N.02
Marzo/Aprile 2005

La domenica giorno della Chiesa, assemblea di chiamati: aspetti pedagogici

La relazione di don Tonino ha già provveduto a spiegare il senso del nostro intervento, che mira a cogliere il versante pedagogico delle riflessioni emerse in questo convegno. In modo del tutto particolare questa mia conversazione vorrebbe trarre qualche suggestione di natura metodologico-operativa, che aiuti tutti noi e le nostre comunità parrocchiali a scoprire e vivere sempre più il dinamismo vocazionale dell’Eucaristia, particolarmente nel giorno del Signore.

Il rapporto tra Eucaristia e vocazione è un rapporto del tutto evidente e solido dal punto di vista teologico, eppure forse non è granché sfruttato sul piano della vita concreta cristiana e della pastorale. Forse a qualcuno fa venire in mente “solo” la messa del primo giovedì del mese o le ore di “adorazione eucaristica” da parte dell’intrepido gruppo vocazionale parrocchiale, con chiaro intento impetratorio. Intendiamoci, sarebbe già cosa molto buona, ma probabilmente si potrebbe esplicitare maggiormente il nesso, in teoria e pure nella prassi pastorale. Evidentemente non potrò non ribadire alcuni punti già sottolineati dalla relazione pastorale di don Tonino, ma ponendomi il più possibile sul piano pedagogico.

 

Pro-vocazione eucaristica

Partiamo da questa premessa: nulla è più pro-vocante dell’Eucaristia. Se, infatti, vocazione cristiana significa accoglienza d’una chiamata dall’alto non semplicemente ad autorealizzarsi secondo una misura umana, ma a pro-gettarsi secondo un disegno divino (la particella “pro” – dal greco pròs – significa “al di là di”, nel nostro caso oltre se stessi e le proprie capacità), nell’Eucaristia avviene proprio questa pro-vocazione: a pensare la propria identità, dunque la vita e la stessa salvezza non …davanti allo specchio (che è sempre mendace, t’inganna, non ti dà, non ti può dare l’immagine vera di te stesso), come un affare strettamente privato, ma passando attraverso il tu, o facendosi carico dell’altro, della sua salvezza. Nel mistero eucaristico, infatti, celebriamo anzitutto quella salvezza che è giunta a noi dal Padre attraverso il sacrificio del Figlio, come un dono ricevuto, dunque, e assolutamente al di là delle nostre capacità; ma nell’Eucaristia celebriamo anche la libertà suprema del Figlio nell’aderire al pro-getto del Padre, che lo chiama a donarsi per l’umanità intera, fino al gesto del dono della vita. Impossibile contemplare o celebrare o partecipare all’Eucaristia senza lasciar risuonare dentro e fuori di sé un appello vocazionale.

Noi andiamo a cercare chissà quali forme e strumenti di animazione vocazionale, e rischiamo di non accorgerci dell’incredibile valenza vocazionale di ciò che celebriamo quotidianamente, specie quand’è celebrata essa stessa come la chiamata d’ogni giorno per chi la celebra!

Ovviamente intendiamo per vocazione non solo la decisione del proprio stato di vita, ma anche quella opzione che ogni credente è chiamato a fare ogni giorno, per vivere fedelmente la sua fede, fino al momento della morte, che sarà il momento decisivo per eccellenza. Forse tutta la vita non è che un’animazione vocazionale permanente che ci prepara alla vocazione della morte, o a vivere la morte esattamente come vocazione (assieme a ciò che normalmente la precede: pensionamento, invecchiamento, infermità, impotenza…). E specifichiamo anche che quando diciamo vocazione pensiamo a tutta la ricchezza delle chiamate che vengono da Dio e rivolte a ogni vivente, non solo, dunque, a qualche vocazione particolare e speciale.

Vediamo allora come l’Eucaristia e il suo mistero possano e debbano giocare un ruolo significativo e decisivo in quest’animazione vocazionale perché risulti davvero pro-vocante, capace di aprire costantemente prospettive nuove e impegnative al credente. E la finiamo di sborracciare eucaristie banali e ripetitive, o “deboli” e precettate (dai genitori ai figli, o dal parroco ai parrocchiani…).

 

Principio pedagogico generale

Ogni pedagogia mira a un fine e intende attivare nella persona un certo tipo di disponibilità, in vista di quel fine. Nel nostro caso, se il fine è costituito dalla libertà dell’essere umano di ascoltare la voce del Dio chi amante e dalla responsabilità di accoglierne la chiamata, un’autentica prassi pastorale eucaristica dovrà far nascere e crescere tale tipo di libertà e responsabilità.

