N.02
Marzo/Aprile 2005

La centralità del giorno del Signore nella vita della comunità cristiana

Ho pensato di suddividere la relazione in due parti, riformulando il tema che mi è stato affidato con due domande:

Perché il giorno del Signore è centrale nella vita della comunità cristiana?

Come rendere centrale il giorno del Signore nella vita della comunità cristiana?

Mentre la prima parte è più teologica, la seconda è decisamente più pastorale. Una buona e organica sintesi è possibile leggerla nella Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Dies Domini, del 1998.

Né va peraltro trascurato quanto da dopo il Concilio ad oggi la Conferenza Episcopale Italiana ci ha offerto su questo tema: Eucaristia, Comunione e Comunità del 1983; la successiva Nota pastorale Il giorno del Signore del 1984; gli Orientamenti pastorali per questo decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, in modo particolare i numeri 47-49; la recente Nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, che dedica al nostro tema tutto il numero ottavo; e, infine, la Lettera, Senza la domenica non possiamo vivere, con cui il Consiglio Permanente ha inteso dare avvio all’anno di preparazione della Chiesa italiana al Congresso Eucaristico Nazionale, che si svolgerà a Bari dal 21 al 29 maggio del 2005. Se volessimo poi citare le numerosissime Lettere o Piani pastorali che i singoli Vescovi italiani hanno scritto su questo tema, in questi ultimi due anni, l’elenco sarebbe lungo, ma non insignificante nel farci comprendere come si sia realizzata, a tale proposito, una grande convergenza dell’Episcopato italiano.

L’Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – ottobre 2005) è non solo un grandissimo dono che il Papa ci ha fatto, ma costituisce una straordinaria e provvidenziale cornice per lo stesso Congresso Eucaristico Nazionale. Non posso non accennare a tutti quei Convegni nazionali[1] che gli Uffici della CEI hanno organizzato in questi ultimi mesi attorno al tema del Congresso, coinvolgendo in particolare le diverse Metropolie della Puglia.

Rileggendo quanto è stato scritto sulla domenica, in tutti questi anni, si deve convenire con quanto affermava Mons. Mariano Magrassi, mio venerato Vescovo e predecessore, nella sua relazione alla XXVIII Settimana Liturgica Nazionale, svoltasi a Pescara nel 1977, il cui tema era Domenica, il signore dei giorni: «La riflessione teologica – affermava l’insigne Liturgista – sembra aver segnato il passo. Si continua a citare gli stessi testi biblici e patristici (forse l’inventario è ormai pressoché completo) e a ribadire le stesse dimensioni del “Giorno del Signore”. Ho percorso la letteratura recente e non ho trovato grosse novità rispetto a quella percorsa circa dieci anni fa per una relazione analoga»[2].

Questo affermava Mons. Magrassi una trentina d’anni fa. Ecco perché mi limiterò a fare solo qualche rapido cenno nella prima parte all’aspetto teologico. Desidero soffermarmi, al contrario, un po’ più a lungo sulla seconda parte. Credo, infatti, che possa risultare più interessante condividere con voi quanto abbiamo maturato nella diocesi di Bari-Bitonto grazie ai tre Convegni ecclesiali sulla Carità, la Catechesi e la Liturgia e che ha trovato nel Sinodo diocesano (1996-2000) uno straordinario momento di sintesi. La preparazione del Congresso Eucaristico Nazionale non ci ha distolto dalle indicazioni pastorali emerse durante il Sinodo; ne ha solo accelerato l’applicazione, diventando un’ottima occasione per condividere, con le altre Chiese in Italia, il nostro cammino. Così stiamo vivendo in Diocesi questo evento che coinvolge non solo noi, ma tutta la Chiesa italiana.

 

 

 

Perché il giorno del Signore è centrale nella vita della comunità cristiana?

Una prima e immediata risposta a questa domanda ce la offre il Papa, quando afferma che la domenica è un «elemento qualificante dell’identità del cristiano e della Chiesa che si presenta alla generazione del secondo millennio»[3]. La domenica è uno scrigno prezioso che protegge ciò che il cristiano ha di più caro e che ogni settimana il Risorto spalanca, perché il Mistero in esso custodito sia annunciato, celebrato e testimoniato. Sembra, però, che per alcuni cristiani, anche tra quelli che celebrano il giorno del Signore, quello scrigno resti chiuso, se non addirittura sigillato e impolverato. Proviamo, allora, anche se con rapidi cenni, a descrivere la ricchezza della domenica, «il suo “mistero”, il valore della sua celebrazione, il suo significato per l’esistenza umana e cristiana»[4].

 

La domenica, Pasqua settimanale

Se la domenica possiede ancora la forza di “provocare” l’uomo d’oggi, è grazie al suo profondo e indissolubile rapporto con la Pasqua di Cristo. Qualcuno ha giustamente affermato che occorre “ridare un’anima alla domenica e una domenica all’anima”. Il cuore che pulsa in ogni domenica è quell’esplosione di vita nuova che ha ridestato il Cristo dalla morte e, attraversando i secoli, raggiunge e coinvolge, oggi, tutti noi. Se questo cuore non dovesse battere più, la domenica sarebbe destinata inevitabilmente a morire. Come sembra essere morta sul volto di quegli uomini, che la tristezza, la mancanza di senso, l’angoscia velano la gioia pasquale e, talora, la soffocano del tutto. Tutte le realtà che connotano la domenica cristiana – la festa, la celebrazione, la gioia, il riposo, la carità… – trovano nella Pasqua di Cristo l’evento che le origina e che le alimenta. Senza questo costante riferimento rischiano di diventare schegge impazzite. S. Tommaso notava che la domenica conserva il ricordo della Risurrezione, perché «è a questo mistero che dobbiamo conformare la nostra vita»[5].

