N.01
Gennaio/Febbraio 2012
Studi /

La chiesa madre di vocazioni

La crisi vocazionale interroga oggi la Chiesa in modo drammatico. Il calo dei candidati al ministero ordinato ha raggiunto minimi storici; le famiglie religiose vivono un trapasso epocale, di cui non si vede ancora la fine, e dove comunque certi numeri del passato non sono più in alcun modo immaginabili. Se si parla della Chiesa come “Madre di vocazioni”, si può in certo qual modo accostare la situazione ecclesiale a quella della società occidentale, in particolare italiana, dove la contrazione della natalità mette a rischio il futuro stesso della nazione o, quantomeno, la espone a un processo di radicale trasformazione. Né basta indicare i rischi del processo per invertire la linea di tendenza: come l’analisi fredda delle statistiche non determina la decisione di mettere al mondo più figli, così il grido di allarme per il futuro della Chiesa non determina ingressi in seminario o nelle case di formazione. Si tratta di un profondo cambio di orientamento che domanda una ponderata verifica del fenomeno e delle cause che lo hanno determinato.

 

  1. Rilettura del passato

Per quanto si voglia interpretare, il raffronto con un passato non lascia spazio a illusioni; sembra anzi dilatare il senso di scoramento. La contrazione drammatica dei numeri obbliga infatti le diocesi a ridurre la presenza e la cura pastorale garantita per secoli; gli istituti religiosi a chiudere case e comunità, ad abbandonare luoghi tradizionali di servizio alla Chiesa e alla società. Né il ricorso a forze rastrellate da altri continenti sembra risolvere il problema; semmai lo dilata, rendendo ancora più evidente la difficoltà nella provvisione di ministri ordinati per il servizio alle comunità cristiane.

E, tuttavia, la questione è se la crisi derivi da cause recenti che hanno messo in discussione l’impianto tradizionale della Chiesa, o se non fosse già in incubazione un processo che ha portato alla situazione attuale. In passato la ricchezza di candidati allo stato clericale era dovuta in larga parte a un regime di cristianità. Quando società civile e religiosa coincidono, i ministeri ecclesiali si trasformano ipso facto in funzioni di potere, che attirano molti per il prestigio che conferiscono e le opportunità che garantiscono. Il fenomeno è evidente fin dalla svolta costantiniana, quando le gerarchie ecclesiastiche divennero organiche all’amministrazione dell’impero e i vescovi furono elevati al rango di dignitari di corte. Come sempre in questi casi, non era facile distinguere una scelta dettata da una motivazione spirituale o, piuttosto, da ricerca di visibilità, successo personale, potere.

D’altronde, si tratta di una logica ovvia nell’organizzazione di uno stato: al numero dei cittadini che compone una società deve corrispondere una classe dirigente, con tanto di quadri intermedi, che sia – per numero e capacità – in grado di amministrare dovutamente la cosa pubblica. Mentre è del tutto improbabile che il numero di funzionari si contragga fino a scendere sotto un livello stabilito, ai sistemi politici accade spesso di indulgere al fenomeno inverso: dilatare a dismisura per ragioni di consenso il numero di quanti svolgono un compito nell’amministrazione, secondo criteri di convenienza che addirittura contraddicono il buon funzionamento dell’amministrazione stessa. In un regime di cristianità è facile che la dinamica tocchi i ministri della Chiesa. Basta pensare allo scontro che, nell’XI secolo, ha motivato e sostenuto la riforma gregoriana: non bastava gridare alla corruzione del clero, simoniaco e concubino, se non si spezzava il meccanismo perverso della investitura laica. Il fatto che imperatore, re, principi, signori, ciascuno nel suo grado, potessero determinare i candidati all’ufficio ecclesiastico esponeva la Chiesa a una situazione endemica di compromesso che spingeva i riformatori a invocare una rigida moralizzazione dei costumi.