Al punto che se un’Eucaristia non esprime alcun appello, quella non è Eucaristia, è altra cosa, non ben identificata, anche se è stata “una bella messa con una predica interessante (e breve) e un’atmosfera suggestiva”. O, più in concreto, se il credente (e il celebrante per primo) che partecipa all’Eucaristia domenicale non ne esce con una nuova e rinnovata coscienza vocazionale o con la consapevolezza che da quella celebrazione gli è venuto un invito che lo responsabilizza fino a complicargli anche un po’ la vita, quell’individuo non ha partecipato a nessuna Eucaristia, tutt’al più avrà soddisfatto un precetto, mettendosi poi cuore e coscienza in pace, fors’anche troppo…

D’altronde, se davvero vogliamo seguire in questo nostro percorso il metodo mistagogico, ci ha ricordato  prima don Tonino che mistagogia vuol dire che, a partire dalla comprensione dei gesti e delle parole della Liturgia, i fedeli sono aiutati e provocati «a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza»[1]. Potremmo dire che questo è esattamente il principio pedagogico generale, o il criterio attorno al quale va poi fatta la verifica. Che s’esprime a sua volta in una serie d’indicazioni, a livello di catechesi generale dell’evento eucaristico e di suggerimenti pedagogici spiccioli circa la celebrazione dell’evento stesso.

 

Catechesi eucaristica

Catechesi permanente, soprattutto, o parte d’un processo di formazione permanente del credente. Non basta al riguardo il catechismo dell’iniziazione; anzi, dovremmo aver capito finalmente che una causa rilevante dell’abbandono della fede da parte di adolescenti, giovani e adulti è esattamente il mancato nutrimento (o la sua scarsa qualità) della fede adolescente, giovane e adulta, come se la Chiesa fosse un’ottima educatrice di bambini, e poi sempre meno buona educatrice delle successive età. O come se continuasse a dare anche a giovani e adulti un cibo per bambini (come dice Paolo), e non cibo solido e nutriente come sarebbe un certo tipo di catechesi eucaristica. E forse il problema è anche quello, corrispondente o complementare, della mancata (o approssimativa e debole) formazione permanente del pastore (interessanti e inquietanti questi rapporti incrociati). Vediamo allora alcuni punti di questa catechesi eucaristica.

 

Il senso eucaristico della vita (e della morte)

L’Eucaristia, anzitutto, svela il significato della vita umana: nel gesto di Cristo che “prende il pane, lo benedice, lo spezza e condivide” è nascosto il senso dell’esistenza di tutti e di ognuno. Quei quattro verbi sono i verbi della vita, poiché la vita è pane ricevuto in dono e benedetto da Dio, che per natura sua tende a essere spezzato e donato agli altri, e dunque sono anche i verbi della morte, della morte che nasce dalla vita e che genera vita. Ce l’ha ricordato molto bene la riflessione di don Tonino, citando al riguardo il documento del congresso europeo vocazionale.

Di qui due conseguenze.

a) La logica eucaristica

La prima: il senso dell’esistenza è dunque eucaristico. Partecipare all’Eucaristia non è solo culto e adorazione, o tanto meno obbedienza a un precetto, ma celebrazione del senso della vita e della morte, in una tensione insopprimibile tra gratitudine e gratuità. Per questo la messa è al centro della vita cristiana, per questo la partecipazione all’Eucaristia scandisce la settimana e dà un ritmo alla vita, il ritmo della memoria grata che attiva una scelta gratuita (=Eucaristia come rendimento di grazie), o il ritmo della libertà nata dalla certezza dell’amore ricevuto che genera la responsabilità dell’amore da donare (=Eucaristia come banchetto e sacrificio).

Senza questo ritmo cadenzato l’esistenza è priva di senso e di ordine, di dignità e bellezza. Diventa caotica e illogica. Ora, sarebbe da interrogarsi se, nel raccomandare la partecipazione all’Eucaristia o nella stessa liturgia eucaristica, questo senso eucaristico esistenziale appaia davvero come il motivo centrale, ciò che viene subito evidenziato e “celebrato”, trasmesso e consegnato a chi vi prende parte.

b) O il precetto che obbliga o l’appello che chiama

Seconda conseguenza: in quei quattro verbi riconosciamo non solo Gesù e la sua storia, ma anche la nostra piccola storia, la personale vocazione, quello che ognuno è chiamato a essere e fare nell’oggi della sua vita. Dunque già questa sottolineatura appare subito come vocazionale, o come qualcosa che fa’ immediatamente emergere la valenza vocazionale della messa. E la domanda è sempre la stessa: è immediatamente evidente questo senso vocazionale costitutivo dell’Eucaristia nelle nostre eucaristie? Forse si potrebbe addirittura arrivare a dire che abbiamo tanto più bisogno di ricorrere alla categoria del precetto (categoria, dal punto di vista psicologico, estremamente debole), per sostenere l’importanza della Messa domenicale e della partecipazione a essa, quanto meno sappiamo evidenziarne l’intrinseca struttura vocazionale.

