N.01
Gennaio/Febbraio 2006

Il nome giovane della speranza

Essere giovani oggi (al di là del fatto che non esistono due storie uguali) significa soprattutto essere in movimento: vivere un’età di mezzo che si fa sempre più lunga, sempre più complessa, sempre più precaria. La dimensione del movimento caratterizza diversi aspetti dell’esistenza, delineando il profilo di un modo originale di esistere come uomini e donne: avere poche certezze, in un mondo caratterizzato da pressoché infinite possibilità; costruire il futuro, in una situazione dai contorni incerti e sfuggenti; essere affamati di relazioni, in un contesto di crescente espansione mediatica e tecnologica…

Il muoversi veloce e un po’ convulso dei giovani ha tutte le apparenze di un vagabondare tra le molteplici esperienze offerte da una società ricca e complessa come la nostra. Per alcuni è certamente così. Per altri, invece – credo la maggior parte – vivere in movimento è quasi essere pellegrini: accettare la provvisorietà e la precarietà non come una condizione transitoria e penosa, ma come fondamentale misura dell’esistere su questa terra, nella certezza (riflessa, intuita o solamente desiderata) che esista una meta per il proprio cammino. Il percorso non è molto lineare: si procede per tentativi ed errori. Come quando si prova un nuovo programma o un nuovo telefonino: chi legge più i manuali? Si impara “smanettando”; le istruzioni (di carta o on line) stanno lì, come refugium peccatorum od ulteriore risorsa per carpire anche le possibilità più recondite dello strumento e del software. A volte la tortuosità è ciò che colpisce maggiormente, affezionati come siamo a quelle belle storie di una volta, dove c’era poco da scegliere, ma si diventava adulti presto e bene. Storie senza troppi tentennamenti; uomini e donne tutti d’un pezzo.

Le vite dei giovani sono spesso fatte di pezzi tenuti insieme a fatica, di ripensamenti e disillusioni, di battaglie vinte e perse… Ma non è questo il procedere del pellegrino? Le uniche due certezze sono per lui la fine della propria stabilità (abbandonata clamorosamente, indossando gli abiti dell’homo viator e lasciando da qualche parte un testamento) e l’esistenza di un punto d’arrivo. Il resto è provvidenza: strade diritte o incerte, sole o pioggia, incontri amichevoli o pericolosi, salute o malattia, vita o morte… Questa condizione di costitutiva incertezza, di perenne movimento, non si giustifica solo per il desiderio del contatto con l’esperienza del divino che la meta rappresenta, ma è un valore in sé. La condizione di peregrinus è purificatrice, santificante, testimoniale. Libera – con fatica – da tutto ciò che non è essenziale, che opprime la libertà della persona; aiuta a scorgere dentro il di sé il desiderio di Dio e la possibilità di esserne incontrato nelle circostanze e nelle persone di ogni giorno di cammino; ricorda a tutti che la vita è un passaggio e che solo la carità, alla fine, rimane. La si vive, a volte, con una certa lieve esaltazione, tipica di chi sente che sta germogliando nella propria esistenza qualcosa di nuovo (per questo l’arrivo ed il ritorno, dopo i primi attimi di esultanza, vengono da molti descritti con parole sottilmente velate di tristezza).

Il pellegrino cammina immerso nella speranza. Il possesso della fede è incerto: alcuni la cercano, altri la riscoprono. La carità è messa alla prova dalle necessità e dalle fatiche, che a volte fanno emergere prepotentemente l’istinto d’autoconservazione. Ma se manca la speranza ci si ferma o si torna indietro. Camminare richiede ed esprime la virtù della speranza. È quasi un suo secondo nome. Il movimento è forse – oggi – il nome giovane della speranza.

L’incessante dinamismo dei giovani è un volto nuovo, moderno, della speranza. Nella complessità e nella vasta gamma di possibilità sempre disponibili alla decisione individuale, ogni scelta, infatti, appare incompiuta, rimanda ad un ulteriore cammino da fare, porta con sé la nostalgia dei tanti altri percorsi scartati. Non esiste più alcuna opzione percepita come definitiva, che metta la parola fine al movimento dell’esistere. I giovani non si sentono mai “sistemati” (massimo anelito di mamma e papà). Se la speranza è attendere ciò che non si vede (cfr. Rm 8,24-25), questa generazione è messa in condizione di dare dei punti a parecchie di quelle che l’hanno preceduta.

Scompaiono quindi la stabilità, la fedeltà, la perseveranza? Piuttosto si trasformano: non basta ai giovani aver scelto semel pro semper. La stabilità è saper mantenere la rotta giusta riorientandosi continuamente; la fedeltà è riscegliere ogni giorno la medesima vocazione in modo nuovo; la perseveranza si sposa con la creatività, cioè la capacità di esprimersi in maniera sempre originale, rimanendo se stessi. Per chi vive la speranza come movimento, il più bello deve ancora e sempre venire. In questa prospettiva, tutte le scelte di vita sono certamente esposte a rischi maggiori che in passato, ma usufruiscono anche di maggiori opportunità per dar luogo ad esistenze originali e preziose. Assistiamo a molti naufragi, a volte dalle conseguenze disastrose, ma anche a rotte che lasciano con il fiato sospeso, avventure che dicono tutta la bellezza della fantasia, della tenacia e – appunto – della speranza giovanile. E non è detto tale situazione sia peggiore rispetto alla tranquillità dello stare alla fonda in rada o ben attraccati in porto.

Non sfuggirà il fatto che vivere così può essere esaltante, ma è anche molto faticoso. Muoversi nella complessità è difficile: ci vuole un fisico bestiale. Lo prova il fatto che oggi non si assumono più sostanze per sballare, evadere… oggi ci si droga soprattutto per essere all’altezza delle aspettative (relazionali, lavorative, sessuali). Serve una marcia in più: un di più di motivazioni, di consapevolezza, di relazioni, di modelli, d’amicizia, di spiritualità. Chi saprà aiutare i giovani non a fuggire il movimento, creando isole felici o paradisi artificiali (sia pure all’ombra del campanile), ma a viverlo in pienezza, senza smarrire la propria dignità, avrà loro conservato o donato la speranza. Compito decisivo ed esaltante, come intuivano giusto 40 anni fa i padri conciliari: “Si può pensare legittimamente che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (GS 31).