutto ciò che in questi anni ci ha portati e ci porta a mettere in evidenza il nuovo della dimensione culturale[3] dentro gli scenari vocazionali di inizio del terzo Millennio.

2) Poi sosterò sui nodi dell’Incarnazione e del sentire cum ecclesia perché mi sembra che si possano desumere da qui alcune delle indicazioni principali per una presenza rinnovata dei consacrati.

Cercherò di non indugiare su discorsi astratti o puramente teorici. Il tempo si è fatto breve per la vita consacrata. Da più parti e da tempo si va dicendo che siamo di fronte a un modello di vita religiosa giunto a esaurimento. Non solo la vita religiosa, ma un modello di pastorale e di Chiesa. Anzi un modello di società sembra non reggere più.

 

Il cambiamento e le sue provocazioni

Come capire e dare un nome ai cambiamenti culturali e sociali tanto vasto e radicali da sfuggire alla nostra capacità di osservazione e di interpretazione? Come proporre le colonne portanti della costruzione socio-culturale nella quale noi religiosi viviamo e comunichiamo il Signore Gesù?

Noi non sappiamo se siamo in mezzo al guado, con la prospettiva di un approdo a situazioni più stabili, o se il cambiamento è ormai strutturale, cioè permanente, e anzi continuerà con un’accelerazione progressiva[4].

Addentrarsi in un’analisi interpretativa del mutamento presente è particolarmente difficile. Di fronte ad esso, il patrimonio sapienziale della vita religiosa sembra essersi bloccato su un modello di società che sta scomparendo. Il blocco culturale nel quale la vita dei religiosi sembra fissata[5] porta i religiosi di fronte al tempo a cedere all’atteggiamento di chi si lascia vivere, non solleciti a operare discernimento. Incapace di dialogia, di simpatia con gli uomini e le donne del proprio tempo, diffidente, innalza steccati per difendersi dagli impulsi della nuova cultura[6].

Ma se si vuole stare dentro la storia, con significato, non si può vivere in regime di separatezza o di sospetto culturale. Nel travaglio e nella tensione della storia, i religiosi non possono vivere arroccati nella difesa contro tutto ciò che potrebbe essere strumento di chiamata a conversione da parte di Dio[7]. Va piuttosto coltivato l’ascolto attento con quanto il mondo contemporaneo ha da dire ai religiosi per accogliere nel tempo la visita di Dio che invita a rinascere partendo dalle sorgenti profonde.

 

Identità “pachwork” e complementarietà

La velocità, l’ampiezza e la natura dei mutamenti sociali e culturali rendono sempre più estranea, rispetto al passato, l’opzione della vita religiosa. C’è stato addirittura il passaggio dall’esperienza all’esperimento rispetto alle scelte di vita, con un dilettantismo che crea l’uomo di un momento, l’uomo instabile. Si parla di identità patchwork (la parola inglese indica una coperta a riquadri di differenti tessuti, cuciti insieme), vale a dire un’identità che non si ispira a valori alti, a modelli forti, essa è il risultato di piccole frammentarie esperienze, sostituibili, relative, dunque un’identità debole, fragile, incerta[8]. C’è un depauperamento del valore della fedeltà, del per sempre che rende ardua la scelta della vita religiosa. La sfida è quella di passare da una continua mobilità e superficialità all’esperienza della complementarietà: non è necessario sperimentare tutte le situazioni o le scelte: ogni vita radicata nella propria vocazione ha piuttosto bisogno di riconoscersi in complementarietà, in sinergia con le altre.

 

Perdita della “leadership” culturale e corresponsabilità

Una delle ragioni della lacerazione tra il mondo che cambia e la vita religiosa è legata alla perdita da parte dei religiosi della leadership culturale conseguente fenomeno della secolarizzazione. Per un certo tempo si è ritenuto questo (il secolarismo), il fattore chiave per spiegare la crisi vocazionale[9]. Oggi questa categoria interpretativa è accantonata perché insufficiente a spiegare tanti altri aspetti della realtà contemporanea[10]. Il documento della CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia segnala interessanti elementi della nostra cultura che sono problematici rispetto alla fede e dunque con funzione da freno alla vita religiosa:

la scissione interiore tra razionalità e dimensione affettivo – emotiva e vita spirituale; l’analfabetismo religioso delle nuove generazioni; l’eclissi del senso morale; la scarsa trasmissione della memoria storica; forme di indifferenza diffusa per le domande radicali, senso del provvisorio[11].