 

 

La Messa come festa e come dramma

Altro contenuto fondamentale d’una autentica catechesi eucaristica è il rapporto tra la dimensione della festa e del dramma (o tra banchetto e sacrificio) che è parte del mistero eucaristico (mistero nel senso di punto centrale che tiene assieme polarità apparentemente contrapposte) e che dovrebbe caratterizzare ogni celebrazione. Sembra che oggi ci siamo accorti improvvisamente che la Messa non è più una festa né è granché godibile, e allora stiamo cercando di rincorrere freneticamente questa dimensione, magari anche con un po’ d’ingenuità (non bastano le chitarre per render gioiosa la messa) e a volte con trovate di dubbio gusto e anche un po’ eccentriche (vedi quel prete che al posto dell’omelia fa suonare un violino…), perché una messa triste non può far memoria del gesto d’amore di Cristo.

Ma forse corriamo un altro rischio, quello di oscurare o dimenticare un’altra importante dimensione, quella del dramma che dovrebbe caratterizzare ogni celebrazione, anzitutto perché memoria della Passione dolorosa del Signore, perché è “grazia a caro prezzo” (Bonhoeffer) se è costata il sangue del Figlio, e poi, ma in maniera del tutto conseguente con quanto appena detto, perché è impossibile celebrare tale memoria senza sentircisi coinvolti in prima persona, senza avvertire l’esigenza di fare altrettanto, di prendere una decisione libera perché altrettanto dettata dall’amore, quale solo il soggetto può prendere in quel momento preciso della vita, cioè una decisione sempre nuova e sempre più radicale, proprio perché fondata sul gesto eucaristico di Cristo.

a) I due “Amen”

D’altronde quando il fedele risponde “Amen” al momento di fare la comunione, esprime proprio questa consapevolezza: quella di nutrirsi d’un corpo spezzato e d’un sangue versato, più che d’un corpo glorioso, corpo e sangue che chiedono e danno la forza di fare la stessa cosa con la propria storia. E questo rende drammatica la vita e ogni Eucaristia.

Diventa allora pedagogicamente importante connettere i due grandi “Amen” della celebrazione eucaristica: quello che, come ci ha ricordato don Tonino, sigilla da parte dell’assemblea la preghiera eucaristica e che, al dire di S. Girolamo, dovrebbe avere il fragore di un tuono (bellissima l’immagine!), e quello col quale il singolo credente esprime anzitutto la consapevolezza di trovarsi dinanzi al corpo immolato del Figlio, dal quale sgorga la salvezza, e in secondo luogo manifesta la volontà di entrare nel suo stesso dinamismo d’immolazione, nutrendosi di quello stesso corpo, ovvero identificandosi con lui o lasciando che tale nutrimento lo renda progressivamente simile a lui, lasciandosi dunque in qualche modo “spezzare” da quel corpo spezzato[2].

Questo secondo “Amen” è connesso al primo, e la connessione dev’esser resa evidente, così come la gratuità è connessa alla gratitudine ed è autentica e credibile solo quando è conseguenza d’essa; il primo “Amen” deve risuonare corale, come espressione della gratitudine comune per la salvezza ricevuta, il secondo “Amen” è del singolo, ma è nondimeno forte e sicuro poiché dovrebbe esprimere la volontà del singolo di assumere un ruolo attivo e coerente nel mistero della salvezza. Se vogliamo, il primo dice la festa, è una esplosione di gioia, il secondo esprime il dramma del sacrificio e la partecipazione a tale dramma, ovvero la vocazione, o la vocazione si trova alla confluenza d’entrambe.

b) Comunione e vocazione

Festa e dramma (o banchetto e sacrificio) sono le due dimensioni naturali della messa, l’una illumina l’altra, come le due facce complementari della stessa realtà in prospettiva vocazionale, e dunque devono restare assieme ed esser “celebrate” in ogni messa. Se la festa è senza dramma, la messa è solo rappresentazione commemorativa e gratificazione sentimentale o estetica, d’un estetismo vuoto e sterile; se il dramma è senza festa, la messa non celebra l’amore, è solo rito, e la decisione del singolo si fa sempre più improbabile e difficile. Sarà importante, allora, in una genuina catechesi eucaristica, presentare in questa luce adulta il senso della comunione, uscendo da tutte quelle forme di devozionismo e intimismo, ma anche di banalità e superficialità che rischiano di oscurare completamente la valenza vocazionale del nutrimento del corpo spezzato e del sangue versato.

