N.01
Gennaio/Febbraio 2007

Una teologia “matura” della vocazione nella lettera agli Efesini

Dal sì di Cristo e degli Apostoli al sì della comunità

La riflessione della comunità cristiana delle origini sul mistero della voca­zione da parte di Dio ha un suo particolare sviluppo nei testi del Nuovo Testa­mento. Gli autori ispirati si trovano di fronte alla necessità di raccontare il “sì” di alcuni (i discepoli e gli Apostoli), che aveva reso possibile il “sì” della comunità tutta, alla luce del “sì” che Cristo stesso aveva pronunciato al Padre venendo nel mondo (cf Eb 10,5-10). In tal modo essi provocavano il “sì” nel presente, nell’oggi ecclesiale. Il NT mostra una chiara evoluzione sul piano della consapevolezza di cosa e come è avvenuta – e può avvenire – la chiamata, come può essere pronunciato a parole e nei fatti il “sì” della risposta.

Con molta probabilità, il primo modello di racconto di vocazione dei Van­geli fu quello della fonte Q, in cui i vocati prendono l’iniziativa, mentre il vocante appare come colui che prova (Mt 8,19-22; Lc 9,59-62). Poi fu la volta di quello del racconto autobiografico (cf Gal 1,15-24), in cui chi parla narra la propria chiamata e la propria risposta. In una fase che rivela in trasparenza una profonda rielaborazione teologi­ca, frutto della vita della comunità, si trova il modello marciano, in cui Gesù, il Vocante, con parola potente chiede ed ottiene una risposta immediata del vocato (Mc 1,16-20; 2,14). Quindi è la volta del modello giovanneo, in cui il vocato è chiamato tramite la mediazione di terzi (Gv 1,35s).

L’evento narrato viene illuminato dall’esperienza viva della comunità cri­stiana, che entra progressivamente nel mistero della vocazione. Nell’ultima fase, quella del tempo sub-apostolico, si afferma che vi è un progetto elettivo di Dio che chiama il singolo dentro la comunità e per la comunità. Siamo di fronte ad una dimensione unitaria e comunitaria della chiamata[1].

Ciò è evidente nella lettera agli Efesini. Vi è un mystérion (cf Ef 1,9: “il mistero della sua volontà”; ma il termine ritorna in 3,3.4.9; 5,32; 6,19) ossia la eudokía (cf 1,5b), il “benevolo disegno”[2], preordinato (1,4) prima della creazione del mondo (“nei cieli”, 1,3) nella sfera divina; avente in Cristo la sua rivelazione, il suo centro (1,10), la sua pienezza e la sua realizzazione; e nell’annuncio del Vangelo l’inizio dell’opera di ricapitolazione (il verbo è anakepaloióo usato in senso passivo: 1,10.13), che si manifesta nel contesto del vissuto ecclesiale con una straordinaria ricchezza di espressioni (soprattutto nel rapporto tra il capo e le membra: cf 1, 22-23). Il prologo della lettera agli Efesini che, come è stato giustamente detto [3], appare una sorta di sintesi di tutta la lettera, non a caso ha al suo centro, al v. 11, l’affermazione “in lui siamo stati scelti”, un participio aoristo che dice l’esperienza vocazionale del noi ecclesiale e che richiama senza alcun dubbio – come del resto anche il verbo kleróo – un possesso particolare come quello di Israele. Tale visione ricalca esattamente il  modello già individuato nell’AT: vi è un’unica elezione/chiamata di tutto il popolo, nella quale e dalla quale hanno origine le vocazioni particolari (ad es. quelle profetiche). Come nella storia biblica del Primo Testamento, vi è un’elezione di tutto il popolo per una missione particolare [4], nella quale via via prendono corpo vocazioni partico­lari – in genere sono quelle profetiche ad essere evidenziate – allo stesso modo, nella Chiesa di Cristo, vi è una chiamata per tutti, sullo sfondo della quale si stagliano però chiamate individuali, provenienti dunque da un’unica fonte e dirette a ad un’unica foce. Ritornando alla lettera agli Efesini, essa è da collocarsi intorno agli anni ’90, come attesta la maggior parte degli studiosi, ed è quindi uno straordinario sviluppo di scuola, per l’appunto “efesina”, delle lettere autenticamente paoline.

