N.01
Gennaio/Febbraio 2008

Quando il “correre” non è frenesia, ma sapienza del cuore

Questo numero di “Vocazioni” apre il ciclo della nostra rivista per l’anno 2008. Le proposte presenti in questo 1° numero, come di consueto, riportano un’analisi approfondita del tema  riassunto nello slogan della prossima Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che celebreremo la IV domenica dopo Pasqua, la domenica del “Buon Pastore”, il 13 aprile p.v.

Questo numero di “Vocazioni”, poi, propone una presentazione specifica e significativa di alcuni tra i sussidi predisposti per la GMPV 2008, che saranno messi a disposizione proprio in contemporanea con questo numero della rivista, già a partire dal Convegno Nazionale, dal 3 al 5 gennaio 2008.

Inoltre, cercheremo anche di dare voce a qualche aspetto significativo e qualificante delle proposte e dei progetti che sono attuati dai vari CRV e CDV nelle nostre diocesi, attraverso la rubrica “NEWS VOCAZIONALI”.

A questo aggiungiamo un frammento di novità: vogliamo proporre una rubrica diversa e innovativa, “dentro” alla cultura mass-mediatica, una “finestra aperta” di dialogo, di dibattito, di confronto, ma anche di circolazione del tanto materiale prodotto nelle realtà vocazionali delle Chiese locali e nei vari ambiti della vita consacrata. Proviamo a lanciarla già da questo primo numero, chiamandola “VOCAZIONI OUT LOOK”, e con essa vorremmo valorizzare sia la nostra rivista sia il sito del CNV.

“Vocazioni Out Look” potrebbe così assumere veramente la funzione di “guardare fuori… di guardare oltre…” la nostra realtà, per cogliere alcune opportunità nuove e creative che insieme possiamo mettere a disposizione.

Tutto ciò lo si troverà meglio descritto e presentato nell’articoletto finale di questo numero, che entra nel dettaglio di questa “piccola” idea. Già i tre studi proposti per l’approfondimento del tema della Giornata ci forniscono un’opportuna lettura a più sfaccettature della tematica vocazionale di questo nuovo anno: don Emilio Salvatore ci dà una sempre suggestiva chiave di lettura biblica e spirituale; don Davide Brighi ci propone una lettura esistenziale e vocazionale; la scheda di don Tonino Ladisa ci dona, come sempre, una ricchezza di spunti per uno sguardo a 360°, che ci aiuta a focalizzare l’uso pastorale e vocazionale del nostro input vocazionale annuale. Un “grazie” intenso e profondo a ciascuno di loro, per questi approcci differenziati e complementari. Personalmente sento di essere in profonda sintonia con quanto i nostri amici ci propongono nelle loro diverse prospettive di analisi, ma quello che maggiormente mi colpisce nella tematica di quest’anno, lo esprimerei così: c’è una profonda differenza tra “l’essere di corsa” e … “l’essere in corsa”. La frenesia della vita porta tutti noi a non trovare spazi di silenzio, di ascolto, di interiorizzazione, perché saturi delle mille cose da fare, diveniamo anche noi come Marta, nel bellissimo episodio di cui ci parla il Vangelo di Luca 10,38-42:

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’é bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”.

L’essere di corsa può significare veramente lasciarci risucchiare da quelle che il Vangelo chiama le “mérimnai”, gli affanni, le preoccupazioni, le frenesie della vita di tutti i giorni, perdendo la preziosa opportunità di gustare la bellezza di quello che Gesù chiama la “parte migliore”: il donarsi del tempo di silenzio, di ascolto, di relazione, di affetti e sentimenti condivisi, non in un banale intimismo o sentimentalismo, ma nella profondità dello scambio del cuore.

Ahimè, tutti noi siamo come prigionieri di uno stesso stile di vita, che ci proietta dentro alla girandola frenetica di urgenze ed emergenze non sempre così essenziali; saliamo tutti su di un carrozzone sempre in corsa, che ci fa riempire l’esistenza di cose da fare, senza però il gusto di poterne assaporare la bellezza e la profondità, nell’istante in cui le viviamo…

Siamo ammalati di efficientismo e su tutti noi tiranneggia quella che possiamo chiamare una sindrome nevrotica del nostro tempo: “l’horror vacui”, la paura del vuoto, cioè del tempo in cui non abbiamo qualcosa fare. Questo ci porta ad intasare ogni opportunità di relazione calma e condivisa con gli altri.