Questi elementi rendono la vita religiosa difficile da comprendere dal di fuori e onerosa da seguire dal di dentro. Essa è esposta a un senso di solitudine e soltanto una personalità solida vi può far fronte. Nella cultura attuale in cui la precarietà è il milieu che si respira nelle relazioni, nelle progettazioni, si soffre un senso diffuso di instabilità e di oscillazione in tutte le cose. La sindrome del pendolo dice la debolezza della capacità di orientamento; segnala cedimenti nella possibilità di trovare direzione. Si diventa talora attenti ai mezzi, si rincorrono gli apparati strumentali e si perdono di vista i fini e i valori. Questa situazione apre alla sfida della corresponsabilità: siamo chiamati ad essere membra di un unico corpo, sostenendoci a vicenda nel vivere la personale vocazione: il bene offerto da ciascuno arricchisce l’intera comunità.

 

“Leggerezza” rispetto alla realtà e incarnazione

Si vive l’istante senza preoccupazione del passato e del futuro. Il rischio evidente che si corre è quello di vivere nel frammento, senza direzione e senza senso, cogliendo l’attimo fuggente, dentro un disorientante relativismo etico, dentro un vero e proprio crepuscolo del dovere. E così si tende a giocare con l’esistenza anziché giocarsi nell’esistenza. Tutto è considerato all’insegna della leggerezza, non intesa qui come superficialità del costume, ma come inconsistenza della realtà[12].

Questa dimensione dell’essere, debole e contingente lo apre al bisogno dell’assoluto Essere, diventa spazio per la fede, in quanto affidamento a Dio, e insieme sfida alla fede in quanto questa riferisce a un atteggiamento permanente dello spirito in ricerca di un orientamento della vita stabile e non fluttuante. Altrimenti, all’opposto, si dà luogo alla condizione dell’uomo ricco, che vive nell’eccesso di occasioni, di combinazioni e di opportunità quasi infinite. Difficile progettare la propria vita assumendo scelte definitive: la scelta implica la rinuncia a troppe opportunità. Si protrae l’esistenza su un atteggiamento consumistico di chi propriamente non fa scelte perché non vuole fare rinunce.

L’incarnazione, invece, proprio perché richiede una scelta precisa, riconoscendo la consistenza della realtà in cui si è chiamati a vivere, apre alla libertà dell’amore secondo una vocazione personale. Essa obbliga a ripensare la forma testimoniale della fede; sollecita a rivedere alcuni modi di intendere la testimonianza. Questa non nasce da noi, né da una parola su chi siamo noi, ma da Gesù Cristo, dunque da una Parola che dice Lui. Occorre recuperare fiducia nella Parola che è di Dio: Gesù Verbo di Dio.

 

La presenza dei consacrati

L’incarnazione illumina l’antropos. Nella luce dell’antropologia cristiana, l’uomo non è alla misura dell’homunculus per dirla con Abraham Heschel[13] e Victor Frankl[14]. Non è ridotto al nothing but, “nient’altro che” o a un puro spazio di maturazione di processi, si pensi allo strutturalismo. La vita dell’uomo si intreccia in profondità con l’evento Cristo, con tutto ciò che esso implica, la promessa del Regno, la mediazione della Chiesa, da intendersi non in termini dogmatici, ma come percorso di vita, come dinamica per un cammino di fede, per una sapienza orientatrice, per stabilire una profonda relazione con Cristo nella totale conformità a lui dell’esistenza. Mi piace ricordare un principio di H. Rondet che vede nella relazione la possibilità di crescita spirituale indiscutibile:

Si cresce soltanto in una relazione: in risposta ad un appello, accordando la propria fede ad una Parola. Colui che non ha relazioni vere non crescerà; e, parlando di relazioni, io penso tanto alle relazioni interpersonali quanto all’inserimento in gruppi o in comunità costituite. È stato detto che le età della fede coincidono con le età della relazione. Ciascuno di noi riproduce nella sua relazione con Dio le caratteristiche della sua relazione con gli altri: possessività o oblatività, aggressività o fiducia[15].

Anche per i religiosi riscoprire la serietà della propria relazione con Cristo significa ricreare, costruire la propria identità. Vi è nella costruzione della identità uno dei problemi educativi più forti. Diventa importante progettare la formazione all’identità; ma dire questo significa ritornare alla verità di sé e dunque richiede educazione alla contemplazione. C’è bisogno urgente di silenzio e di interiorità per respirare verità dal mistero che la realtà si porta dentro. Nel silenzio dell’interiorità, la voce dello Spirito diventa il riferimento normativo della propria esistenza.