La riforma gregoriana fu, in larga parte, opera di monaci, i quali diedero questa forte impronta anche al clero. La vita comune dei canonici imposta dai riformatori era, a ben vedere, una reduplicazione delle comunità cenobitiche. Nel contempo i papi, per garantire i risultati della riforma, imposero una clericalizzazione dei nascenti ordini mendicanti. In capo a due secoli, si poteva dire concluso un doppio processo – di monasticizzazione del clero e di clericalizzazione degli ordini – che portò alla societas inaequalium teorizzata nei trattati di ecclesiologia. L’esito fu quello sancito nel Decretum di Graziano, il grande canonista bolognese, che ha regolato la vita della Chiesa del secondo millennio: «Duo sunt genera christianorum: clerici et laici». Ai primi era assegnata la santità come fine, in quanto scelti da Dio stesso e costituiti in un ordine superiore, rispetto agli altri che potevano al più aspirare a salvarsi l’anima. Ai primi competeva il cielo, agli altri la terra. Ma ai primi era riservato qui in terra un trattamento di favore – il centuplo quaggiù – garantito dalle laute elemosine degli altri, come massima forma di fare il bene e guadagnarsi il paradiso.

Naturalmente, teorizzare che non ci fossero buoni papi, buoni vescovi, buoni preti solo perché le funzioni gerarchiche erano espressioni di potere sarebbe pura ideologia. Determinante, allora come oggi, è l’intenzione di chi esercita la funzione, se per servire Dio e la Chiesa o per trarre vantaggi da una posizione di privilegio. Ma è indubbio che la figura sacerdotale era accompagnata da un alto consenso sociale e per le famiglie era un onore avviare un figlio alla carriera ecclesiastica, anche perché costituiva una rendita non indifferente per il bilancio familiare.

Diverso il caso dei religiosi nella Chiesa. Anche se gli istituti maschili erano vincolati a uno statuto clericale, la scelta della vita religiosa era il modo abituale per vivere la ricerca della santità. Non a caso si affermava che la consacrazione religiosa introduceva in uno “stato di perfezione”, poggiato sui consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Si potrebbe dire che era questa la modalità consueta e riconosciuta nel secondo millennio per essere “cristiani impegnati”, nella ricerca della santità, ma anche nel servizio dei fratelli. Solo a fine Ottocento, quando nasce l’Azione Cattolica, si comincia a parlare di una partecipazione dei laici alla missione della Chiesa, nella modalità di una concessione da parte della gerarchia.

In un caso o nell’altro, è comunque evidente che in tempo di cristianità non si registra e non può registrarsi una penuria di vocazioni: la richiesta di ingresso al ministero è tale da permettere l’esistenza di congregazioni religiose addirittura fondate sulla “questua delle vocazioni”, con l’accoglimento di quanti non erano nelle pos-

sibilità di entrare nei seminari diocesani o negli ordini e congregazioni più importanti. In termini sociologici, un regime di cristianità favoriva l’identificazione ideale delle giovani generazioni con i modelli ecclesiali di riferimento: i santi, individuati generalmente in coloro che sceglievano di dedicarsi a Dio per tutta la vita. Si capisce in questa direzione un vocabolario che faceva coincidere la vocazione con la vocazione al sacerdozio e/o alla vita religiosa. D’altronde, che si trattasse di un fenomeno tipico del regime di cristianità lo conferma il fatto che, mentre nell’Occidente cristiano l’offerta superava la domanda, nelle terre di missione si registrava una carenza endemica di vocazioni, surrogata dalla presenza dei missionari europei.

 

  1. Motivi di una disaffezione

Due sono le cause che modificano questo quadro: una di carattere più sociologico e un’altra più sul versante ecclesiologico.

Quella a carattere sociologico è complessa, ma presto detta: la modernità può essere descritta come un processo di progressiva estraneazione della società civile dalla Chiesa, concluso con il Sessantotto, momento che segna la fine di un mondo. Benché la contestazione fosse diretta non immediatamente alla Chiesa, ma alla società in genere, e ai principi che la regolavano, erano soprattutto i valori promossi e difesi dal cristianesimo ad essere messi in questione da una rivoluzione culturale senza precedenti. Se lo Spirito non avesse preparato la Chiesa con il Concilio Vaticano II, questa si sarebbe trovata a fronteggiare del tutto impreparata una marea montante di contestazione, con esiti ancora più drammatici di quelli che l’hanno scossa fin nelle fondamenta.

La stretta vicinanza di tempi ha spinto molti ad accusare il Vaticano II della crisi che ha investito la Chiesa e le sue istituzioni, in conseguenza di una eccessiva e inavveduta apertura al mondo. Niente di più sommario e infondato. L’esodo di massa che, nell’immediato post-concilio, segnò il clero delle diocesi e ancor più drammaticamente le famiglie religiose era dovuto a un disagio che evidentemente covava sotto la cenere dello status quo ecclesiastico: improvvisamente i parametri di giudizio che avevano retto per un millennio non funzionavano più, fuori e dentro la Chiesa. D’altron-de, i membri della Chiesa, come tutti, sono figli del loro tempo e quegli abbandoni erano il segno di una coscienza individuale che andava mutando e rivendicava una libertà e un’autonomia prima impensabili.