L’indicazione dei destinatari del prescritto (1,1) manca in antichi testimo­ni (tra essi il papiro 46, il codice Vaticano e Sinaitico, ecc.): probabilmente si trattava di una lettera “circolare” diretta a cristiani “paolini” viventi nell’Asia Minore, nella Valle di Lico (Colossi, Laodicea, Gerapoli: cf Col 4,13). Di fatto l’ambiente che si riflette nel testo è quello tipico di una metropoli del I sec. d. C.. Inoltre giudaismo, forse di tipo apocalittico, e gnosticismo, senza escludere anche forme di magia popolare, emergono spesso dai termini usati. La lettera nasce in una città aperta a molteplici sollecitazioni di pensiero e di vita, di fronte alle quali spesso l’autore si sente in dovere di mettere in guar­dia i lettori. È a questa realtà ecclesiale, esposta al disorientamento, che viene rivolto l’invito, da parte dell’estensore, alla ricerca dell’unità ecclesiale, dono della riconciliazione attuata da Cristo, non disgiunto dall’impegno personale verso la maturità umana.

La prima parte della lettera (2,1-3,21), che segue il ringraziamento iniziale (1,3-23), è un’illustrazione del mistero, ossia del progetto divino che si riversa sui gentili attraverso Paolo ed è conclusa dalla dossologia (3,20-21). La seconda parte della lettera (4,1-6,20) volge all’imperativo (sono circa trentasei i verbi in tale modo) l’indicativo salvifico della prima. Il mistero si fa progetto di vita che l’autore esorta a manifestare ed incarnare proprio nelle relazio­ni umane (ad es. tra mariti e mogli, genitori e figli, padroni e schiavi: cf 5,21-6,9).

In questa lettera, definita suggestivamente da alcuni come una “grandiosa teologia sotto forma di comunicazione”[5], la vocazione di Paolo appare quella di apostolo, in quanto prima destinatario, della rivelazione di Dio che non tocca solo la redenzione, ma anche la creazione, in vista della ricapitolazione di ogni cosa in Cristo (3,1-12). La Chiesa, in tutto questo processo, è il luogo in cui già si rende visibile la signoria di Cristo, in quanto in essa giudei e gentili sono già una cosa sola. Essa è, in un certo senso, il capolavoro di Cristo e il modello di ciò che alla fine sarà l’umanità e la creazione tutta, ossia una cosa sola. In Ef 4,4-6 sono elencati sette fattori che uniscono i cristiani: “Un solo corpo e un solo spirito / una sola speranza, quella della vostra vocazione / un solo Signore / una sola fede / un solo Battesimo / un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti”. Una forte sottolineatura unitaria mette in luce la comune vocazione.

 

Una comune vocazione

Come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione (Ef 4,4a).

La vocazione dei cristiani, sia pure in modo incidentale, viene definita dall’autore della lettera, poco prima del passo scelto per la nostra riflessione, secondo tre note qualificanti:

-non individuale, ma comunitaria;

-non basata solo su aspetti umani, ma spirituale (“un solo corpo e un solo spirito”, qui con riferimento ai credenti: cf anche Rm 12,5);

-non solo attestata sul presente, ma volta al futuro, alla speranza, in questo caso intesa come l’oggetto creduto, il poter diventare “corpo glorioso” insieme a Cristo.

È una dimensione unitaria e comunitaria che scaturisce da una ragione di tipo costitutivo, “l’essere corpo di Cristo”, e si prolunga in senso prospettico, ossia il diventare “corpo di Cristo” nella gloria. Prima di tutto viene la comune vocazione del popolo di Dio, poi la vocazione particolare di ciascuno. In questa logica si colloca anche l’azione dell’unico Signore (v. 5), che, elevato sopra ogni creatura, secondo una rilettura che ha tutto il sapore di un midrash del Sal 68,19 (citato al v. 8),  diventa dispensatore di doni alla sua comunità (v. 7.9.11). A partire dalla sua elevazione/trasformazione, il Signore Gesù, principio di unità nella sua Chiesa, diviene anche principio ed artefice della varietà dei doni, delle vocazioni, dei ministeri[6]. Egli riempie di sé la sua Chiesa, ogni persona ed ogni creatura. Seguiamo ora il testo, versetto per versetto:

v. 11: Ed egli diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri. L’attacco richiama la persona del donatore, il Risorto. Il tono enfatico serve a mettere in luce che le vocazioni particolari nella Chiesa non sono designazioni funzionali da parte della comunità, opera di delega, ma al contrario doni fatti dal Cristo alla sua Chiesa.