La domenica è dunque centrale nella vita della comunità cristiana, perché ci riporta settimanalmente al cuore della nostra fede, «all’alba di quel primo giorno della settimana» (cfr. Mt 28,1), quando il Cristo, risorto dai morti, è apparso ai suoi discepoli. Ben presto, “quel primo giorno dopo il sabato” è trasformato dai cristiani in Kyriakè hemèra, giorno del Kyrios, cioè del Signore risorto, come leggiamo nell’Apocalisse (1,10). Confessare che Gesù è “Cristo e Signore” è diventato fin dall’inizio per la Chiesa la sua tessera fidei, come è attestato dal discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste: «Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36). Proclamare che Gesù è il Signore a gloria del Padre costituisce per il credente un’acclamazione gioiosa che afferma la Sua vittoria pasquale, la Sua partecipazione al nome stesso di Dio, la Sua signoria completa sul mondo. Bisognerebbe che i fedeli siano aiutati a scoprire dietro l’espressione usuale «Nostro Signore Gesù Cristo» la sintesi di tutta la fede cristiana: la fede nella vittoria pasquale di Cristo, con tutto il suo contenuto di salvezza, di grazia, di gioia presente nel mistero.

Presso gli Ortodossi, ancora oggi, la domenica è la anastàsimos hemèra, il giorno della risurrezione. Non la Chiesa ha scelto questo giorno, ma Lui, il Risorto; per questo essa non può che accoglierlo con gratitudine e custodirlo con fedeltà, cantando con gioia: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore» (Sal 118,24). L’inscindibile legame della domenica con la risurrezione di Cristo è stato messo ben in risalto dai Padri della Chiesa. Basilio parla della «santa domenica, onorata dalla risurrezione del Signore, primizia di tutti gli altri giorni»[6].

Girolamo si esprime in questi termini: «Il Signore ha fatto tutti i giorni, ma gli altri giorni possono appartenere agli ebrei, agli eretici e perfino ai pagani. La domenica, il giorno della Risurrezione, è il nostro giorno. È chiamato giorno del Signore poiché in esso il Signore è ritornato in patria vittoriosamente»[7]. «Il giorno del Signore – è sempre Girolamo che parla – il giorno della risurrezione, il giorno dei cristiani è il nostro giorno… E se esso è chiamato giorno del sole dai pagani, anche noi accettiamo volentieri questa designazione, perché in quel giorno è apparsa la luce, in quel giorno è brillato il sole di giustizia nei cui raggi è la guarigione»[8]. Sant’Agostino chiama la domenica «sacramento della Pasqua»[9]. E Papa Innocenzo I, così scriveva agli inizi del secolo V: «Noi celebriamo la domenica a causa della venerabile risurrezione del nostro Signore Gesù Cristo, non soltanto a Pasqua, ma anche a ogni ciclo settimanale»[10].

Tutta questa riflessione biblica e patristica è confluita nella Costituzione conciliare, Sascrosanctum Concilium, che così sintetizza il significato e il valore della domenica, rilanciandone la centralità per la vita della Chiesa: «Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente “giorno del Signore” o “domenica” […] Per questo la domenica è la festa primordiale che deve essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal lavoro. Non le venga anteposta alcun’altra solennità che non sia di grandissima importanza, perché la domenica è il fondamento e il nucleo di tutto l’anno liturgico»[11].

Non si tratta dunque di un semplice ricordo: ciò che la Chiesa celebra nella liturgia domenicale è una realtà viva ed operante, non un evento relegato nel passato. La domenica, a differenza degli altri giorni, è portatrice di un Mistero, attua una presenza attiva del Risorto, permette a noi di entrare in comunione con il Cristo.

 

La domenica, sintesi della storia della salvezza

La domenica è memoria non solo della risurrezione del Cristo, ma di tutto il mistero indivisibile della Pasqua: passione, risurrezione e gloria di Cristo. Potremmo, anzi, dire che nel giorno del Signore facciamo memoria di tutto il mistero cristiano: dall’incarnazione alla parusia, come canta la Chiesa nella liturgia eucaristica domenicale: «Nascendo dalla Vergine, (Cristo) ha inaugurato i tempi nuovi; soffrendo la passione, ha distrutto i nostri peccati; risorgendo dai morti, ci ha aperto il passaggio alla vita eterna; salendo a te, o Padre, ci ha preparato un posto nel tuo regno»[12]. La convinzione che la Pasqua è il centro ricapitolatore non solo del mistero di Cristo, ma di tutta la storia salvifica, porterà i padri della Chiesa a elaborare quelle che vengono chiamate “le benedizioni della domenica”, che assegnano alla domenica i fatti più significativi della storia salvifica, che ha nella Pasqua il suo vertice. La più antica e la più sobria, perché fedele ai dati scritturistici, è quella di Leone Magno. Egli enumera: la creazione del mondo, la Risurrezione di Cristo, la missione definitiva degli apostoli, l’effusione dello Spirito Santo nell’ottava di Pasqua, la Pentecoste; e conclude: «Tutto ciò che Dio ha creato di più grande e di più sacro è stato da lui compiuto nella dignità di questo giorno»[13]. Aveva, pertanto, ragione lo Pseudo Eusebio di Alessandria ad affermare: «La domenica è il giorno del Signore, signore di tutti gli altri giorni, principio e sorgente di ogni beneficio spirituale».