Semmai, stupisce la scarsa avvedutezza della Chiesa in quei periodi: le diocesi e gli istituti religiosi si svenarono per costruire seminari e case di formazione che accogliessero schiere di giovani più orientati a un titolo di studio che a un percorso vocazionale. Peraltro, l’illusione finì presto, quando l’istruzione divenne un diritto effettivamente garantito a tutti dallo stato e le scuole cattoliche non ebbero più una funzione di supplenza nel campo della formazione scolastica. Di quella stagione sono rimaste le strutture tristemente vuote, spesso svendute per non lasciarle decadere: strutture che hanno aumentato il senso di scoramento per la crisi sopravvenuta. Infatti, dopo la breve stagione del boom vocazionale, i numeri dei candidati al sacerdozio, ma anche gli ingressi nelle comunità religiose, sono caduti a picco nel giro di pochissimi anni.

Alla radice di questa repentina inversione di tendenza sta certamente il profondo mutamento che ha attraversato la società contemporanea, toccando tutti gli aspetti dell’esistenza. Improvvisamente, anche per l’irruzione dei mezzi di comunicazione che hanno proposto un modello di vita diverso e spesso contrario a quello cristiano, l’orizzonte su cui le giovani generazioni proiettavano i sogni e i progetti è del tutto cambiato. L’immaginario collettivo su cui i giovani proiettano le loro aspirazioni e aspettative non era più abitato dalle grandi figure ecclesiali – i santi, generalmente preti e monache – ma da altri eroi, soprattutto quelli del mondo dello spettacolo e dello sport. Diventare prete, più che un valore, un vantaggio, un onore, è diventato un problema: le famiglie hanno prima incominciato a dilazionare la richiesta di ingresso dei figli in seminario a dopo il periodo scolastico, nella speranza nemmeno troppo segreta che abbandonassero il proposito, e poi si sono opposte fino a escludere la possibilità stessa di una scelta vocazionale. Non di rado si sono viste reazioni scomposte di fronte alla manifestazione di un desiderio in tal senso di un figlio o di una figlia. Né queste reazioni riguardano unicamente quanti sono lontani dalla Chiesa; anche famiglie che frequentano regolarmente la comunità cristiana e magari rivendicano il diritto a un prete in caso di carenza escludono categoricamente questa scelta se e quando riguardasse i loro figli.

Peraltro, alcune modalità discutibili nella provvisione dei ministri sacri o dei membri di ordini e congregazioni hanno sensibilmente contribuito a svuotare di attrattiva la scelta vocazionale. Anzitutto, la diminuzione degli ingressi, a fronte delle necessità del sistema, ha determinato un abbassamento delle condizioni di accesso al ministero o alla vita religiosa, con candidati che non solo presentavano un quadro formativo – anche scolastico – molto frammentato e di livello spesso scadente, ma che nemmeno si mostravano interessati a colmare il gap, nella facile previsione che la necessità di tamponare i vuoti per garantire la sopravvivenza dell’istituzione – che si trattasse dei preti da mandare nelle parrocchie scoperte o dei religiosi e delle religiose necessari per non far chiudere le case dell’istituto

– avrebbe comunque garantito l’ordinazione o la consacrazione religiosa. In molti casi, nell’idea che Dio non ha smesso di chiamare, si sono dimenticati i criteri più elementari non solo di discernimento, ma anche di prudenza, ammettendo persone solo perché lo richiedevano, nella speranza che la grazia avrebbe compensato le evidenti deficienze e immaturità.

In questo modo le diocesi e gli istituti hanno conosciuto un processo di impoverimento, la perdita di figure di riferimento, la mancanza di persone capaci di leggere profeticamente o comunque con intelligenza la situazione, perdendo opportunità su opportunità. Laddove poi il problema è stato affrontato immettendo nei presbiteri o nelle famiglie religiose persone provenienti da altri continenti, la scelta ha prodotto un ulteriore deprezzamento del ministero, considerato ormai alla stregua dei lavori svolti dagli immigrati, in quanto scansati dai nativi. Certo, chi accedesse al ministero o alla vita religiosa soltanto perché è un modello di vita attraente, fonderebbe la scelta su motivi deboli; e, tuttavia, il rilievo serve a misurare quanto la scelta vocazionale abbia perso di attrattiva. Né basta, per invertire la tendenza, certo modo di presentare il ministero o la vita religiosa secondo le logiche della pubblicità, che tenta di catturare l’attenzione attraverso un cliché di mercato che sconfina nella logica del ribasso dei prezzi.