 

Diverse vocazioni, un’unica fonte

L’enumerazione dei ministeri non è esaustiva, ma esemplificativa. Un con­fronto con altri elenchi presenti nelle lettere paoline appare stimolante[7]:

 

 

1Cor 12,28 Rm 12,6-8 Ef 4,11
apostoli apostoli
profeti azione di profezia azione di diaconia profeti
annunciatori (evangelisti)
maestri pastori e maestri
operatori di miracoli operatori di guarigioni operatori di assistenza
attività di esortazione
attività di condivisione
funzione di governo attività di presidenza
attività di misericordia
parlare in lingue

 

Dal parallelo risulta che la lista di Ef 4,11 è ridotta al minimo: non vi sono più carismi di natura straordinaria, ma piuttosto quelli ordinari. Pertanto non sorprende anche che il movimento che caratterizzava l’argomentazione delle due prime due lettere, dalla molteplicità dei carismi e ministeri all’unità, qui si orienti in senso inverso: dall’unità alla differenziazione. In ogni caso sono dati alla Chiesa nel suo insieme, non alle singole persone.

Il primo ministero è quello dell’apostolo (apóstolos), che può essere inte­so in senso stretto, come il depositario della rivelazione, a cui è stato rivelato il mistero di Cristo (cf Ef 3,4s), tra cui l’autore colloca Paolo, e come fondamento della casa di Dio ossia la Chiesa (cf Ef 2,20), sia anche in senso lato come inviato della comunità, a cui compete l’annuncio del Vangelo (cf At 6,2.4).

Il secondo è quello del profeta (prophethes), ossia di colui che parlava agli uomini per la loro edificazione (cf 1Cor 14,3), una presenza costante negli elen­chi (cf 1Cor 12,28; Rm 12,6), tipica del carismatico per eccellenza (cf Didaché 11).

Il terzo è quello dell’annunciatore (alla lettera “evangelista”, euangelistes) ossia colui che proclama l’evangelo fuori dalla comunità (cf Ef 1,13; 2,11-12; 3,6.8), e spesso seguiva gli apostoli nell’evangelizzazione (cf 2Tm 4,5; At 21,8).

Infine è posto insieme il ministero del pastore (poimen) e del maestro[8] (didáskalos). Il fatto che i due termini si ritrovino accoppiati non fa riferimento a diversi ministeri (il termine “maestro” ricorre solo in At 13,1; 1Cor 12,28, Gc 3,1; mentre quello di “pastore” è qui un hapax per indicare la responsabilità ecclesia­le), ma a due diverse funzioni assommate nello stesso ruolo, che è di guida e che si qualifica nel magistero.

Altre funzioni (vescovi, presbiteri, diaconi: cf Fil 1,1; 1Tm 5,1.2.17.19; Tt 1.5) non sono qui enumerate. Ciò non vuol dire che l’autore le ignorasse, ma che nella sua argomentazione, attenta alla dimensione della Chiesa universale, non sono direttamente esemplificative. Da tale quadro emerge una situazione eccle­siale post-paolina molto più istituzionalizzata, per certi versi come nelle lettere pastorali. La lettera rispecchia una particolare situazione ecclesiale: il passaggio dalla generazione apostolica a quella sub-apostolica, ove il problema è sia quello delle Chiese locali, in cui gli Apostoli hanno messo in piedi le strutture necessa­rie, sia quello dell’unità della fede nella Chiesa universale[9]. I soli ministeri elenca­ti sono quelli che hanno, però, un rapporto diretto e vivo con il Vangelo, ed esplicitano l’annuncio del mistero. Il soggetto operante è Cristo, che dona uomi­ni alla sua Chiesa, suo corpo, e che fa entrare altri uomini nella conoscenza del mistero.

 

 

Diverse vocazioni: un’unica foce

Ma sorge spontanea la domanda: in quale direzione vanno tutti questi mi­nisteri?

v. 12: per la preparazione dei santi in vista dell’opera del servizio, al fine di edificare il corpo di Cristo.

Il versetto è composto, alla lettera, di tre parti:

1. per la preparazione dei santi;

2. per l’opera del servizio;

3. per l’edificazione del corpo di Cristo.

Si tratta di tre sintagmi che di fatto possono essere letti in parallelo o in serie. È presumibile che indichino tre finalità espresse da una catena preposizionale, tipica dello stile dell’autore, attaccate al medesimo verbo[10].