Ne guadagnerebbe la serietà del gesto stesso, recuperato al proprio significato autentico, e non più considerato come un optional (tutt’al più legato a condizioni di purità personale, ovvero all’esigenza di confessarsi prima, come fosse un premio più che assunzione di responsabilità, punto d’arrivo più che di partenza); e ne guadagnerebbe la stessa animazione vocazionale, ricondotta alle sue sorgenti, per così dire, alle sue motivazioni di fondo, ove la provocazione risuona alta e pure stringente, personale e pure universale.

 

 

Messa domenicale e senso del tempo

Questa sottolineatura è legata in particolare alla celebrazione eucaristica domenicale, il primo giorno della settimana, giorno del Signore. È fondamentale che la messa riesca a dire un senso nuovo del tempo, oltre certe concezioni e prassi deformanti.

a) Tempo libero e rivendicato

C’è oggi in giro un’idea banale di tempo libero, da gestire (e sprecare) soggettivamente, come un diritto del tutto privato, che non tiene conto d’alcuna appartenenza, come il tipo che la domenica si abbandona al divertimento sfrenato o all’inerzia assoluta; oppure è il caso del credente che rivendica la libertà di avere con Dio un rapporto personale, sganciato da ogni ritualità comunitaria, “io vado in chiesa quando mi sento, anzi, preferisco esser solo, mi dà fastidio la presenza di altri…”.

Spesso dunque il tempo libero diventa anche tempo rivendicato, da parte di chi sente il proprio tempo comunque sottratto alla propria libertà, e di cui si vuole riappropriare, sfogandosi, a volte senza limiti, negli spazi domenicali.

b) Tempo subìto e schiavizzante

Altra concezione impropria del tempo è quella del tempo subìto, scandito da un obbligo, chiuso e soffocato nei suoi spazi, regolato dal senso del dovere nei confronti d’un lavoro da portare avanti o da un impegno magari contrattuale preso con altri, o più banalmente regolato da un controllo (vedi il cartellino da timbrare). Per molti questo è il tempo settimanale, tempo scandito dal lavoro e da un lavoro sentito come opprimente e limitante la propria libertà, o tempo da condividere forzatamente con persone che non si sono scelte, anche queste in qualche modo subìte; oppure, in riferimento al nostro discorso, è il caso della messa diventata obbligo o solo precetto, messa subita e sopportata per far piacere a qualcuno o per evitare sensi di colpa.

Chi vive il tempo così rischia, senz’accorgersene, di diventarne schiavo; parte, infatti, con la presunzione d’esser padrone del proprio tempo e finisce per …non aver più tempo, o per invertire la logica sapiente di certe alternanze naturali, come quelle, ad esempio, tra lavoro e riposo, tra giorno e notte, tra giorni feriali e festivi.

c) Tempo ricevuto e donato

La Messa domenicale dovrebbe introdurre una nuova idea di tempo, di tempo donato, quello, in concreto, che non deve rigidamente fare i conti con l’orologio; è il tempo festivo, creativo, ma anche creaturale, distensivo…, tempo ricevuto in dono da Dio e da metter liberamente a disposizione degli altri, o da vivere assieme agli altri, esprimendo in modo significativo la propria appartenenza, dando spazio e respiro liberatorio a ciò che non è possibile fare durante la settimana e che pure esprime la propria identità. È il contrario del tempo libero-rivendicato o del tempo subìto, e di cui uno diventa schiavo. Il tempo donato esprime una logica contraria a quella della rivendicazione, poiché è la logica di chi non si sente padrone del proprio tempo, ma lo riceve anzitutto come dono, fondamentalmente, pur dentro una misura limitata quale è la sua vita, e dunque avverte anche tutta la responsabilità di farne un uso corrispondente. Se lo ha ricevuto, ancora una volta, ora lo dona o lo condivide, in libertà di spirito.