 

La domenica, memoriale del Battesimo

La comunità cristiana, «convocata nel giorno in cui il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale»[14], fa memoria anche dell’inestimabile dono del Battesimo. Nella Sua Pasqua, infatti, celebriamo e viviamo la nostra Pasqua. Per Tertulliano la domenica è «il giorno della risurrezione salvifica di Cristo». Con essa «noi celebriamo ogni settimana la festa della nostra Pasqua»[15]. Ignazio di Antiochia scrive: la domenica è «il giorno in cui, per mezzo di lui e della sua morte, ha avuto inizio la nostra vera vita»[16].

La domenica ci sollecita a riscoprire il dono del Battesimo e a conformare la nostra vita al dono ricevuto. Così Leone Magno esortava i suoi fedeli, in quel meraviglioso brano che abbiamo meditato nel giorno del Natale: «Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro. Ricordati che, strappato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! […] Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo»[17].

È come se ogni domenica venisse rivolto ad ogni battezzato il pressante invito «diventa ciò che sei!». A questo proposito non va trascurata quella mistagogia del battesimo che la liturgia dell’ottava di Pasqua ci offre. «Concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento che hanno ricevuto nella fede» (lunedì fra l’ottava); «Il Signore li ha dissetati con l’acqua della sapienza; li fortificherà e li proteggerà per sempre, darà loro una gloria eterna» (martedì fra l’ottava); «Concedi che tutti i tuoi figli, nati a nuova vita nelle acque del Battesimo e animati dall’unica fede, esprimano nelle opere l’unico amore» (giovedì fra l’ottava); «Coloro che sono rinati nel Battesimo ricevano la veste candida della vita immortale» (sabato fra l’ottava); «Dio (…) accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti» (II domenica di Pasqua). Questa rinnovata “responsabilità” del dono del Battesimo è sollecitata e favorita anche dal rito dell’aspersione con l’acqua benedetta all’inizio della celebrazione eucaristica domenicale. Un rito, che forse dovremmo valorizzare molto di più, perché, come recita la preghiera conclusiva del sacerdote, mette in forte risalto l’intimo legame che unisce tra loro la Pasqua, la domenica, il battesimo: «O Dio, che raduni la tua Chiesa, sposa e corpo del Signore, nel giorno memoriale della risurrezione, benedici il tuo popolo e ravviva in noi per mezzo di quest’acqua il gioioso ricordo e la grazia della prima Pasqua nel Battesimo»[18].

Quanto attuale sia oggi questa esortazione ce lo ricorda la recente Nota pastorale sulla parrocchia: «Ci sono poi i battezzati il cui Battesimo è restato senza risposta: possono anche aver ricevuto tutti i sacramenti dell’iniziazione cristiana, ma vivono di fatto lontani dalla Chiesa, su una soglia mai oltrepassata. Per loro la fede non va ripresa, ma rifondata; il dono sacramentale va riproposto nel suo significato e nelle sue conseguenze. Ancora di più sono i battezzati la cui fede è rimasta allo stadio della prima formazione cristiana; una fede mai rinnegata, mai del tutto dimenticata, ma in qualche modo sospesa, rinviata»[19].

Non va dimenticato, soprattutto da voi, operatori vocazionali, che, come leggiamo nella stessa Nota pastorale, «concentrare l’azione della parrocchia sul Battesimo è il modo concreto con cui si afferma il primato dell’essere sul fare, la radice rispetto ai frutti, il dato permanente dell’esistenza cristiana rispetto ai fatti storici mutevoli della vita umana. Il Battesimo comporta esigente adesione al Vangelo, è via alla santità, sorgente di ogni vocazione»[20]. La domenica è il centro della vita della comunità cristiana, perché costituisce un pressante invito settimanale a innalzare l’esistenza cristiana al livello del Risorto, a vivere, come dice Ignazio di Antiochia, «secondo la domenica».

 

L’Eucaristia, cuore della domenica

La domenica non è solo memoria del Mistero pasquale, sorgente di tutta la vita della Chiesa. È anche presenza del Risorto che convoca i credenti attorno alla mensa della Parola e del Pane di vita. Come affermava il cardinale Danieels: «Il cristianesimo non è un’ideologia: è un Volto». Sì, è una Presenza che si offre e interpella la nostra vita. Ecco perché la celebrazione eucaristica è non solo il cuore della domenica, ma costituisce anche il centro di tutta la vita della Chiesa: nella celebrazione eucaristica domenicale la Chiesa dice la sua appartenenza al Cristo e, nel contempo, in essa «fabricatur ecclesia»[21].

Sì, «la Chiesa vive dell’Eucaristia»[22]. «Tutti i sacramenti – si legge nella Presbyterorum ordinis –, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua… Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine (fons et culmen) di tutta l’evangelizzazione»[23].

Di qui deriva per tutti noi l’urgenza del nostro impegno pastorale: condurre i fedeli a scoprire Cristo, presente e operante nel Mistero. È quanto ci fa chiedere la preghiera liturgica: «O Dio, che in questo giorno memoriale della Pasqua, raccogli la tua Chiesa pellegrina nel mondo, donaci il tuo Spirito, perché nella celebrazione del mistero eucaristico riconosciamo il Cristo crocifisso e risorto che apre il nostro cuore all’intelligenza delle Scritture, e si rivela a noi nell’atto dello spezzare il pane»[24]. Senza questa viva consapevolezza di essere alla presenza del Risorto, la liturgia rischia di scivolare inevitabilmente nel ritualismo. La presenza di Cristo nella celebrazione eucaristica non è statica, ma dinamica, perché Egli parla ed agisce attraverso i segni ecclesiali. Il Cristo, infatti, irradia la sua azione in ciascuno dei partecipanti, rivive in essi il suo mistero, li introduce nei suoi atteggiamenti interiori di povertà, di ubbidienza e di amore, e comunica loro il suo Spirito.