Il primo termine, katartismós, è hapax legomenon in tutto il NT; il secondo termine, diakonía, non si trova mai senza specificazione, di conseguenza appare difficile interpretarlo; il terzo termine, oikodome, richiama la metafora edile, usata in senso ecclesiologico (anche in 1Cor 14,12; 2Cor 13,10).

Non si tratta qui di contrapporre e separare la massa dei fedeli da una classe superiore di ufficiali della Chiesa, come qualche commentatore ha det­to[11], né di indicare una generica frattura tra ministri (attivi nella Chiesa) e fedeli laici (passivi), ma di cogliere la diversità della funzione in vista di un’unica meta comune. I ministri, precedentemente indicati, sono costituiti per prestare la loro opera, che è quella di formare i cristiani (“i santi”) in vista dell’edificazione del corpo di Cristo.

Anche leggendo i termini “a cascata”, come se fluissero l’uno nell’altro, è chiaro che l’accento cade sull’ultima azione, come se l’imprecisione delle prime due fosse diretta a lasciar emergere, per la sua spiccata importanza, l’ultima. La diversità delle funzioni, soprattutto quelle che ineriscono al mistero, nucleo centrale della lettera, ha rilevanza cristologica ed ecclesiale. La metafora corpo­rale serve poi a combinare le dimensioni dell’unità e della crescita. Tutto provie­ne da Cristo e tutto in qualche modo è diretto a quest’unico principio unificatore ed unificante.

v. 13: sino a che noi perveniamo tutti insieme all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, alla misura della statura della pienezza di Cristo.

Per indicare la foce verso cui tendono tutti i ministeri nella Chiesa, ancora una volta l’autore utilizza tre sintagmi preposizionali paralleli, retti da eis. Essi rispondono alla domanda: “Verso dove?”.

La prima specificazione è “la via della maturità”[12], ossia l’unità della fede, obiettivo primario del ministero: far crescere tutti insieme nella fede e nella conoscenza. Per l’autore della lettera “la conoscenza del mistero” è parte inte­grante del percorso del credente. In Ef 1,17-23 l’autore auspica che i suoi lettori possano essere riempiti di ogni sapienza per poter comprendere la ricchezza dell’amore di Cristo; e in Ef 3,14-19 ancora augura loro di poter conoscere l’amore di Cristo, che trascende ogni conoscenza. La conoscenza non è un fatto teorico, ma è entrare nel mistero di Dio che si è realizzato in Cristo Gesù.

La seconda specificazione riguarda la misura di questa maturità, ossia lo stato di uomo perfetto a cui bisogna giungere. Il verbo katantáo sembrerebbe alludere all’incontro nella parusìa con Cristo (nella linea anche di 1Ts 4,13-18), oppure, secondo altri, alla crescita della persona nella maturità ecclesiale[13].

La terza specificazione, del tutto ridondante, parla di “pienezza (plóeroma) di Cristo”.Che cos’è questa pienezza? La Chiesa è la pienezza di Cristo, totalmente riempita da lui (cf Ef1,23), ma è contemporaneamente in cammino verso la perfe­zione di tale pienezza (cf 3,19; 4,13).

Di fatto la pienezza di Cristo è un paradosso, in quanto è una misura che non conosce misura. Si vuole, però, sottolineare che “non si dà vera crescita, senza che la fede e la conoscenza di Cristo siano quelle di tutta la Chiesa”.

v. 14: affinché non fossimo più come bambini sballottati e portati in giro da ogni vento di dottrina per la frode degli uomini, per mezzo dell’inganno degli uomini e della malizia (che porta) alla perfidia dell’errore.

Ci viene ora offerta una riformulazione in negativo della finalità delle diver­se vocazioni, attraverso la duplice metafora dell’infanzia e della barca sballottata dal vento.

La prima immagine pone l’accento sulla dimensione di agitazione e di instabilità dei bambini (nepioi: cf anche 1Cor 3,1; 13,11; Gal 4,3), condizione tipica di chi non è radicato né maturo nella fede e di conseguenza attratto da ogni novità, da “ogni vento di dottrina” (cf 1Tm 4,1; 2Tm 4,3s; Tt 1,10-14); anche la seconda immagine pone l’accento sull’analoga condizione del battello esposto ai capricci dei venti.