 

Spazio per la profezia

La vita religiosa che abbiamo alle spalle si è qualificata soprattutto per i servizi e le opere che ha saputo realizzare. Ma la crisi del nostro tempo ha aggredito proprio il grande strumento apostolico che sono le opere. Esse non reggono più e i religiosi sono in difficoltà a ritrovare gli spazi loro propri, quelli che difficilmente sono raggiungibili dalla pastorale ordinaria e sono soprattutto gli spazi della missione e della profezia[16]. Il campo della missione dei religiosi non è solo geografico tutti gli uomini, missione tutt’altro che compiuta, ma anche tutto l’uomo, l’uomo in tutte le sue dimensioni. Essa è trasversale alla pastorale ordinaria, territoriale senza però essere geograficamente delimitata. C’è un’interessante espressione di Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi citata in Vita Consecrata. Recita così:

I religiosi incarnano la Chiesa desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle Beatitudini: Li si trova spesso agli avamposti della missione. Il loro apostolato è spesso contrassegnato da un’originalità, da una genialità che costringono all’ammirazione[17].

 

La funzione simbolica

Per i religiosi, scrive G. Pegoraro, essere segno e produrre segni è talmente importante da riconoscere in ciò la possibilità di recupero della propria identità[18]. La funzione di segno è quella di significare, ma il significato, varia con il variare della cultura che l’ha generata. Oggi un problema forte della vita
religiosa è proprio questo passare dal segno al simbolo. È il problema del significato: il problema, di fatto, dei segni che non mediano più. Non dicono più ciò per cui sono stati detti. Non si sa più come ridare loro significato. Nella cultura dei giovani, il segno della separatezza, della diversità viene compresa come
stranezza e tutto questo rafforza gli stereotipi negativi della vita religiosa. L’essere segno, invece, richiama ad una identità unica: diversa sì, ma complementare: pur con scelte di vita differenti, abbiamo quindi bisogno gli uni degli altri. Nel vivere il “proprium” della personale vocazione, ci sosteniamo a vicenda. E funzione simbolica devono assumerla anche le attività apostoliche. Non possono restare intrappolate all’interno di una visione di tipo funzionale. L’apprezzamento delle opere e l’utilità per la società non deve far perdere ai religiosi l’altra dimensione più vitale, quella della scelta di vita, quella che meglio manifesta la loro origine imprevedibile e carismatica, la loro profezia, la loro gratuità.

Il filone della gratuità è uno dei più fecondi nell’attuale ricerca di rinnovamento della vita religiosa. La vita religiosa è al di là d’ogni considerazione utilitaristica. È vita messa in gioco per Cristo e il Vangelo, perché altri abbiano vita e speranza. I religiosi non possono essere puramente utili e le loro opere non possono trasformarsi in semplici servizi, ma devono mantenere alta la loro funzione di segni che interrogano, che inquietano, che rimandano a qualcosa di più importante.

 

Praticare il discernimento

Si impone il discernimento in ordine alle opere, alle logiche del sistema con cui vengono sostenute per evitare che i religiosi usino come mezzo per il loro servizio quello che Gesù scartò come tentazione: avere, potere, immagine o visibilità. Abilitarsi al discernimento diventa d’obbligo perché le opere hanno un potere ipnotico terribile. Per non essere asserviti a idolatrie fuorvianti e praticare discernimento serve la Parola. Occorre recuperare fiducia nella forza della Parola. E non è vero che si è stanchi di parole. O meglio, di quelle vuota certamente sì. Non di Parola di Dio. Essa ha una capacità di discernimento che altre parole non hanno. È Parola lucida e sincera. Le parole degli uomini vedono ciò che vogliono, e non sempre hanno il coraggio della verità. Non si possono discernere i segni di Dio né nella propria vita, né nella storia, senza la luce della sua Parola.

La Parola che è di Dio conosce l’uomo. Le sue aspirazioni, le sue esperienze: è come uno specchio su cui si può guardare e riconoscersi. Ed è lo specchio di Dio; è l’unica che sia in grado di parlarci di Dio. Per questo è sempre “nuova”, il suo orizzonte mai esaurito. Parola che affascina perché capace di fare intravedere non solo il pensiero di Dio ma pure la sua bellezza. Se vogliamo rifare il tessuto lacerato delle nostre comunità indebolite e confuse nella fede occorre partire dalla Parola. Senza un ascolto serio, attento, impegnato della Parola le nostre comunità religiose e le nostre comunità parrocchiali non riusciranno ad essere vocatrici, convocatrici, non riusciranno a proporre una sequela radicale, fiduciosa, profetica. Il discernimento è imprescindibile dalla profezia. Accompagna la profezia. Il profeta si forma attraverso il discepolato della Parola, il silenzio attento per ascoltare la voce di Dio, e si forma attraverso i contesti storici dove la Parola intende produrre cose nuove.