Nell’Eucaristia Cristo morto e risorto è presente in mezzo al suo popolo. Nell’Eucaristia e mediante l’Eucaristia lo genera e rigenera incessantemente: «La Celebrazione eucaristica – ci ricorda la recente Nota pastorale – è al centro del processo di crescita della Chiesa. Culmine dell’iniziazione cristiana, l’Eucaristia è alimento della vita ecclesiale e sorgente della missione»[25]. La celebrazione eucaristica domenicale, infatti, lungi dall’esaurirsi dentro le nostre chiese, esige di trasformarsi in impegno di testimonianza e servizio di carità. «Il “Corpo dato” e il “Sangue versato” – si legge nella stessa Nota pastorale – sono “per voi e per tutti”: la missione è iscritta nel cuore dell’Eucaristia. Da qui prende forma la vita cristiana a servizio del Vangelo. Il modo in cui viene vissuto il giorno del Signore e celebrata l’Eucaristia domenicale deve far crescere nei fedeli un animo apostolico, aperto alla condivisione della fede, generoso nel servizio della carità, pronto a rendere ragione della speranza»[26]. Ed è la speranza che ci fa intravedere nella domenica “il giorno primo ed ottavo” [27]. «In piedi e col cuore in gioia, noi assistiamo la domenica a una parusia spirituale»[28]: una presenza quella del Risorto velata e misteriosa, che fa sgorgare dal profondo del cuore della Chiesa l’invocazione che chiude l’Apocalisse: Vieni, Signore Gesù! Così, di domenica in domenica la liturgia ci chiede di fare un “esercizio di desiderio”, tenendo in noi viva l’attesa della «domenica senza tramonto, quando l’umanità intera entrerà nel tuo riposo»[29]. «Là – come afferma Agostino – saremo nella pace e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo»[30].

Ancora una volta è la preghiera liturgica a ravvivare in noi la consapevolezza di questa Presenza dinamica e suscita in noi la disponibilità a lasciarci da Essa plasmare: «O Dio, che nell’ora della croce hai chiamato l’umanità a unirsi in Cristo, sposo e Signore, fa’ che in questo convito domenicale la santa Chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore, e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne»[31]. Non mi soffermo ancora a lungo su questo aspetto, perché della “forza trasformante” – o come è detto nel tema di questo convegno del dinamismo vocazionale – se ne parlerà nelle due relazioni di domani.

 

 

 

Come rendere centrale nella vita della comunità cristiana il giorno del Signore?

La catechesi mistagogica

Dopo aver rievocato, anche se solo con rapidi tratti, la ricchezza teologica della domenica, non possiamo non chiederci come mai la celebrazione eucaristica domenicale sia, a volte, ridotta ad un precetto da osservare o ignorata. Il problema, come ben si comprende, è dunque di natura pastorale e riguarda, soprattutto, il modo di intendere, celebrare e vivere la liturgia. Lasciamoci provocare da quanto scrivono i Vescovi italiani negli Orientamenti pastorali: «Nonostante i tantissimi benefici apportati dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, spesso uno dei problemi più difficili oggi è proprio la trasmissione del vero senso della liturgia cristiana. Si constata qua e là una certa stanchezza e anche la tentazione di tornare a vecchi formalismi o di avventurarsi alla ricerca ingenua dello spettacolare. Pare, talvolta, che l’evento sacramentale non venga colto. Di qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo, facendone emergere la dignità e l’orientamento verso l’edificazione del Regno. La celebrazione eucaristica chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va sostenuta con una robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini»[32].

Cosa fare? Il Papa nella recente Lettera apostolica ci indica al riguardo una strada ben precisa: «I Pastori si impegnino in quella catechesi mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa, che aiuta a scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza»[33].

In questa direzione si è mossa la Chiesa di Bari–Bitonto sin dal 2000, subito dopo il Sinodo diocesano, quando ha fatto della “catechesi mistagogica” una sua precisa scelta pastorale. Il Congresso Eucaristico non ha fatto nient’altro che dare maggiore impulso a questa scelta. È per noi motivo di gioia constatare come la  catechesi mistagogica è proposta da più parti e da diversi livelli: dalla Lettera apostolica del Papa ai Lineamenta[34] del prossimo Sinodo sull’Eucaristia; da eminenti liturgisti, come C. Giraudo[35] e V. Raffa[36]. Questo consenso che si va sempre più allargando, sospinge verso un ulteriore approfondimento.

 

Perché scegliere la mistagogia?

Una scelta, quella della mistagogia, che così Enzo Bianchi spiega: «Si tratta, ed è urgente, di reagire alla crisi con una più seria e profonda formazione, con una rinnovata catechesi mistagogica, con uno sforzo per conoscere e recuperare lo spirito della liturgia, riscoperto e rinnovato dal Concilio Vaticano II, con un mutamento della forma del ministero presbiterale che deve ritrovare il primato dell’azione liturgica nel servizio alla comunità cristiana. Soprattutto mi sembra di dover far emergere una pericolosa patologia ecclesiale che non solo enfatizza l’evangelizzazione come mandato dei cristiani nel mondo, ma la riduce all’annuncio verbale e alla diaconia come servizio della carità»[37]. Credo si possa condividere appieno quanto osserva il Priore di Bose.