Pur provenendo da campi semantici diversi, il messaggio è lo stesso, di fronte a dottrine diverse che possono disorientare i credenti: essi non devono essere come bambini, inesperti e quindi facili prede di inganni da parte di altri predicatori (forse per l’autore sono gli stessi della lettera ai Galati, ossia giudeo-­cristiani ancora legati alle osservanze giudaiche), ma radicati nella verità dell’insegnamento ricevuto.

v. 15: Ma, dicendo la verità nell’ amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo.

Ora ci viene offerta una riformulazione in positivo della finalità. In cosa consiste il dire la verità? Difficile capire con sicurezza a cosa Paolo voglia alludere. Il verbo aletheúein significa “dire la verità”, ma anche “fare la verità”. In questo secondo senso si tratta di un semitismo molte volte riscontrabile an­che a Qumran, per indicare un impegno di vita (cf 1QS 1,5; 5,3; 8,9). Del resto anche la scuola giovannea va in questa direzione, quando invita a “camminare nella verità” (1Gv 1,6). Si tratta di dire la verità (cf Ef 4,25), ma in senso asso­luto, ossia annunciando “il vangelo della verità”; annunciare integralmente la “verità” che è il Vangelo, ossia il Cristo.

Dall’ortodossia non può però essere disgiunta l’ortoprassi, ossia l’amore (l’agápe).

La verità (ossia il vangelo di Cristo) e l’amore (ossia la testimonianza del vangelo nella vita concreta): queste due dimensioni irrinunciabili fanno cresce­re davvero la comunità nella sua vocazione, che è racchiusa nel dinamismo, sot­tolineato dalla preposizione eis, e la conducono verso il suo capo che è Cristo. Verità e amore, come ha ricordato anche il Papa a Verona, aiutano la comunità cristiana a vivere la vocazione comune, che è l’amore a Cristo, l’unione piena con lui.

Il v. 16 non fa che specificare tutto questo: dal quale tutto il corpo, reso compatto ed unito da tutte le articolazioni che alimentano ciascun membro secondo la propria funzione, cresce integralmente, edificandosi nell’ amore.

Il movimento di ritorno a Cristo viene esplicitato in quest’ultimo versetto, attraverso uno stile carico e concettoso, che procede per accumulo di procedi­menti semantici e sintattici[14]. L’autore ribadisce l’unità del corpo (che richiama la comune vocazione), la sua articolazione (che richiama la diversità dei ministeri) e la crescita contrassegnata dall’amore. Se la Chiesa è un corpo organico, essa si contraddistingue per la compattezza e l’unità delle sue articolazioni, in cui ognuna può crescere per mezzo dell’amore che circola tra le sue parti. L’immagine dice molto bene che l’unità viene da Cristo; nello stesso tempo ribadisce la natura della relazione tra le membra e la vitalità delle medesime. L’amore di Cristo la sostiene e l’alimenta, senza lasciare che nessun membro vada perduto. Mistica­mente, la vita del capo circola nelle membra e le membra, se sono pervase dall’amore che tutto tiene insieme e rafforza, possono crescere e prosperare.

In conclusione, in modo mirabile, anche se a prima vista complesso, questo passo unisce insieme cristologia ed ecclesiologia nell’immagine del corpo di Cristo; e nello stesso tempo unità e varietà delle vocazioni, così come dimensio­ne mistica ed etica.

 

 

Una vocazione per le vocazioni: il presbitero

Anche noi, alla luce di Ef  4,11-16,  siamo chiamati a riflettere sulla di­mensione vocazionale comune della Chiesa, sul modello del popolo di Dio dell’AT, così come discende dalla relazione strettissima tra Cristo/capo e la Chiesa/suo corpo. Non si può separare il suo mistero da quello di Cristo, così come non si può separare Cristo dalla Chiesa. Le due realtà, nella loro dimen­sione misterica, sono profondamente intrecciate. Noi crediamo al Cristo che la Chiesa riconosce e ama come suo Signore e sposo, come principio unificatore ed animatore della sua realtà[15]. Una Chiesa senza di lui sarebbe non solo povera di vocazioni, ma depauperata della sua stessa vocazione, della sua ragion d’es-sere. Grazie a lui, nel suo mistero, noi siamo chiamati alla speranza che è vivere con lui, morire – se è necessario – con lui, regnare per sempre con lui. Più la Chiesa tende verso di lui e più in qualche modo realizza se stessa (cf Ef 4,32-5,2).