Questa è una logica o idea che è fondamentale sul piano vocazionale, perché è in connessione con la logica vocazionale eucaristica, e perché al tempo stesso la promuove, o promuove progressivamente l’idea di fare della propria vita esattamente un tempo libero, ricevuto e poi dato in dono, senza limiti né contratti, secondo la generosità e fantasia dello Spirito.

In concreto, sul piano pastorale-pedagogico, la messa dovrebbe esser concepita e celebrata come questo spazio libero e creativo, senza l’eccessiva preoccupazione (o schiavitù) dell’orologio, senza schematismi troppo rigidi e impersonali (es. le preghiere d’intercessione già confezionate da altri e da tirar fuori dal frigo pronte-per-l’uso), oltre la logica del precetto e del rito che si ripete sempre uguale, e come invece appuntamento inedito con Dio e coi fratelli, nella storia e nel tempo, ma oltre la storia e il tempo.

Ecco perché non possiamo vivere senza Domenica, perché non possiamo vivere senza questo tempo. Ma la Messa lo deve esprimere o dev’esser celebrata entro questa concezione del tempo.

 

 

La Messa come espressione vocazionale (vocazione e vocazioni)

Se vogliamo che la Messa sia momento importante d’una più generale prassi pastorale vocazionale, occorre che mostri già al suo interno un coinvolgimento globale di tutta l’assemblea secondo le varie ministerialità di cui dispone. Sarebbe contraddittorio e inefficace il messaggio vocazionale, magari esplicitamente sottolineato, di una celebrazione eucaristica gestita totalmente ed esclusivamente dal prete-faccio-tutto-io, che non dà spazio alle varie espressioni vocazionali che arricchiscono la comunità e che lui dovrebbe promuovere. Nella messa ognuno deve poter esprimere il proprio dono e servizio “per l’utilità comune”, dal lettore al corista, nessuno deve poter “assistere” come spettatore passivo o fruitore anonimo del sacro rito. Come mai, allora, la recente indagine commissionata dalla CEI ha rilevato che circa il 34% degli abituali partecipanti alla messa domenicale s’annoia mortalmente a messa, mentre sembra inarrestabile il calo della partecipazione giovanile alla messa, cioè di coloro che potrebbero esser la parte più attiva? [3]

“Colui che presiede la celebrazione – dice un commento della Nota Pastorale dei Vescovi italiani[4] – è chiamato a rendere sensibile nell’assemblea la presenza di Cristo e a coordinare, tramite il ministero della sintesi, tutti gli altri animatori: egli veglia sul dinamismo dell’insieme; ha cura di mediare i testi e i riti offertigli dai libri liturgici; è attento a che ogni animatore dia il meglio di sé nel suo servizio; favorisce l’unità e la comunione tra tutti i membri dell’assemblea…, nel rispetto dei ruoli che egli stesso promuove perché tutta l’assemblea sia veramente ‘celebrante’ quel mistero che la raggiunge e la rinnova”[5].

È davvero da chiedersi quanto tutto questo si avveri in ogni celebrazione. Ovviamente è sempre vero che chi vive bene la propria vocazione favorisce, promuove quella altrui.

 

 

Suggerimenti pedagogici

Vediamo a questo punto qualche suggerimento di natura ancor più pratica, oltre quanto abbiamo già proposto.

 

L’Eucaristia va preparata

Anzitutto va detto a chiare lettere che questo senso eucaristico vocazionale non è così scontato e chiaro per chiunque partecipi alla Messa; dunque ogni Eucaristia va preparata perché questo significato risalti chiaro e inequivoco, con una preparazione remota (la catechesi ordinaria, per ragazzi e adulti) e prossima (la preparazione della messa domenicale nelle sue singole parti, non solo della predica o degli avvisi parrocchiali), con la sottolineatura dei momenti più significativi in chiave vocazionale. Il cosiddetto gruppo liturgico potrebbe proprio avere questo scopo e funzione, e non accontentarsi d’assegnar le letture o decidere i canti. Forse invece di moltiplicare le messe (malvezzo tipicamente italico) non sarebbe il caso di curare la qualità della messa domenicale?

 

L’Eucaristia prepara l’Eucaristia

Se l’Eucaristia va preparata perché evidenzi la sua struttura vocazionale, abbiamo or ora sostenuto, va preparata dal ministro assieme agli animatori liturgici per quanto riguarda soprattutto gli aspetti puramente celebrativi che interessano la comunità intera; ma preparata anche dal singolo credente che prepara se stesso a entrare nella logica eucaristica. In tal senso credo che non vi sia nulla di meglio proprio dell’adorazione eucaristica per preparare la celebrazione domenicale. Come dire: l’Eucaristia contemplata prepara l’Eucaristia celebrata.