Non sembri, dunque, che il mettere realmente al centro della vita della Chiesa il giorno del Signore e la celebrazione eucaristica domenicale sia, in un’epoca come la nostra in cui si avverte con urgenza la necessità dell’evangelizzazione, una sorta di ripiegamento, un ritornare a rinchiudersi nelle sagrestie. Tutt’altro! La domenica ci ricorda che il Risorto è “il Signore della Chiesa”: è Lui il vero “mistagogo”; è Lui che parla e agisce efficacemente per mezzo dello Spirito Santo; è Lui – «sacerdote, altare e vittima», secondo la felice espressione di Agostino – il vero liturgo, che unisce a sé nello Spirito la sua Sposa nella lode al Padre. Non solo non vi è alcuna opposizione tra liturgia ed evangelizzazione, ma, al contrario, vi è una intima correlazione: è nella liturgia (fons et culmen) che trovano la loro origine l’annuncio e la testimonianza della carità. La decisione della comunità di inviare Saulo e Barnaba in missione non è stata presa durante una celebrazione liturgica (At 13,2)? Su questa linea si muovono anche gli Orientamenti pastorali che indicano una circolarità vitale tra giorno del Signore, celebrazione eucaristica ed evangelizzazione: «Se un anello fondamentale per la comunicazione del Vangelo è la comunità fedele al “giorno del Signore”, la celebrazione eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far crescere i fedeli, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti (cfr. 1Pt 3,15). In tal modo la celebrazione eucaristica risulterà luogo veramente significativo dell’educazione missionaria della comunità cristiana»[38].

Del resto, non è forse vero che molti oggi giungono alla fede attraverso cammini complessi, ma nei quali la celebrazione liturgica ha un ruolo decisivo? E che dire dei tanti cristiani per i quali, oggi, l’unica esperienza ecclesiale è la liturgia domenicale? La liturgia, afferma il cardinale Ratzinger, «è per sua essenza annuncio del lieto messaggio di Dio alla comunità presente e accettazione da parte della comunità. […] In una liturgia così celebrata, il linguaggio non ha il senso di voler nascondere, ma di rivelare, non ha il senso di un tacere nel silenzio della singola preghiera isolata, ma del convergere verso l’unico soggetto: il “noi” dei figli di Dio che dicono insieme” Padre nostro”»[39].

Qualcuno si chiederà: perché proporre la mistagogia a noi che siamo animatori vocazionali? Non è forse l’animatore vocazionale un “mistagogo”? Suo compito, infatti, è introdurre il giovane nel mistero di Cristo, così come si comunica a noi attraverso la Liturgia e si rivela per mezzo della Parola, giacché «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo»[40]. E mi chiedo: non sono proprio gli esperti di pastorale vocazionale e di spiritualità a definire l’accompagnamento vocazionale come una sorta di mistagogia? Penso, solo per fare un esempio, al numero monografico della Rivista di vita spirituale, dedicato al tema: Mistagogia e accompagnamento spirituale[41]. Poiché, a volte si attribuiscono differenti significati al termine “mistagogia”, permettetemi di spendere qualche parola per chiarirne il senso.

 

Che cos’è la mistagogia?

Danièlou così spiegava in che cosa consiste la mistagogia: «La fede cristiana ha solo un oggetto, il mistero di Cristo morto e risorto. Ma questo unico mistero sussiste in differenti modi: è prefigurato nell’Antico Testamento, è storicamente compiuto nella vita terrena di Cristo, è contenuto in mistero nei sacramenti, è misticamente vissuto nelle anime, è socialmente compiuto nella Chiesa, è consumato escatologicamente nel regno dei cieli. Così il cristiano ha tra le mani molti registri, un simbolismo multi-dimensionale, per esprimere quest’unica realtà. L’intera cultura cristiana consiste nel tenere strette le connessioni che esistono tra Bibbia e liturgia, Vangelo ed escatologia, misticismo e liturgia. L’applicazione di questo metodo alla Scrittura è chiamato esegesi; applicato alla liturgia è chiamato mistagogia. Si tratta di leggere nei riti il mistero di Cristo, e nel contemplare al di sotto dei simboli la realtà invisibile»[42]. In modo più schematico potremo dire che «la mistagogia si fonda su tre elementi principali: l’interpretazione dei riti alla luce degli eventi biblici; la valorizzazione dei segni sacramentali; il significato dei riti in vista dell’impegno cristiano nella vita. La mistagogia si muove dentro un orizzonte unitario della storia della salvezza. Proprio per questo favorisce un legame organico tra Scrittura, Liturgia e vita cristiana»[43].

La grande intuizione espressa dai Padri della Chiesa nelle loro Catechesi mistagogiche è stata quella di utilizzare come metodo per interpretare la liturgia, lo stesso da loro utilizzato per l’interpretazione della Scrittura. L’aver adoperato lo stesso metodo per due realtà distinte ha fatto sì che si riconoscesse loro una unità profonda, pur nella distinzione e nella differenza. «In questo strettissimo legame tra Scrittura e liturgia sta tutta l’intelligenza spirituale che i Padri hanno intuito e concretizzato attraverso la mistagogia, e sta anche tutta l’attualità della mistagogia per la Chiesa del nostro tempo»[44].