 

Il nodo dell’Incarnazione

Il profeta è tale se esercita discernimento dentro i contesti storici e con le comunità ecclesiali. Se la vita religiosa non sa fare questo, non sa esprimere la profezia allora è meglio che scompaia. Per secoli la vita religiosa è stata interpretata come separazione, fuga mundi, rinuncia al mondo, con il rischio di vanificare l’incarnazione nel suo senso teologico più alto. Ora l’incarnazione è fondamento della fede cristiana, della sua necessaria presenza nella storia e nelle vicende umane. Anche la sequela Christi deve indicare un orizzonte profetico, un orizzonte tanto più urgente quanto più invernale si è fatta la situazione vocazionale. La teologia dell’Incarnazione, e sembra la più adeguata perché fa della storia e del tempo i luoghi teologici irrinunciabili al punto che la stessa fede cristiana non ha senso se non è strettamente solidale con la storia e la cultura. In questa prospettiva il processo di individuazione e quindi il tendere al compimento della propria identità deve valorizzare molto di più l’esperienza della fede piuttosto che la dottrina della fede[19].

Per questo sono necessari tanto coraggio e audacia evangelica, come pure tanta capacità di spogliarsi delle ricchezze non essenziali alla sequela Christi. Ci vuole il fuoco interiore per superare la crisi, per dare futuro alle poche vocazioni che arrivano e fronteggiare l’invecchiamento delle comunità che patiscono il profondo squilibrio tra le classi di età. Si pensi al consistente assottigliarsi della fascia di età Under 50. Di fronte a questo perdurare della crisi il Priore della comunità di Bose si chiede se sia crisi della vita religiosa oppure crisi della forma vitae consecratae[20]. Diventa assai utile saper leggere oltre il problema le possibili piste da percorrere non solo per gestire bene il presente, ma più a preparare una comunità religiosa per quanti oggi hanno tra i 20 e i 30 anni. Enzo Bianchi, in una seria disamina, mentre dice che la crisi ha radici lontane, nota che:

Nel mondo latino la frantumazione del monachesimo è stata la naturale conseguenza della sordità agli appelli che giungevano alla vita monastica dalla società in mutazione e dalla Chiesa stessa[21].

Come dire nel mondo latino c’è stato un indebolirsi del principio dell’Incarnazione e uno smarrimento del sensus ecclesiae. Questo non ha consentito una continuità nella trasmissione dei valori tra una generazione e l’altra. Il mutare degli eventi e dei contesti richiede l’elaborazione di risposte a nuove domande. Invece la cinghia di trasmissione si è inceppata. La vita religiosa si è messa su posizione di difesa pensando di salvaguardare in tal modo o riscoprire il carisma delle origini. Ma la posizione di difesa è rivelativa di uno smarrimento del significato stesso di carisma. Esso è realtà a forte spessore innovativo e profetico in un tempo e in uno spazio preciso. Vale a dire all’interno di un dato contesto, il carisma vive e rivive. Se invece non c’è questa circolazione vitale, il carisma muore. Giovanni Paolo II riconosce che: Chi riceve un dono dello Spirito santo potrà farlo fruttificare solo se sarà profondamente inserito nel dinamismo della vita.

 

“Ars vivendi et ars moriendi”

Il carisma, dono che viene dall’alto, da Dio nello Spirito è sempre legato alle categorie che compongono la storia. Il carisma è portatore di senso e di vita, si rivolge a destinatari concreti in un contesto sociale politico e culturale inevitabilmente mutabile. Più che mai la vita religiosa diventa sterile ogni volta che chiusa in se stessa smarrisce gli orizzonti ecclesiali. Va inoltre tenuto conto di un dato fisiologico inevitabile per la vita religiosa che come ogni organismo conosce stagioni di sviluppo, momenti di crisi, periodi di ripresa, conosce una decadenza e si avvia alla morte. Forse un tempo, in una solida struttura cristiana e di valorizzazione dell’istituzione in sé, si poteva tenere in relativo conto la necessità di imparare, accanto all’ars vivendi, un’analoga ars moriendi[22]. Oggi questo apprendistato doloroso è particolarmente incombente. Mette a prova la capacità di acconsentire al pianto, elaborare il lutto accettandone le conseguenze.

 

Agli avamposti della missione

Non va dimenticato il fatto che la crisi della vita religiosa oggi è legata alla fine del regime di cristianità e al passaggio ad un clima culturale fatto di complessità, di differenza, di alterità. La fuoriuscita dal regime di cristianità deve essere assunta anche dalla vita religiosa senza nostalgie e senza ideologizzazioni[23]. Così che si evidenzia nella vita religiosa la dimensione di povertà, di minorità, di umiltà. In questi ultimi decenni è stata ripresa l’antica dimensione della liminalità, dell’esistenza al margine.