Se qualcuno pensa che la ricetta sia antiquata e non possa aver presa, si faccia dire dai sacerdoti, che hanno proposto o stanno proponendo questa forma orante-adorante, quale sia la risposta della gente. È quanto mai interessante notare le varie esperienze di adorazione eucaristica, anche nella forma dell’adorazione perpetua, giorno e notte, che stanno discretamente sorgendo sempre più numerose qua e là. Senz’altro si tratta d’un fenomeno in crescita, se non d’un segno dei tempi. Quei sacerdoti che la propongono sono essi stessi meravigliati della risposta generosa ed entusiasta da parte della gente, che si turna ordinatamente per garantire questo servizio di lode e contemplazione[6]. D’altronde “un mondo senza adorazione è inumano come un mondo senza fratellanza” (card. Daniélou). È un bisogno di preghiera (più che di preghiere) che si esprime nella sua forma più pura e semplice, l’adorazione, il semplice stare dinanzi a Dio, il lasciarsi guardare e chiamare da lui …, per esser sempre più come il Figlio prediletto, corpo spezzato e sangue versato. Ogni vocazione ha radici adoranti!

Allo stesso modo, o applicando il medesimo principio, potremmo dire che nulla come l’allenamento quotidiano ad ascoltare la Parola (meglio se quella del giorno), dispone ad ascoltare la Parola proclamata nell’assemblea domenicale, per coglierne il senso vocazionale. Insomma la messa domenicale non può restare confinata in uno spazio lontano dalla vita o diventare come una meteora: è punto d’arrivo d’un cammino e punto di partenza d’un altro.

 

Qualche suggerimento più specifico

Vediamo ora qualche indicazione pedagogica in relazione ai quattro momenti classici della celebrazione eucaristica: rito d’accoglienza e atto penitenziale, liturgia della Parola, liturgia eucaristica, comunione e invio. Senza alcuna pretesa di dire cose nuove potremmo ricordare il principio generale pedagogico e insistere sul fatto che la messa, idealmente ogni Eucaristia, dovrebbe suscitare una coscienza vocazionale, nelle sue fasi di accoglienza dell’appello e poi di risposta a esso.

a) Rito d’accoglienza e atto penitenziale

Sono molto belle le formule di saluto iniziali previste dal Messale, belle perché mettono in evidenza l’accoglienza che Dio fa di ciascun presente, ma perché non sottolineare che prima ancora dell’accoglienza c’è stato un invito, una chiamata, un appuntamento, una con-vocazione da parte dello stesso Dio, cui il fedele sta rispondendo positivamente con la sua presenza? Perché usiamo così poco locuzioni vocazionali come “il Dio-che-chiama”, il “Dio della chiamata”, la “grazia della vocazione”?

Tra l’altro questo introdurrebbe correttamente il rito penitenziale, o gli darebbe contenuti facili da personalizzare, come un invito a cogliere le chiamate del Signore (attraverso le varie mediazioni e situazioni della vita) rimaste senza risposta, particolarmente durante la settimana. C’è un esame di coscienza vocazionale (con relativi “peccati vocazionali”) che potrebbe almeno ogni tanto esser proposto all’inizio dell’Eucaristia, dandole un corrispondente tono vocazionale.

b) Liturgia della Parola (letture bibliche e omelia)

Don Tonino ha già detto cose molto belle e originali circa l’ambone, segno del santo sepolcro dal quale l’Angelo fa l’annunzio della resurrezione. Basterebbe questa intuizione o questa immagine per far comprendere ai nostri “lettori” l’importanza del loro ministero e l’esigenza di farlo in modo accurato, ovvero soprattutto lasciando che questa Parola risuoni prima nel loro cuore e mente. “La Parola di Dio è Dio che ci dice parole d’amore nel segno della Sua Parola”[7]. Ma la Parola d’amore è sempre anche, per natura sua, Parola-che-chiama, rivelazione del Dio chi-amante. Nessuno può proclamare agli altri quanto prima non ha proclamato a se stesso e digerito-metabolizzato, o da cui non s’è lasciato “chiamare”.

Decisivo il ruolo dell’omelia in una Eucaristia che voglia evidenziare la sua struttura vocazionale. È infatti proprio nell’omelia e attraverso di essa che la Parola ascoltata, e poi il gesto sacramentale, possono assumere il valore di segno per il singolo fedele, con tutta la sua carica pro-vocante e drammatica.