Per un animatore o animatrice vocazionale credo che questa sia una delle grandi tentazioni cui dobbiamo far fronte, perché il nostro sevizio primario è quello di essere persone capaci di dare senso alla propria vita in un modo calmo e riconciliato, per trasmetterlo come gusto e come ricerca ai giovani che incontriamo e che spesso domandano una risposta concreta al nichilismo culturale e al vuoto interiore di tante vite inaridite e asfittiche.

Questa è la mediocrità del cuore che Gesù proprio non ama…

Com’è diversa la prospettiva dell’essere persone in corsa, non dei fuggitivi, ma degli atleti che tendono verso la meta da raggiungere, anche se questo domanda sforzo, impegno, abnegazione e anche… (ma questa è una parola impopolare da pronunciare, oggi) rinuncia!

Ecco le bellissime parole di S. Paolo in 1 Cor 9,24-25:

Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile.

Per questo egli ribadisce con forza questa sua convinzione in 2 Tm 4,6-7:

Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.

L’essere in corsa è sempre legato ad una meta da raggiungere, ad un traguardo da tagliare. Proprio in questi giorni mi è stato chiesto un colloquio da una signora di mezza età che, dopo avere partecipato alla S. Messa della domenica, voleva un confronto ed un consiglio. Si è presentata come una persona dall’animo delicato, colto, con un grande senso della bellezza artistica e musicale, eppure… lei si percepisce come assolutamente desolata, perché sente che la sua vita, in questo momento, manca di una meta verso cui andare, non ha qualche persona a cui voler bene e da cui sentirsi riamata. E questo l’ha fatta sprofondare in una profonda solitudine esistenziale ed affettiva. La mancanza di una meta da raggiungere, di un senso esistenziale, spirituale – e certamente anche vocazionale – da dare alla propria esistenza: ecco uno dei mali interiori di cui, oggi, le persone soffrono.

Lo slogan di questo nuovo anno c’interpella e ci provoca: “Corro per la via del tuo amore”. La via dell’amore è l’unica in grado di dare un senso profondo e totale alla nostra esistenza. Ce lo ricorda  Papa Benedetto XVI, nella recentissima enciclica “Spe salvi”, al n. 12:

“Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia”.

Immergersi nell’oceano dell’infinito amore, che diventa la pienezza della vita stessa… Che bellezza questa intuizione, già presente in coloro che l’amore lo vivono e lo esprimono nelle proprie scelte di vita!

Recentemente l’ho visto sul volto di una giovane coppia di sposi, nel giorno del loro Matrimonio, preparato nella tribolazione di una grande sofferenza e forse, proprio per questo, ancor più vissuto nella gioia dell’abbandono reciproco.

L’ho visto negli occhi di una coppia che a lungo aveva atteso la nascita di un bambino e che poi, in un inno di amore alla vita, ha adottato un bimbo di una terra lontana.

L’ho visto negli occhi, carichi di una gioia intensa e direi quasi inesprimibile, di alcune giovani nel Rito della loro Prima Professione, mentre donavano al Signore la loro vita, il loro cuore, con la trepidazione e l’entusiasmo dell’amata del Cantico.

Questa è la forza dell’amore vero. Questa è la via su cui prendere un abbrivio di corsa che ti porta a non fermarti più…

Eppure – e noi non possiamo dimenticarlo – l’amore oggi non è solo fatto di una bellezza appagante e di una gioia incontenibile; spesso, troppo spesso, il nostro tempo ci fa vedere un amore triste, perché ammalato.

Oggi più che mai si ha la sensazione di sentire parlare e sparlare dell’amore: non è più una parola sussurrata, ma “gridata”, mercificata, data in ostaggio alla audience televisiva.

Non vorremmo cadere in inutili sdolcinature e neppure in pretese poetiche fuori luogo, ma l’amore è una realtà delicata! E allora, perché non la si tratta con delicatezza? Perché è divenuta una realtà gridata, intrisa di un vocìo banale e vuoto?

Occorre trovare il tempo e forse il coraggio di metterci al capezzale di quest’amore fragile, vulnerabile, profondamente ferito. È un amore ammalato perché c’è la paura di amare.

Chi corre questo rischio sa che la sua vita ne risulterà profondamente cambiata.

Sa che egli è chiamato a svuotarsi per fare posto al cuore che ama. Come non ricordare la famosa parabola orientale di quel guru che, nel ricevere il suo ospite, gli versava del the nella tazza e continuava a versarne finché la tazza fu colma ed il the tracimò oltre la tazza, oltre il piattino… L’ospite guardava allibito, non capiva come mai il guru non si rendesse conto di una così grande stupidaggine. Ad un certo punto, esasperato disse: “Basta, non vedi che la tazza è colma e non può contenere neppure una goccia in più del tuo the?”. “Sì, lo vedo – rispose imperturbabile il guru – ma lo sto facendo apposta, perché questa tazza è come il tuo cuore: è troppo pieno di te stesso e delle tue cose; come puoi pretendere di poter accogliere anche una sola parola di quelle che io vorrei consegnarti?”.