Un esistere del religioso là dove di fatto non c’è nessuno come nell’arco della storia si è verificato con la presenza dei religiosi negli ospedali, nelle scuole, o modernamente nelle parrocchie trascurate. In periferia ossia là dove il religioso non è al centro del potere ma lì dove non c’è potere, bensì impotenza. In frontiera lì dove c’è più da sperimentare, secondo la necessaria immaginazione e creatività cristiana, dove può esserci maggior rischio, dove è più necessaria l’attività profetica per scuotere l’inerzia in cui la Chiesa, nella sua totalità va fossilizzandosi o per denunciare con più energia il peccato[24].

Oggi la società ci presenta una situazione multietnica, multiculturale, multireligiosa. I confini della cristianità si dissolvono e si mescolano in un melting pot cioè in una poltiglia senza dignità e struttura e nello stesso tempo disorientante. Un regime di dissolvenza cristiana certamente non agevola ma obbliga a ripensare la propria identità e testimonianza in termini essenziali: quelli conosciuti dalle prime generazioni di fede[25], in cui l’esistere cristiano è la piattaforma comune in cui leggere l’identità delle diverse vocazioni[26]. Si tratta di diventare sale e lievito, senza perdere identità e “sapore”, ma anche senza paura di scomparire nella massa, perché questa possa fermentare.

Il religioso, inoltre, non è categoria privilegiata nella comprensione del popolo di Dio. Centrare l’identità del religioso in una speciale consacrazione, come ancora si dice, diventa espressione alquanto ambigua[27]. Mi sembra che sia da ricordare la piena immanenza della vita consacrata nel popolo di Dio, la sua incorporazione attiva nella vita del popolo di Dio, secondo il principio di Incarnazione. Dialogo culturale e Incarnazione e sono le parole preferenziali che la teologia usa per dare il senso della collocazione della Chiesa in un territorio[28]. Ma sono processi che dalla grande svolta del Concilio sono proseguiti con il documento Mutuae Relationes, avvalorati dal Sinodo sulla vita consacrata, dall’esortazione apostolica Vita Consecrata, dall’istruzione Ripartire da Cristo. Questi processi, oltre la riscoperta del proprio carisma opportunamente adattato alle attuali esigenze, hanno prodotto il superamento dell’istituto dell’esenzione come forma di una sovradiocesanità disincarnata, una relazione comunionale di reciprocità con le altre vocazioni e una concezione più dinamica dei voti. L’esigenza di una piena ricollocazione ecclesiale della vita religiosa nella Chiesa locale ha fatto emergere la necessità di un’educazione dei religiosi a un genuino senso ecclesiale; non solo sentire cum et in Ecclesia, ma anche sentire Ecclesiam, fino al punto di identificarsi con essa in piena e organica comunione.

 

“Sentire cum ecclesia”

Viene immediata allora, guardando alle molteplici vocazioni e alle varie forme di servizio carismatico dei religiosi, vedervi una ricchezza per la Chiesa locale; una ricchezza sempre meglio offerta e più valorizzata dentro una logica di reciprocità. Non sarà possibile senza i cardini ecclesiologici di fondo della comunione e della missione. La dimensione della comunione ricorda alla Chiesa che le molteplici vocazioni sono ordinate l’una all’altra, interdipendenti tra di loro. La missione dice che tutte le vocazioni, ciascuna con l’apporto proprio, concorrono all’unica missione della Chiesa. Dunque la vita religiosa è giusto che ritrovi e salvaguardi il posto che gli è proprio, verificare la propria ecclesialità, la propria partecipazione alla vita della Chiesa senza autosufficienze. È risaputo come molte forme di vita religiosa sono nate e nascono come espressione della vitalità di una Chiesa locale e solo in una seconda fase avviene l’espansione su un territorio più ampio.

Nello stesso tempo però la vita religiosa deve difendere la sua diversità, la sua profezia. Significativa, ad esempio, l’insistenza sull’inserimento dei religiosi nella Chiesa locale come spazio concreto in cui pulsa la Chiesa universale. I religiosi e non solo il clero diocesano e i laici talvolta non sono abbastanza consapevoli di che cosa veramente è la vita religiosa nella Chiesa. Occorre accettare e garantire una più libera dialettica tra i vari soggetti ecclesiali educando a saper andare oltre le dimensioni localistiche per una più ampia prospettiva ecclesiale. C’è poi l’appartenenza al territorio non tanto da un punto di vista semplicemente geografico ma dalla sua fisionomia culturale, spirituale, dai diversificati bisogni che esprime. Ma prima ancora c’è la realtà ecclesiale della parrocchia, in cui di fatto in positivo o in negativo, interagiscono quotidianamente Chiesa locale, vita religiosa e territorio.