Che suscita una risposta, o mette il credente dinanzi alla sua propria responsabilità, senza lasciargli scampo. Se un’omelia non fa questo, se non sollecita il credente che ascolta a porsi in questo atteggiamento, è semplice svago discorsivo e inutile esibizione di cultura, magari con derive moralistiche o devozionistiche.

L’esempio più espressivo d’omelia vocazionale è la predica di Pietro il giorno di Pentecoste, che provoca una reazione ben precisa in chi lo ascoltava: «All’udire tutto questo, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (Atti 2,37). Se alle nostre omelie nessuno si sente trafiggere il cuore né è provocato a chiedersi cosa fare, vuol dire che siamo riusciti nell’impresa poco eroica di svuotare Parola e rito della loro valenza vocazionale. È impresa in cui, a quanto pare, molti preti riescono di domenica in domenica, magari quelli che si lamentano della poca generosità vocazionale dei giovani d’oggi…

Ancora sul piano pedagogico può esser utile quanto ci ricorda la moderna psicopedagogia della comunicazione, che un discorso efficace e che vuole giungere integro al destinatario deve osservare tre regole o tre verbi:

semplificare, cioè aver chiaro, chiarissimo quel che si vuol dire, riducendo a una sola l’idea, la provocazione, l’esortazione che vuole comunicare, e scegliendo un linguaggio che l’ultimo della comunità (in termini di capacità di comprensione) possa capire;

personalizzare, che significa procedere non per teorie, ma per esperienze; non intellettualizzare ma raccontare storie per aggiungere all’intelligenza il sentire, il gioire, il patire; non cercare sempre e solo esempi edificanti chissà dove, ma aver il coraggio di coinvolgersi personalmente nel raccontare il proprio vissuto o comunque il frutto della propria esperienza;

drammatizzare, che vuol dire immettere nella comunicazione lo stimolo a decidere e ad agire, come responsabilità che viene affidata al singolo ascoltatore e che non può esser delegata.

c) Liturgia eucaristica

Si portano all’altare i doni e mediante la preghiera di benedizione e invocazione del Sacerdote, nella forza dello Spirito Santo, il Signore viene a rendere veramente presente in quel pane e in quel vino il Suo Corpo e il Suo Sangue. Insomma nel sacrificio eucaristico avviene un fatto reale, una trasformazione non fittizia o simbolica, ma allora reale deve essere anche la partecipazione del fedele nel senso dell’offerta di qualcosa di sé e della sua propria vita. Troppo comodo portare all’altare le ampolline e la pisside, magari con un mazzo di fiori e il cosiddetto segno (a volte anche un pochino stravagante). La Messa non è un teatrino che si ripete sempre uguale. Né si vuol dire con questo che ognuno debba arrivare in chiesa con chissà cosa per esibirlo e offrirlo al momento dell’offertorio.

Vogliamo sottolineare che è indispensabile che il celebrante richiami con forza il senso del realismo della partecipazione eucaristica, poiché tutti i partecipanti sono in qualche modo “concelebranti” con Cristo; dunque è impossibile partecipare all’offerta che Cristo fa di sé senza offrire qualcosa della propria vita, o senza celebrare la vita, la propria vita, all’interno del memoriale della Pasqua del Signore. O senza farsi carico della vita e della fatica di vivere altrui (vedi, ancora una volta, l’uso improprio del foglietto domenicale con le preghiere già prestampate, preparate da altri, senza alcun aggancio con la realtà locale e la storia reale…).

Purtroppo la grande maggioranza di chi santifica la domenica con la Messa, “assiste” solo alla Messa stessa, come dicevamo prima, braccia conserte, sguardo assente, sbadiglio traditore (e contagioso), occhio all’orologio…, vi assiste da spettatore, si sente già benemerito perché ci viene, è l’immagine del …consumatore di messe (o di redenzione garantita da un altro): lui piglia, ringrazia e se ne va… Non è cambiato nulla nella sua vita. Né cambierà nulla alla prossima Messa, la prossima domenica: in fondo le messe sono tutte eguali… Il problema non è la scarsa partecipazione quantitativa alla messa domenicale, quanto la bassa qualità di questa partecipazione. Ovvero lo scarso aggancio tra celebrazione eucaristica e vita reale.

d) La comunione e l’invio

Abbiamo già menzionato più sopra il collegamento tra i due “Amen” e il significato in particolare dell’“Amen” della comunione, dinanzi a un corpo spezzato e a un sangue versato. Che sia dunque chiara e precisa la catechesi in tal senso, e dignitoso e non frettoloso anche il rito dell’ostensione dell’ostia al fedele, il quale possa dire il suo “Amen” con la consapevolezza di ciò che significa e che sta facendo, dunque con voce chiara e ferma. Che sia dato spazio e decoro a questo rito, e non venga ridotto a semplice …distribuzione dell’ostia un momento così drammatico, nel senso detto sopra.

