N.05
Settembre/Ottobre 2006

Di fronte al dramma di un amore solitario

Quella dell’amore soltanto umano, esclusivamente naturale, istintivo, carnale, è un’esperienza che inesorabilmente manifesta un’incompiutezza che si rivela come un vero e proprio dramma esistenziale. Dice alla persona che non può vivere senza amore ma non gli dona naturalmente le coordinate per dare volto a quell’amore che è sorgente di vera autentica gioia. La persona umana scopre ben presto che non è abbastanza il modo solo umano di rispondere a questo drammatico bisogno d’amore. 

Dice il limite dell’eros sottratto e scardinato dall’agape. Il Papa, nella sua prima enciclica Deus Caritas Est, ci ricorda al n. 5, con uno splendido passaggio: Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell’eros nella storia e nel presente. Innanzi tutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. 

Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo “avvelenamento”, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza. Ciò dipende innanzi tutto dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e d’anima. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come un’eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore — l’eros — può maturare fino alla sua vera grandezza… Sì, l’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni. 

Ci sentiamo inteneriti di fronte a quest’uomo perché nel DNA della nostra esperienza credente troviamo proprio la buona notizia che risponde al sogno e al bisogno dell’uomo circa l’inarrestabile chiamata all’amore: la buona notizia è Gesù: luce, vita, via, verità, sorgente, dimora dell’amore, per usare soltanto alcune delle definizioni che egli ha usato per presentare se stesso come risposta di vita alle domande dell’uomo. Il testo dell’enciclica di Benedetto XVI intende chiaramente portare l’attenzione sulla dimensione costitutiva del cristiano come colui che ha fatto esperienza dell’amore di Dio e si comprende come “dimorante nell’Agape” (cfr. 1 Gv 4,16). A partire da questa struttura fondamentale propria della fede prende forma la dinamica dell’esistenza e, anche, si fonda la fiducia propria del cristiano nel dare forma alla propria vocazione. Essa non può non comprendersi se non come una storia di amore che si sviluppa attraverso i tempi e le modalità della vita di ciascuno. Alla base della difficoltà a comprendere e vivere il Vangelo della vocazione, accanto alla ben note cause di tipo sociale, psicologico e culturale, la Deus caritas est ne registra una di qualità profondamente teologica: una diffusa debolezza nella coscienza dei credenti a “credere all’amore”, confidando nella promessa di Dio e custodendo quanto ci è stato donato e affidato; una percezione offuscata a comprendere la propria vita in Cristo nell’unità di una storia di amore che tocca Dio e l’uomo. L’Enciclica di Benedetto XVI interpella ancora la pastorale della vocazione nel capitolo dell’educazione agli affetti. Tra la forza imperiosa (e spesso enfatizzata dalla attuale cultura) dell’eros e una certa figura eccessivamente spiritualistica dell’Agape divina, si consuma una subdola opposizione che l’enciclica chiede, in maniera convincente, di ricomporre. L’amore divino è “eros”, tensione di desiderio e di unificazione con l’amato da parte di Dio ed è pienamente “Agape”, dono totale fedele e inesauribile per l’uomo, fino al vertice del dramma divino nella pasqua di Gesù. Così la risposta dell’uomo a Dio si dinamizza nella disponibilità al dono di sé attraverso la pienezza dell’umano, compreso il plesso degli affetti, che indirizza il desiderio umano verso l’unione con il divino. La compiuta forma di questa risposta si lascia apprezzare, sulla scia di quanto Benedetto XVI presenta, come appagamento circa la propria vita e come riconoscimento di essa e della sua preziosità da parte di Dio. Infine l’Enciclica, nella seconda parte, invita a pensare alla testimonianza della carità proponendo l’attenzione allo stile tipicamente cristiano dell’amore e una sua originale spiritualità, che possono rappresentare una permanente forma di educazione vocazionale. Sulla base di questi aspetti il presente numero di “Vocazioni”, si propone di sviluppare un approfondimento in chiave vocazionale della Deus caritas est.

Temi