 

“Sentire ecclesiam”

L’assolutizzazione delle esperienze, il chiudersi in forme autosufficienti, il ritenersi come unica realizzazione autentica della Chiesa, stabilire cammini non convergenti sono atteggiamenti contrari alla comunione e non giovano alla missione. Tali atteggiamenti oscurano il contributo di riferimento significativo per itinerari di fede e opacizzano la qualità della testimonianza del primato spirituale dei religiosi. Nuove proposte e risposte potranno venire se non farà difetto il coraggio di ritornare a pensare con libertà le mediazioni significative per trasmettere e offrire alla comunità ecclesiale il valore intatto della sequela Christi.

Ma qual è il senso della vita religiosa nella Chiesa? Una rassegna sulla storia ci fa vedere come le famiglie che hanno più profondamente segnato la vita della Chiesa, sono quelle che si sono caratterizzate non per le opere, ma per il progetto di vita spirituale ed evangelica che hanno saputo esprimere29. Rinascere, richiede un nuovo progetto per la vita religiosa perché all’interno della Chiesa risponda al bisogno di spiritualità.

È l’unico modo che ha la vita religiosa per esserci nel futuro, perché sopravvivranno quegli (ordini, congregazioni) che sapranno agganciare in modo significativo la ricerca spirituale dell’uomo di oggi[30].

Dall’altra va tenuto presente che non ci sarà possibilità di realizzare quel magistero spirituale che sempre ha caratterizzato i religiosi nella storia se essi pensano di darlo da soli e secondo una logica solo propria. I religiosi si trovano di fatto mischiati a tutti e dentro la vita di tutti nella Chiesa anche e comunque sempre per essere un segno dell’assoluto di Dio nel mondo. Attraverso le cose che fanno non c’è cosa che essi possono fare, se vogliono essere fedeli a se stessi, che si ponga al di fuori di questa prospettiva spirituale.

Ma non da soli, perché non esiste vita religiosa se non pensata dentro l’esperienza vitale di un popolo; non esiste vita religiosa fuori del sentire ecclesiale ossia dentro una rete di rapporti che sta chiedendo compiti più impegnativi, responsabilità più ampia e servizi ancora tutti da esplorare. La rete della comunione, in una Chiesa costituita di molte vocazioni e di molti carismi senza l’esperienza di vita comune reale, di vita condivisa come quella propria dei religiosi non si apre alla reciprocità. Non sa edificare la complementarietà su prospettive profonde, quelle indicate dalla fede, le prospettive che, raggiungendo ciò che ognuno porta nel cuore, rendono possibile l’incontro al di là di ogni livello istituzionale, giuridico, formale.

 

Uno spazio umano abitato dalla Trinità

La verità della Trinità dimostra che le molte vocazioni e i molti carismi vanno considerati e vissuti nella reciprocità. Questo significa non solo che nessuna forma di vita religiosa può fare tutto; ma che c’è un rapporto delle une con le altre che deve trovare realizzazione, se si vuole che la molteplicità raggiunga lo scopo voluto da Dio. Non è cosa che viene da sé. Occorre progettarla e cominciare a incontrarsi, a confrontarsi su questioni riconosciute comuni, a cercare modalità di collaborazione senza temere che aprendosi agli altri e affrontando con loro i problemi si ricavi danno per la propria specificità carismatica. Al contrario, l’apertura agli altri permette di capire meglio se stessi[31].

Soprattutto attorno alla realtà della comunità, nella dimensione di koinonia, il riferimento alla Trinità mostra la sua più grande fecondità. Ora la comprensione del rapporto comunità religiosa – Trinità va mediato dalla comprensione del rapporto Chiesa – Trinità. L’essenza della comunità religiosa nel suo radicarsi trinitario fa dell’amore la logica di vita. La misura dell’amore – un amore senza misura – diventa lo stile di vita e di rapporti tra coloro che si impegnano a vivere il comandamento nuovo.

La vita religiosa si pone all’avanguardia nel cammino di adeguamento della Chiesa al suo modello trinitario. Essa è segno eloquente della comunione ecclesiale. Ad essa la Chiesa affida il compito di far crescere la spiritualità della comunione; di esprimere un’esemplare fraternità che sia di stimolo alle altre componenti ecclesiali. Nella dinamica esigente della comunione i religiosi diventano specialisti del dialogo d’amore tra le diverse vocazioni della Chiesa locale, tra le molteplici componenti parrocchiali e diocesane[32].

…la sequela discepolare, che cerca di imitare Cristo e vivere in particolare alcune delle sue parole, è apparsa a poco a poco, sotto l’influsso dello Spirito santo, come un Vangelo dispiegato nel tempo e nello spazio, un maestoso Cristo reso presente nella Chiesa attraverso i carismi dei santi[33].