Questa sottolineatura invita ad una seconda riflessione: non possiamo par­lare di vocazioni, come quelle elencate nella lettera o altre, quelle identificabili nel vissuto ecclesiale del nostro tempo, in modo particolare il ministero sacerdo­tale nel suo triplice grado, senza tener presente la comune vocazione in cui si inscrive e il fine a cui è ordinato. Come ci viene richiamato, infatti, nel passaggio centrale (al v. 11), la vocazione al ministero ordinato è particolarmente volta a far crescere la comune vocazione, l’unica vocazione di tutto il corpo.

Pastori, profeti e maestri all’epoca di Paolo – noi diremmo vescovi, presbi­teri e diaconi – sono chiamati, nel loro diverso grado sacerdotale, a far crescere tutto il popolo di Dio. Non esistono per sé e non sono giustificati se non dall’im-pegno alla realizzazione della comune vocazione, che è quella di essere tutti insieme corpo reale del Signore, che si avvia camminando nell’amore e nella verità a diventare corpo glorioso del Signore. Inoltre, come ci ricorda l’autore della lettera agli Efesini, il pericolo dell’inquinamento della verità resta in ag­guato anche nelle nostre comunità: le armi seduttrici dell’inganno, che vanno a confondere e dividere la Chiesa, sono più che mai agguerrite.

Il ruolo del presbitero appare, dunque, proprio alla luce delle sollecita­zioni del passo esaminato, come quello di colui che è chiamato a divenire, sul modello di Gesù, testimone della verità evangelica, anche quando essa appa­re scomoda e difficile da essere accolta dall’ambiente circostante. Non pos­siamo e non vogliamo credere che la verità si debba imporre, in quanto essa splende da sé, affascina il credente e attira ogni uomo. Ma in un’epoca di dubbi e di veleni, il presbitero è chiamato ad essere “facitore di verità”. Questo richiede un’attrezzatura culturale e teologica, ma soprattutto spiri­tuale: si tratta cioè di sintonizzarsi sulle frequenze di Cristo, per trasmettere a livello testimoniale la sua Parola di salvezza e provocare l’esperienza di lui attraverso i Sacramenti. Gli strumenti di questo processo di testimonian­za della verità devono essere, prima che le arti dell’argomentazione, quelle dell’amore. L’amore cristiano rende credibile anche la verità teologica e spirituale della nostra predicazione, apre il varco all’incontro e al confronto leale ed ospitale, non freddamente accademico, ma fraternamente accoglien­te; sgombra il campo dalle elucubrazioni soggettive e fa da ponte all’espe-rienza autentica del Dio-Amore che sorprende e conquista.

Il presbitero è chiamato ad assumere questo alto profilo di magisterialità, limpida e gratuita, per poter rispondere alle necessità del nostro tempo e poter così aiutare ogni membro della comunità a ritrovare la propria vocazione nella comune vocazione alla speranza promessa dal Signore. Il ruolo insostituibile del sacerdote, guida e servo della verità nella comunità, non oscura la vocazio­ne comune di tutto il popolo di Dio, ma al contrario la educa, le è di aiuto nel manifestarsi dentro e fuori dell’alveo ecclesiale.

Tra gli aspetti del ministero di verità che la funzione presbiterale porta con sé non possiamo dimenticare il ministero della Parola, che di per sé è fortemente “illuminativo” e capace di proporre a tutto il popolo di Dio i ministeri e i doni che il Risorto fa alla comunità; ed anche il ruolo di aiuto spirituale, non solo nel sacramento della riconciliazione, ma soprattutto nel ministero dell’accompagna-mento spirituale, che rende possibile il discernimento. Nel nostro tempo, molte sono le coscienze turbate che chiedono al presbitero di essere aiutate a fare luce sul senso della propria vita e quindi implicitamente a scoprire, o riscoprire, la propria vocazione di uomini, di cristiani, di chiamati alla santità.

L’assenza del presbitero non è affatto da considerarsi a cuor leggero, quasi funzionale alla crescita o emancipazione del laicato: al contrario, è un impoveri­mento della vocazione comune di tutto il corpo e in particolare del cammino di discernimento delle diverse vocazioni, che lo Spirito suscita nel “campo” del Signore. Se non sapremo lavorare nella giusta direzione, potremmo ben presto notarne le spiacevoli conseguenze. Quelli che il Signore ha costituito per la crescita di tutta la comunità restano testimoni di verità nell’amore secondo un ruolo unico ed insostituibile, che ogni animatore vocazionale, religioso, laico, sposato o presbitero, non dovrebbe mai né nascondere né ignorare, pena la perdita di significato della universale vocazione di ogni battezzato.

