N.05
Settembre/Ottobre 2007

Istanze prioritarie della pastorale vocazionale in Italia

La Nota pastorale dei Vescovi italiani dopo il quarto Convegno ecclesiale nazionale reca già nel titolo tre parole-chiave: «speranza», «testimoni» e «il grande “sì”». Mi sembra che ciascuna di queste parole getti luce sul tema delle vocazioni e sull’impegno della pastorale vocazionale.

In primo luogo è la parola «sì» ad attirare l’attenzione. Chi dice «vocazione» pensa immediatamente ad un “sì” da dire alla chiamata. Nella Nota si parla del «grande “sì” di Dio all’uomo»; nella pastorale vocazionale si lavora per il “sì” dell’uomo a Dio. Certo, questo secondo “sì” si inquadra e ha senso solo nel primo, solo in quella accoglienza libera e gratuita che Dio rivolge all’uomo per renderlo partecipe della sua vita trinitaria. Il primo “sì” si prolunga nel secondo, si dimostra efficace e “scandito per sempre” proprio nel suscitare il secondo, come frutto di una li­bertà pienamente consapevole del «dono di Dio» (Gv 4,10).

La pastorale delle vocazioni ha tutto da guadagnare nell’assumere questa prospettiva suggerita dal documento dei Vescovi. Così, infatti, non correrà il rischio di essere erroneamente guar­data come una sorta di reclutamento o, peggio, di proselitismo da parte di un’istituzione che ha strutturalmente bisogno di darsi dei “quadri” o dei “funzionari”. Al contrario, l’accento posto sulla libertà dell’uomo, che si affida all’iniziativa gratuita di Dio, ri­muove ogni tentazione di reclutamento e promuove il vero cammi­no di discernimento: la scoperta di un’umanità che gioca se stes­sa ed è veramente se stessa non nella lontananza da Dio, ma nella familiarità con lui, fino ad una profonda condivisione delle sue vedute e dei suoi progetti e, quindi, nell’offerta di sé.

In questa prospettiva s’innesta direttamente la seconda parola-chiave della Nota pastorale dopo il Convegno di Verona. Si è «testimoni» quando non si ha paura di Dio, quando non ci si nasconde e non si fugge davanti a lui, come fecero Adamo ed Eva o il profeta Giona; quando il mistero santo che è Dio è accolto quale luce che invita l’uomo ad essere trasparenza dello splendo­re della verità.

La pastorale delle vocazioni, dunque, prima ancora di punta­re alla vita consacrata o al ministero ordinato, deve indicare ai giovani che a nulla varrebbe scegliere quelle forme di vita cristia­na se in primo luogo non si sia scelta la “misura alta” della vita cristiana. L’universale chiamata alla santità è il presupposto im­prescindibile di qualsiasi discorso sulle vocazioni. Viene in rilie­vo qui l’importanza, anzi la priorità, da assegnare alla formazio­ne umana delle persone che si accingono ad un discernimento in vista di una scelta di vita consacrata o nel ministero ordinato.

Come non si può costruire un edificio senza porre mano a delle solide fondamenta, così non si può indirizzare e accompa­gnare un uomo o una donna all’accoglienza della chiamata di Dio senza aver innanzitutto trasmesso quanto di «vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, […] che è virtù e merita lode» (Fil 4,8) l’umano è in grado di esprimere e può esigere da se stesso. Non avremo «testimoni» se non avremo uomini e donne dalla co­scienza vigile, liberi perché radicalmente dedicati alla verità, for­ti perché appassionati dal e al bene. La sfida educativa, così pre­sente all’attenzione della Chiesa italiana, trova qui una delle ra­gioni della sua urgenza e nella pastorale delle vocazioni un terre­no di impianto e un banco di prova.

La parola «speranza» ha condotto tutta la riflessione del quar­to Convegno ecclesiale nazionale, fin dalla sua preparazione. Non vi è dubbio che le vocazioni siano un punto di vista privilegiato, forse unico, dal quale intravedere il futuro della Chiesa. È certo, inoltre, che il sorgere delle vocazioni alimenta in ogni comunità una gioia particolare e una capacità di guardare avanti con spe­ranza. Il Convegno di Verona ha indicato in Gesù Risorto il fon­damento e l’alimento della nostra speranza. Questa chiave cristologica va sempre tenuta presente, soprattutto in un tempo in cui lo scoraggiamento motivato dalla scarsezza delle risposte vocazionali rischia di prendere il sopravvento. È in rapporto a Cristo Risorto, il Signore, che tutto si decide: il presente ed il futu­ro della Chiesa come della storia si articolano nella libertà e nel­la responsabilità di fronte a lui. Questo vale, da una parte, per gli uomini e le donne che sono chiamati da lui, misteriosamente, a seguirlo nella vita consacrata o nel ministero ordinato e vale, d’altra parte, per gli istituti o le diocesi che di quelle vocazioni do­vranno farsi carico. Di fronte a Cristo Risorto, in piena libertà e responsabilità, occorrerà anche avere l’audacia di ripensare se stessi, la propria proposta formativa e persino, più radicalmente, la forma di attuazione del proprio carisma nel contesto odierno. Anche qui c’è la «speranza» propriamente cristiana: essa non è un fatalismo benevolo; è piuttosto il coraggio di ripartire umil­mente di nuovo, talora da capo, con il coraggio di disfarsi di ciò che ormai è vetusto e di inaugurare il nuovo che Dio ci chiama ad accogliere e a costruire insieme con lui.