 

Conclusione: nessuna “prima fila”

Mi sovviene una famosa espressione del card. C. M. Martini che constatando come la Chiesa, oggi, è sempre meno la Chiesa dei preti e dei religiosi, è sempre più Chiesa di molte vocazioni, molte delle quali nuove e con una capacità di aggregazione che fino a qualche tempo fa sembrava esclusiva della vita religiosa. Per cui oggi non c’è più nessuna prima fila.

Non c’è più nessuna prima fila. C’è il sapersi collocare in modo giusto nella Chiesa, come parte insostituibile di un tutto, aiutando a vivere la nuova ecclesiologia con la propria specificità, riconosciuta e valorizzata nei compiti che discendono dai propri carismi; che fanno crescere la ministerialità di tutti; che considerano i laici soggetto di missione, facendosi con loro compagni di viaggio; un rapporto di fraternità che significa poter dare ma anche saper ricevere. La vita religiosa, risposta al bisogno di solidarietà, di comunione, è un modello di relazione, di fraternità. Essere fratelli significa condividere, diventare compagni, acquisire capacità di mettersi in relazione con gli altri. Non più a senso unico, ma con gli altri per un comune cammino verso Dio.

 

 

 

Note

[1] Cfr. U. SARTORIO, Dire la vita consacrata oggi, Ancora, Milano 2001.

[2] La metafora dell’homo curvus la devo alla genialità di Agostino che nell’uomo curvato descrive il peccato.

[3] Per cultura intendo non tanto il sapere, o le forme letterarie, ma il mondo vitale di un gruppo o di un popolo, cioè il suo linguaggio, la sua organizzazione, i suoi modelli, il suo senso della vita, dell’amore, della morte, del lavoro, della giustizia, i suoi simboli, la sua memoria, il suo rapporto con la natura, con gli altri, con il trascendente. La cultura è nell’ordine della necessità, dell’identità, della vincolazione.

[4] Cfr. A. GARDIN, La vita consacrata oggi: problemi e provocazioni, in Perché porti più frutto, Atti del Capitolo provinciale spirituale, Frati minori conventuali, Provincia patavina, Camposampiero Padova 2003, p. 53.

[5] Va detto che nella vita religiosa vi sono situazioni, problemi e prospettive diverse, sia in relazione alle varie categorie di religiosi, sia in relazione ai differenti contesti geografici-culturali. I problemi in Africa, Asia e America sono per vari aspetti diversi da quelli Europei e da quelli Italiani.

[6] Non si pensi che sia capacità di comunicare con il mondo, l’assunzione acritica di qualunque messaggio proposto da personaggi di moda.

[7] Occorre un rapporto meno diffidente e più positivo con il mondo, con la storia. Il vivere in un persistente sospetto la complessità dell’esistenza genera l’inevitabile preoccupazione di se stessi, della propria salute insieme all’oscuro desiderio di essere ammalati e di non guarire per poter stare al centro dell’attenzione di tutti.

[8] Cfr. H. SCHALUCK, “Tutto è possibile, nulla è certo” Vocazioni religiose nei tempi del postmoderno, in AA. VV., Le vocazioni alla vita consacrata nel contesto della società moderna e postmoderna, Il Calamo, Roma 1999, p. 42s. ; M. MIDALI, Cultura post-moderna ed evangelizzazione nuova, in G. TRENTIN – L. BORDIGNON (a cura) Teologia pastorale in Europa. Panoramica e approfondimenti, Il Messaggero, Padova 2002, pp. 75-80.

[9] Si può vedere il Piano pastorale della COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Vocazioni nella Chiesa italiana, 26 maggio 1985, nn. 15-16.

[10] Per secolarismo si intende il successo della modernità di matrice illuministica. Oggi la modernità stessa presenta segnali di cedimento. Si è prodotto il paradosso di una razionalità tecnico-strumentale raffinatissima al servizio di una libertà individualistica e discrezionale. In parole altre, questa razionalità attenta ai mezzi ma cieca sui fini e sui valori, non basta più, e non può bastare a soddisfare le istanze profonde dell’uomo moderno. Cfr. G. PEGORARO, Essere segno, produrre segni, in L. GUCCINI (a cura) Una comunità per domani. Prospettive della vita religiosa apostolica, EDB 2001, p. 86.

[11] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2002, nn. 40-43.

[12] Cfr. M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1985.

[13] In Chi è l’uomo?, Rusconi, Milano 1989, pp. 55-56: L’individuo ordinario, tipico, è l’homunculus delle statistiche. Nella vita reale esso non esiste, a meno che l’uomo non si rassegni ad approdare nell’indifferenza e nella mediocrità, giacché il suicidio spirituale è alla portata di tutti.

[14] Cfr. Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998.

[15] M. RONDET – C. VIARD, La crescita spirituale, Dehoniane, Bologna 1988, p. 15.