 

a) L’interpretazione dei riti alla luce degli eventi biblici

«Nell’Antico Testamento è adombrato il Nuovo e nel Nuovo Testamento è reso manifesto l’Antico»: così Agostino sintetizzava quella chiave ermeneutica, adoperata dai Padri della Chiesa, per leggere e interpretare la Scrittura[45]. Le catechesi mistagogiche abbondano di riferimenti al Nuovo e all’Antico Testamento. I sacramenti della nuova Alleanza, infatti, si illuminano con maggiore splendore e si comprendono meglio se letti alla luce delle immagini che li prefiguravano nell’antica Alleanza. Rifacciamoci, a mo’ di esempio, a quanto diceva Ambrogio ai neofiti: «Dopo questi riti hai ricevuto le vesti candide per indicare che ti sei spogliato dell’involucro dei peccati, hai indossato le pure vesti dell’innocenza di cui il profeta ha detto: Aspergimi con l’issòpo, e sarò mondato; mi laverai, e sarò più bianco della neve. Infatti, chi viene battezzato appare purificato sia secondo la Legge sia secondo il Vangelo: secondo la Legge, perché con un fascio di issopo Mosè aspergeva il sangue dell’agnello, secondo il Vangelo, perché le vesti di Cristo erano candide come la neve, quando nel Vangelo manifestò la gloria della sua risurrezione. È candido più della neve quegli cui viene rimessa la colpa; perciò anche per bocca d’Isaia il Signore dice: Anche se i vostri peccati saranno come la porpora, io li renderò candidi come neve»[46].

 

b) La valorizzazione dei segni sacramentali

«I sacramenti – dichiara la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium – sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni hanno poi anche un fine pedagogico. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati “sacramenti della fede”. Conferiscono certamente la grazia, ma la loro stessa celebrazione dispone molto bene i fedeli a riceverla con frutto, ad onorare Dio in modo debito e ad esercitare la carità. È quindi di grande importanza che i fedeli comprendano facilmente i segni dei sacramenti e si accostino con somma diligenza a quei sacramenti che sono destinati a nutrire la vita cristiana»[47]. Quanto è auspicato dal Concilio era già realizzato dai Padri della Chiesa che, nelle loro catechesi mistagogiche, rivivevano con tutta la comunità quanto era stato celebrato nel sacramento, rileggendo e spiegando i diversi elementi del rito: i segni, i gesti, le preghiere.

La partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa al Mistero, passa attraverso il rito concreto. Il rito, infatti, non solo realizza quello che dice, ma dice anche quello che fa: il mistero che accade sotto il velo del segno. È la via seguita da Dio con l’Incarnazione e che dalla Liturgia è espressa in questo tempo natalizio con queste straordinarie espressioni: «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili»[48]. Vuoi conoscere ciò che accade nella celebrazione? Guarda i gesti, ascolta le parole. Agostino dirà del Battesimo: «Accedit verbum ad elementum, et fit Sacramentum. Si unisce la parola all’elemento, e nasce il sacramento»[49].

Inoltre, «il metodo dei Padri non trascura la dimensione psicologica che fa leva sulle emozioni suscitate dall’esperienza vissuta nella celebrazione. In realtà, la preoccupazione dei Padri è quella di condurre i neofiti dalla conoscenza del mistero, a una profonda e viva partecipazione, in modo che lo stesso mistero celebrato raggiunga il suo scopo: comunicare la salvezza»[50]. Ascoltiamo nuovamente il santo Vescovo di Milano che scandiva le sue Catechesi mistagogiche con espliciti riferimenti ai riti[51]: «Cosa abbiamo compiuto sabato?»; «Che significa questo?»; «siamo venuti al fonte, sei entrato, sei stato unto»; «quando il vescovo ti ha chiesto…»; «ti sei avvicinato ancor più, hai visto il fonte e, sopra il fonte, il vescovo»; «viene il vescovo, recita una preghiera presso il fonte»… Chi partecipava a queste catechesi faceva realmente l’esperienza di “essere preso per mano dal vescovo” e introdotto in una più profonda comprensione del mistero celebrato; in questo modo tutto quello che era stato compiuto riceveva un senso e interpellava la vita. Con un’immagine eloquente Clemente d’Alessandria ci ricorda l’importanza di saper cogliere il senso e il valore dei riti: «Chi è ancora cieco, sordo, senza intelligenza e senza lo sguardo audace e penetrante dello spirito che ama, quello sguardo che soltanto il Salvatore può concedere, questi deve restare fuori dalla celebrazione dei misteri, come uno che nella danza non ha il senso della musica»[52].

Una precisa indicazione pastorale, a proposito dei segni, viene dal Concilio e non va assolutamente disattesa: «I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni»[53]. Va anche detto che, come affermano i Lineamenta del prossimo Sinodo, «riscoprire la metodologia dei Padri è importante per rispondere al bisogno visivo di immagini e simboli, che contraddistingue l’uomo contemporaneo»[54]. E a questo proposito così si esprime Giovanni Damasceno: «La bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna sprona il mio cuore a rendere gloria a Dio»[55].

 

c) Il significato dei riti in vista dell’impegno cristiano nella vita

Un’attenzione particolare era riservata dai Padri, nella loro spiegazione dei segni sacramentali, alle esigenze morali che dal sacramento derivavano per la vita del fedele. In tal modo era assicurato quell’imprescindibile rapporto tra la fede celebrata e la fede vissuta[56]: «La liturgia domanda che i fedeli esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede»[57].

Ricordate come abbiamo iniziato la celebrazione eucaristica di ieri sera? L’evangeliario, portato solennemente in processione, ha attraversato tutta l’assemblea, fino a raggiungere il cuore stesso dell’assemblea: l’altare. L’evangeliario posto sull’altare è davvero epifania del Mistero: la Parola di Dio, che ha attraversato i secoli accompagnando il cammino del popolo di Israele, ha trovato il suo compimento nel vero culto reso da Cristo a Dio sulla croce: il dono  di sé fino alla morte, il corpo dato e il sangue versato, di cui quell’altare è il luogo del memoriale, il luogo dell’azione di grazie. Davvero grande è l’intelligenza spirituale con la quale la Chiesa ha voluto che il gesto di porre l’evangeliario sull’altare fosse il primo gesto della celebrazione eucaristica: esso diventa così la chiave interpretativa di ciò che essa celebra in quella liturgia che ha inizio.