Cuori pieni fino al colmo, incapaci di accogliere, attaccati come gramigna a se stessi e alle proprie cose, invaghiti della propria persona o del proprio look… come possono essere disponibili a giocarsi e a perdersi per un altro?

L’amore è ammalato perché profonda è la paura dell’intimità, nella quale si è costretti a svelarsi al di là delle proprie maschere. Ma forse neppure noi stessi sappiamo veramente chi siamo, al di sotto della maschera di facciata che portiamo in società.

Un amore ammalato perché si fonda sul mito della sessualità: se il  rapporto sessuale funziona, anche l’amore sarà felice. Illusione! È la ricerca di una felicità asfittica, rinchiusa in un segmento di vita, divenuta fine e non effetto di una modalità globale di relazionarsi, di comunicare, di stare insieme.

Ed ecco l’effetto “boomerang”: la ricerca di una felicità sessuale si trasforma spesso in impotenza, in frigidità, in situazioni psicologiche frustranti, che rendono difficile e spesso impossibile una comunicazione totale e profonda, anche sotto il profilo di una relazione sessuale. Le significative ricerche del famoso psicoanalista americano D. Shapiro sono un’ingombrante conferma proprio in questo senso.

Un amore ammalato perché sente il peso della responsabilità in cui si è chiamati a “farsi carico della persona amata”. Un peso che oggi crea molta ansia!

È vero: non è facile custodire il cuore dell’altro, ma è una realtà esaltante e carica di stupore; significa imparare a fare delle scelte in prima persona, ad andare oltre la logica dell’onnipotenza infantile, cui tutto è permesso e concesso. Significa impegnarsi in un rapporto che affronta la sfida del tempo.

Un amore ammalato perché non si è disposti a fare dono della propria libertà: libertà di scelte, di tempo, di cuore. La vera libertà non è vivere come dei “cani perduti senza collare”, parafrasando il titolo di un celebre romanzo dello scrittore francese Gilbert Cesbron.

Imparare a fare dono di se stessi e della propria libertà significa ritrovare un oceano di libertà. Ma per giungere a questo occorre osare di prendersi il rischio di inoltrarsi in alto mare e abbandonare la moda del costeggiare i bordi della riva, veleggiando nel piccolo cabotaggio.

Un amore ammalato perché viene assorbito dalla noia della “routine” e dalla ripetitività della vita di tutti i giorni. Eppure chi si ama veramente scopre che una fedeltà quotidiana è creatività e non ritualismo ripetitivo di bassa lega; scopre che l’amore, anche nella sua ferialità, è festa e quindi novità e non apatia e scoraggiamento.

In una parola, scopre che la bellezza del cuore umano, e in particolare del cuore amato, non è mai eguale a se stessa.

Vorrei concludere questa prima riflessione con voi condivisa, ricordando alcuni passaggi con cui il Papa, nell’enciclica che abbiamo sopra ricordato, ci consegna “parole di speranza, per guarire il cuore…”.

Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. (Spe salvi, 26).

E rimane altrettanto intensa e straordinaria la testimonianza che il Papa riporta a proposito di S. Giuseppina Bakita, la suora “moretta” che veniva da una terra così martoriata come è il Darfur, liberata dalla sua schiavitù per vivere un abbandono di amore ad un “Paròn” (Signore-Padrone) assolutamente diverso:

“Dopo «padroni» così terribili, di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakita venne a conoscere un «padrone» totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava «paròn» il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un «paròn» al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal « Paròn » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa (Spe salvi, 3).

Quale migliore conclusione anche per noi, allora, se non le ultime parole che, nell’Enciclica, il Papa ci mette sulle labbra e nel cuore per invocare la Vergine Maria, in questa “corsa” lungo la via dell’amore:

Vergine Santa, tu rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre,

come Madre della speranza.

Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra,

insegnaci a credere, sperare ed amare con te.

Indicaci la via verso il suo regno!

Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!

Buon Anno a voi tutti, amiche e amici  di “Vocazioni”!

La speranza di Gesù sia benedizione e guida per i nostri cuori, per il nostro servizio di animazione vocazionale e per ogni nostro cammino di vita!