Come nel corpo umano, se ogni membro cresce nella sua giusta proporzio­ne, il corpo cresce nel suo insieme in forma armoniosa ed equilibrata, evitando rischi di deformità, allo stesso modo nella vita della Chiesa non si cresce mai nella propria vocazione sminuendo quella degli altri o, peggio ancora, cambian­do la natura della propria. Ognuno scopre e cresce nella sua vocazione di cristia­no se è aiutato dall’altro, dalla vocazione dell’altro.

In tal senso una rinnovata attenzione alla vocazione al ministero ordinato, come ministero per tutte le vocazioni, appare quanto mai opportuna ed idonea, non per tornare a forme di clericalismo, né solo per rinfoltire le fila, ma perché abbiamo assimilato davvero la logica della verità e dell’amore come stile del cristiano. Al di fuori di tale logica, del resto, il sacerdozio e la vocazione cristia­na non hanno alcun senso e, visti alla stregua del mondo, appaiono solo occu­pazione volta alla realizzazione di fini unicamente umani e di parte. Ed è questo il rischio, avvertibile nell’opinione pubblica, che si guardi al presbitero e si parli di lui da più parti, in modo assolutamente riduttivo, con la conseguenza che la stima del sacerdozio rischi di venir meno nella nostra società. Non abbia­mo altro metodo, per rispondere a tutto questo, che la testimonianza autentica di un ministero sacerdotale che aiuta ogni altra vocazione ad esprimersi dentro la Chiesa e fuori di essa, e che aiuta ogni uomo a sentirsi accolto ed illuminato in quanto figlio di Dio.

 

Note

[1] Cf F. SCANZIANI, Destino – Destinazione – Vocazione, in La Scuola Cattolica 132 (2004/3), pp. 425-450.

[2] F. MONTAGNINI, Lettera agli Efesini (Biblioteca Biblica 15), Brescia, Queriniana 1994, 101, 129.

[3] Cf P. IOVINO, La conoscenza del mistero. Una inclusione decisiva nella lettera agli Efesini (1,9 e 6,19), in “Rivista Biblica” 34 (1986) pp. 327-367, in particolare pp. 328-332.

[4] cf Es 19, 4-6: “Voi avete visto quello che ho fatto all’Egitto: vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotto da me. E ora, se ascoltate la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprie­tà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa”.

[5] Cf M. L. SOARDS, The Apostle Paul. An introduction to his writings and teaching,  Paulist Press, New York 1987, p. 153.

[6] Su questa parte rimando a E. SALVATORE, Ogni dono nel dono di Cristo alla sua Chiesa (cf Ef 4,11-16), in Vocazioni 1, 2004, pp. 9-17.

[7] Cf R. PENNA, Lettera agli Efesini (Scritti delle origini cristiane 10), Edizioni Dehoniane, Bologna 1988, p.190.

[8] Cf C. BASEVI, La missione di Cristo e dei cristiani nella lettera agli Efesini. Una lettura di Ef 4,1-25, in “Rivista Biblica” 38 (1990) pp. 27-55, in particolare p. 47.

[9] Cf J-N ALETTI, Épître aux Éphésiens. Introduction, traduction et commentaire (Études bibliques. Nouvelle série 42), Gabalda, Paris 2001, p. 219.

[10] A.T. LINCOLN, Ephesians (World Biblical Commentary 42), Word Books, Dallas 1990,  p. 253.

[11] Cf M. BARTH, Ephesians I, Translation and Commentary on Chapters 1-3 (Anchor Bible 34A), Garden City – New York 1974, p. 479.

[12] Cf F. BARGELLINI, Lettera agli Efesini, in B. MAGGIONI – F. MANZI (a cura di), Lettere di Paolo, Cittadella Ed., Assisi 2005, pp. 745-861, in particolare p. 815.

[13] R. PENNA, op. cit., p. 196.

[14] ALETTI, op. cit., p.126.

[15] Sul versante della catechesi: cf Ch. REYNIER, L’Apport irremplaçable de l’épître aux Éphesiens en matière de catéchèse, in “Lumen Vitae” 148 (1997),  pp. 275-284.