Quel gesto è infatti l’icona più eloquente con la quale la liturgia manifesta l’unità intrinseca che la Chiesa riconosce esistente tra la Scrittura, l’Eucaristia e la nostra vita. All’altare, infatti, ci siamo accostati anche noi, dopo aver ascoltato la Parola, per ricevere l’Eucaristia, invocando dal Padre il dono dello Spirito Santo, perché «faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito»[58]. La coerenza con il dono ricevuto impegna il battezzato ad uno stile nuovo di vita. Il sacramento, infatti, santificando, genera un uomo nuovo; di lì deve scaturire anche un modo nuovo di agire, sostenuto dall’energia divina del sacramento.

Quanto è lontano tutto questo da quel moralismo al quale si riduce, talvolta, l’agire cristiano! Ecco come Giovanni Crisostomo richiama con forza i suoi cristiani alla coerenza di vita: «Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, sei divenuto più misericordioso»[59]. Non un rito vuoto, senza alcun rapporto con la realtà concreta. Meno ancora un varco che ci immette in un mondo irreale e offre un alibi per il disimpegno dalle responsabilità quotidiane. I riti sacramentali, al contrario, sono gesti in cui confluisce la vita quotidiana e, quindi, punti di arrivo; e sono sorgenti di grazia che offrono luce e forza per dare un senso nuovo al vivere di ogni giorno e, quindi, punti di partenza.

 

L’incontro settimanale della comunità

Il metodo mistagogico non raggiungerà mai la sua piena efficacia se non risveglia la responsabilità di tutta la comunità – non solo dei sacerdoti o degli animatori liturgici – e se non diviene un elemento strutturale della vita di una parrocchia. Questo incontro settimanale non può esaurirsi nella preparazione alla celebrazione eucaristica domenicale, che mira ad aiutare i fedeli perché non assistano «come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente»[60]. Deve puntare ancora più in alto: favorire la crescita di tutta la comunità, quale soggetto dell’agire pastorale, nella ricchezza e reciprocità delle diverse vocazioni.

Difficilmente la Parrocchia potrà essere una comunità di credenti, e non una semplice stazione di servizi, e “grembo di tutte le vocazioni”, come avete detto nel Convegno dello scorso anno, se non si avranno nella sua vita momenti strutturali in cui giovani, adulti e anziani si ritrovino insieme non solo per prepararsi alla Celebrazione eucaristica domenicale, ma anche per essere da questa “provocati”, in modo tale che tutta la vita e l’agire pastorale della comunità siano interpellati, illuminati e sostenuti dall’Eucaristia, cuore della Domenica. La realizzazione di questo obiettivo richiederà necessariamente un lungo e non facile impegno nell’abbattere quegli steccati che a volte si innalzano nella comunità e che fanno della catechesi, della liturgia e della testimonianza della carità degli scompartimenti stagni e degli operatori pastorali impegnati nei rispettivi ambiti, dei “delegati”, impedendo così non solo quella vitale circolarità, che vi deve essere tra le tre dimensioni della vita cristiana, ma anche la crescita della comunità e la maturità di fede dei singoli credenti.

«Al cuore dell’azione formativa – ha scritto il cardinale Tettamanzi nel suo Piano pastorale – sta il pieno rispetto della triade indivisa e indivisibile di Parola-Sacramento-Vita: dall’ascolto della parola di Dio e dalla celebrazione della Messa scaturisce una vita nell’amore che si traduce nell’impegno quotidiano del servizio dei fratelli»[61]. Senza questa circolarità vitale tra le tre dimensioni della vita cristiana, la catechesi rischia di ridursi ad indottrinamento, la celebrazione in ritualismo, la testimonianza della carità in attivismo.

 

 

Conclusione

Se ci sforzeremo di vivere così il giorno del Signore potremo rivivere la stessa gioiosa forza che ha spinto i Martiri di Abitene ad andare incontro al martirio esclamando: Sine dominico non possumus! Sì, senza la domenica non possiamo né dirci né tanto meno vivere da cristiani; perché «come potremmo vivere senza il Cristo?», si chiedeva Ignazio di Antiochia[62]. «Se volete essere il giorno fatto dal Signore – diceva il Vescovo di Ippona ai suoi fedeli –, vivete bene, e avrete la luce della verità, e l’avrete in modo che non tramonti dal vostro cuore»[63]. E la recente Nota pastorale ci esorta a «“custodire” la domenica, e la domenica “custodirà” noi e le nostre parrocchie, orientandone il cammino, nutrendone la vita»[64].

 

 

Note

[1] Solo per citare i più significativi: Convegno unitario dei tre Uffici della CEI (Catechesi, Liturgia e Carità): La parrocchia vive la Domenica, Lecce 14-17 giugno 2004; Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo: Il giorno del Risorto, vita per le Chiese e pace per il mondo, Bari 26-29 settembre 2004; Commissione Episcopale per la Cultura: La domenica: giorno del Risorto, giorno dell’uomo, Brindisi 5-7 novembre 2004; Ufficio Nazionale Mondo sociale e del Lavoro, Domenica tra lavoro e consumi, Massafra (TA) 18-20 novembre 2004; XXXIX Convegno Nazionale dei Rettori e Operatori dei Santuari: La domenica nei santuari: quale pastorale?, Bitonto (BA) 22-25 novembre 2004.