[16] L’azione missionaria lungi dall’essere un’azione residuale della comunità cristiana, alla comunità vi dedicherebbe soltanto delle risorse eccedenti, va vista come dimensione costitutiva della comunità. Una dimensione per cui cade o sta tutto il senso dell’essere cristiani. Nello spirito dei Fondatori, i religiosi dovrebbero lanciarsi nei nuovi areopaghi della missione. Non mancano i campi di sfida in cui tentare nuove forme di presenza e di risposta.

[17] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 69, in Vita Consecrata, n. 76. 

[18] Espressione ripresa da G. PEGORARO, art. cit., pp. 96-97.

[19] L. PINKUS, Identità, cultura e vocazione. Un approccio psicodinamico, in P. DEL CORE – A. PORTA (a cura), Quale cultura per la formazione in Europa? LAS, Roma 2002, p. 55.

[20] Cfr. E. BIANCHI, Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini, Edizioni, Qiqajon, 2002, p. 257.

[21] Nello stesso studio E. BIANCHI osserva che non accade lo stesso per l’oriente: Il monachesimo bizantino e slavo seppero reagire in modo più duttile accettando una dinamica di sistole e di diastole, di fasi di stanca e di rinascite carismatiche, d’adattamento a nuove situazioni senza sconvolgimento di strutture comunitarie e hanno potuto così conservare fino ai nostri giorni una sostanziale unitarietà di identità di vita religiosa (quella monastica) in una pluralità di forme e di espressioni (p. 258).

[22] E. BIANCHI riprende quanto afferma J. B. METZ nel volume Tempo di religiosi, in particolare pp. 17 – – 20. op. cit., p. 259.

[23] Tra la vita religiosa e la coscienza cristiana oggi si assiste a un divario che insieme all’assunzione da parte dello Stato di compiti che prima erano suppliti dalla Chiesa con la diaconia della vita religiosa, rende inattuali molte forme di vita religiosa qualora si fossero giocate più nel “servizio da fare” che nel “carisma da vivere”, si spiega anche così la mancanza di attrazione verso di essa da parte dei giovani.

[24] J. SOBRINO, Resurrecciòn de la verdadera Iglesia, Sal Terrae, Santander 1981, p. 336.

[25] Si pensi ad esempio a quanto viene scritto nella lettera a Diogneto. Si può anche riflettere sulla xeniteìa del primo monachesimo rispetto ad ogni patria e alla situazione di marginalità, di liminalità rispetto alla stessa istituzione ecclesiale.

[26] Una acquisizione già chiara negli anni successivi al Concilio Vat. II come dimostra J. M. R. TILLARD, Davanti a Dio per il mondo. Il progetto dei religiosi, Alba 1975. Interessante anche il libro di C. M. HARMER, La vie religièuse au xxè siècle, Montrèal 1997.

[27] Questa specialità cosa nasconde? Un radicalismo evangelico o è un dato ideologico che difende una identità minacciata? La vita cristiana non è una sottocategoria della vita religiosa. Perché tanta fatica ad ammettere che la vita religiosa è un modo di realizzare la vita cristiana e nulla vi è di più alto di questa? si chiede fratel E. BIANCHI nel volume sopra citato pp. 48-50.

[28] Con l’Incarnazione il riferimento immediato è quello storico e geografico in cui Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi, il dialogo culturale, invece, rimanda all’uomo contemporaneo nei suoi bisogni autentici, a un’idea di cultura non legata al sapere accademico, ma a quello che la gente sente e vive, soffre e spera. Strumento di lavoro dell’Assemblea CISM 3-8 novembre 2003.

[29] Per questo problema si può vedere G. PEGORARO, Dove va la vita consacrata. La prospettiva della comunità religiosa apostolica (a cura della Redazione di Testimoni), EDB, Bologna 1996, p. 33-42.

[30] R. COZZA, I religiosi inseriti nel territorio, in AA.VV., Perché porti più frutto, op. cit., p. 159.

[31] Su questo tema interessante la riflessione fatta da L. GUCCINI, Molte vocazioni in un’unica Chiesa, La prospettiva della complementarietà, Convegno USMI regionale Lombardia, Triuggio, 19-20 settembre 2003.

[32] F. CIARDI, Esperti di comunione. Pretese e realtà della vita religiosa, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 1999.

[33] È quanto dice l’Instrumentum laboris in preparazione al Sinodo al n. 43. Viene ripresa una visione della vita religiosa, un modo di leggere la sua storia che offre la chiave per comprendere la varietà delle vocazioni e dei carismi nella loro più profonda motivazione teologica: la differente presentazione dell’unico mistero di Cristo e i diversi modi di realizzare la sua Parola.