Vivere pienamente l’Eucaristia significa allora entrare nella storia della salvezza non solo per ricevere il dono della salvezza, ma per esserne strumento e mediazione, e fare dell’incontro con Gesù morto e risorto la ragione e il modello, la forza e la bellezza di tutta l’esistenza nella Chiesa e per il mondo, manifestando la grazia ricevuta nei gesti eloquenti della carità e nelle parole della fede e dell’amore[8].

Il problema è che, francamente, non mi sembra che il momento liturgico che segue la comunione, possa esser considerato come un rito d’invio, né che vi sia un passaggio evidente ed esplicito dalla comunione alla missione nel rito conclusivo della Messa. Anzi, si ha come la sensazione, nella parte conclusiva del sacrificio eucaristico, di qualcosa d’incompiuto e incompleto, d’un impegno forse annunciato ma che poi resta inespresso come fosse meno importante, d’un mistero che celebra il dono dall’alto, ma senza riuscire a sollecitare sufficientemente la risposta da parte del fedele. La sensazione è che non vi sia alcun invio, insomma, alla fine della Messa.

O, quanto meno, non è chiaro il passaggio dal dono ricevuto all’impegno di vivere il dono per gli altri, forse non c’è neppure se il tutto è affidato a quella piatta classica formula di saluto che conclude la celebrazione. Anzi quel “La Messa è finita. Andate in pace” non ha proprio un tono vocazionale, non invita all’assunzione della propria responsabilità di credente, è …pacifica più che “drammatica”. Tra l’altro, come si può dire realmente, in una logica della messa domenicale che dà un nuovo senso del tempo, come abbiamo specificato, che “la Messa è finita”?

Di fatto, a conferma dell’esistenza del problema, s’è cercato di rimediare qualcosa in tal senso con le formule alternative proposte dal Messale, ma forse si potrebbe e dovrebbe fare di più, ovvero il celebrante dovrebbe provvedere a rendere evidente il nesso tra celebrazione e invio, o tra comunione e responsabilità per la missione. Per cercare di recuperare un significato e un atteggiamento decisivi se si vuol fare del sacrificio eucaristico e della partecipazione a esso un momento di scoperta continua della propria vocazione e di coraggiosa decisione di viverla come il Figlio, immolato per noi, ha fatto.

Sarà qui decisiva, ripetiamo, la creatività del celebrante, e non una creatività generica o semplicemente legata al quoziente intellettuale, ma quella creatività che deriva precisamente dalla personale coscienza vocazionale con cui il Sacerdote celebra la sua Eucaristia. Inutile e persino ovvio dire e ribadire che solo la scoperta della Messa come punto di riferimento o luogo della propria formazione permanente, ove risuona un appello ogni giorno nuovo e inedito, consente al Sacerdote d’interpretare correttamente il proprio ruolo e di …spremere dall’Eucaristia, quotidiana e domenicale, come da un frutto saporoso e maturo, tutta la sua valenza vocazionale per il popolo di Dio!

 

 

 

Note

[1] GIOVANNI PAOLO II, Mane nobiscum Domine, 17.

[2] «La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo – afferma san Leone Magno – non è ordinata ad altro che a trasformarci in ciò che assumiamo. E colui nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati, è lui che diffondiamo, mediante ogni cosa, nello spirito e nella corporeità» (S. LEONE MAGNO, Trattato 63, 7).

[3] Cfr. G. BERNARDELLI, Oltre i numeri una sfida generazionale, in “Avvenire”, 16/XII/2004, p.18.

[4] CEI, Il rinnovamento liturgico in Italia, 1983.

[5] E. PETROLINO, Il Presidente, in “La Domenica”, 19/XII/2004, p.4.

[6] Come, ad es., nella chiesa del S. Cuore a Feltre (Bl), ove circa 270 persone sono attualmente impegnate in un’adorazione comunitaria senza sosta.

[7] B. FORTE, L’Eucaristia e la bellezza di Dio: perché andare a Messa la Domenica? Lettera pastorale per l’Avvento e il Natale del 2004, p.m., p.4.

[8] Cfr. Forte, L’Eucaristia, 4.