[2] M. MAGRASSI, La domenica: giorno del Signore e signore dei giorni, p. 84, in Domenica signore dei giorni, Ecumenica editrice, Bari 1980.

[3] GIOVANNI PAOLO II, Dies Domini, 30.

[4] Ibidem, 3.

[5] TOMMASO, III Sent., dist. 37, a. 5, sol. 3 ad 3 um.

[6] BASILIO, Homiliae in Hexaemeron, II, 8; SC 26,184.

[7] GIROLAMO, In die dominica Paschae homilia; CCL 75, 550.

[8] Ibidem.

[9] AGOSTINO, In Io. Ev. tract., XX,20,2.

[10] PAPA INNOCENZO I, Epist. Ad Decentium, XXV, 4, 7; PL 20, 555.

[11] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, 106.

[12] MESSALE ROMANO, Prefazio IV domeniche del Tempo Ordinario.

[13] LEONE MAGNO, Epistola 9, 1; PL 54, 625-626.

[14] MESSALE ROMANO, Embolismo festivo della prece eucaristica.

[15] TERTULLIANO, De solemnitate paschali, 7.

[16] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Magnesi, IX, 1.

[17] LEONE MAGNO, Discorso per il Natale, 1, 3.

[18] MESSALE ROMANO, II Formulario per l’aspersione.

[19] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2.

[20] Ibidem, 9.

[21] Cfr. AGOSTINO, Esposizione sui salmi 138,2: «Ex latere Domini dormientis… manaverunt sacramenta, quibus formaretur ecclesia; TOMMASO D’AQUINO, Summa teologica III, q. 64, a2: «Per sacramenta… dicitur esse fabbricata ecclesia Christi».

[22] GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia de Eucharistia, 1.

[23] CONCILIO VATICANO II, Presbyterorum ordinis, 5.

[24] MESSALE ROMANO, Colletta/A Domenica III di Pasqua.

[25] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 8.

[26] Ibidem.

[27] «Poiché questo giorno è al principio, fu chiamato da Mosè non “primo”, ma “uno”: e fu sera e fu mattina, un giorno (Gen 1,5), come se questo “stesso” tornasse spesso. Inoltre questo giorno “uno” è anche ottavo e indica quel giorno realmente unico e veramente ottavo del quale fa menzione anche il salmista nel titolo di alcuni salmi (6 e 12), la condizione che seguirà a questa vita, il giorno senza fine che non conoscerà né notte, né succedersi dei giorni, secolo imperituro che non invecchierà e non avrà fine» (BASILIO MAGNO, Trattato su lo Spirito Santo, 27).

[28] J. HILD, Dimanche et vie pascale (Exultet, 1), Turnhout 1949.

[29] MESSALE ROMANO, Prefazio X delle domeniche del tempo ordinario.

[30] AGOSTINO, La città di Dio, XXII, 30, 4.

[31] MESSALE ROMANO, Colletta/C Domenica II del tempo ordinario.

[32] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49.

[33] GIOVANNI PAOLO II, Mane nobiscum Domine, 17.

[34] SINODO DEI VESCOVI, XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, L’Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Lineamenta, cap. V.

[35] C. GIRAUDO, Stupore eucaristico. Per una mistagogia della Messa alla luce dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.

[36] V. RAFFA, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica. CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2003.

[37] E. BIANCHI, Celebrare per rendere ragione della speranza che è in noi. In Liturgia epifania del mistero, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. 120.

[38] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 48.

[39] J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1984, pp. 331.332.

[40] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 22.

[41] Cfr. “Rivista di vita spirituale” 57 (2003) fasc. 4-5. Degno di nota è l’articolo di CASTELLANO C. J., La liturgia quotidiana. Mistagogia universale della Madre Chiesa, in “Rivista di vita spirituale” 57 (2003) 4-5, 440-463.

[42] J. DANIÈLOU, Le symbolisme des rites baptismaux, in Dieux vivant 1 (1945) 17.

[43] F. CACUCCI, Catechesi Liturgia Vita, (EDB) Bologna 2000, 27; cfr. ID., La domenica pasqua settimanale. Per un cammino mistagogico nell’anno liturgico. Ciclo/A, LEV, Città del Vaticano 2004.

[44] G. BORSELLI, La mistagogia per entrare nel mistero. In Liturgia epifania del mistero, CLV Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. 90.

[45] AGOSTINO, Prima catechesi cristiana, 4,8.

[46] AMBROGIO DI MILANO, I Misteri, VII, 34.

[47] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, 59.

[48] MESSALE ROMANO, Prefazio di Natale I.

[49] AGOSTINO, In Evangelium Johannis tractatus, 80, 3.

[50] F. CACUCCI, o.c., 33.

[51] AMBROGIO DI MILANO, I Misteri, I, 2; II, 4; II, 5; III, 9; V, 14.

[52] CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Stremata V,4, 19,2.

[53] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, 34.

[54] SINODO DEI VESCOVI, XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, L’Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Lineamenta, n. 47.

[55] GIOVANNI DAMASCENO, De sacris imaginibus orationes, 1, 27: PG 94, 1268B.

[56] «La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo» (Gaudium et spes, 43).

[57] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Conciliumm, 10.

[58] MESSALE ROMANO, Preghiera eucaristica III.

[59] GIOVANNI CRISOSTOMO, Homiliae in primam ad Corinthios, 27, 4: PG 61, 229-230.

[60] CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, 48.

[61] D. TETTAMANZI, Mi sarete testimoni, Milano 2003, 45.

[62] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Magnesi, 9,2.

[63] AGOSTINO, Discorso 230.

[64CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 8.