 

  1. Una svolta epocale: la universale vocazione alla santità

Accanto ai motivi di carattere sociologico, ne esiste uno più in radice, che riguarda la mutata comprensione della vita cristiana. In effetti, se la spinta al ministero o alla consacrazione in un regime di cristianità era sostenuta da una presunta superiorità dei clerici sui laici, questa differenza è stata cancellata dal principio della radicale uguaglianza di tutti i battezzati, affermato nel capitolo II della Lumen Gentium sul Popolo di Dio: «Questo popolo messianico ha per capo Cristo…; ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito santo come nel suo tempio; ha per legge il nuovo precetto di amare come Cristo stesso ci ha amati (Gv 13,34); e finalmente ha per fine il Regno di Dio» (LG 9). Corollario della uguale dignità di tutti i battezzati è l’assioma della universale vocazione alla santità, proposto nel capitolo V della Lumen Gentium: «Il Signore Gesù, maestro e modello di ogni perfezione, a tutti e a ciascun discepolo di qualsiasi condizione ha predicato la santità della vita, di cui egli stesso è l’autore e il perfezionatore: “Siate dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Ha mandato infatti a tutti lo Spirito santo, che li muovesse dall’interno ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze (cf Mc 12,30) e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cf Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Cristo Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. […] È del tutto chiaro, dunque, che tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (LG 40).

A ragione si è parlato di “rivoluzione copernicana” in ecclesiologia: non solo la radicale uguaglianza dei battezzati ha tagliato in radice – almeno nelle intenzioni – la concezione piramidale della Chiesa, ma ha cancellato quella distinzione tra chierici e laici in ordine alla santità, che ha segnato la vita cristiana – e quindi anche la prassi vocazionale – del secondo millennio cristiano. L’esito è che non c’è più bisogno di essere chierici o di entrare in religione per diventare santi. Anzi, l’argomento paradossalmente si rovescia: per molti oggi, che pure si interrogano sulla vocazione, la responsabilità diventa un ostacolo alla scelta, nella paura di non essere all’altezza di compiti che superano le proprie forze o che impegnano tutta la vita.

Comunque sia, il mutato orizzonte di comprensione della vita cristiana ha profondamente modificato anche il linguaggio sulla vocazione, non più riservato esclusivamente a uno stato di speciale consacrazione, ma alla vita cristiana tout court. Essere preti o religiosi, ma anche essere laici dedicati a un impegno cristiano nel mondo

o nella Chiesa è un passo ulteriore, una scelta che va a specificare e caratterizzare l’originaria vocazione alla vita in Cristo. Molti lamentano questo passaggio come negativo. In realtà è l’unico punto di partenza certo per ricostruire una mentalità in cui la vocazione diventi l’orizzonte normale della vita cristiana e la Chiesa torni a manifestarsi come madre che genera e che educa alla gratuità e al dono di sé.

In un recente passato, troppo ci si è preoccupati di colmare i vuoti e si è quindi trascurato un dato elementare ma irrinunciabile: che nessuna forma di consacrazione o di servizio nella Chiesa può esprimersi in termini di maturità se manca una vita cristiana solida. Si sono giustamente sottolineati gli aspetti umani di tale maturità e l’insistenza su questo punto non sarà mai troppa: gratia supponit naturam rimane sempre un principio fondamentale della vita spirituale. E, tuttavia, l’attenzione agli aspetti umani del candidato non deve far dimenticare un altro passaggio decisivo: la maturità cristiana. La rigenerazione in Cristo è la sorgente di un’umanità nuova, fondata sul dono dello Spirito: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28); così «quelli che da sempre ha conosciuto, [Dio] li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). A partire dal dono assolutamente gratuito di Dio, la vita cristiana diventa un cammino straordinario di sequela nella conformazione a Cristo, in forza dello Spirito che sospinge l’uomo alla vera libertà. Infatti, «dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,17ss.). Né questo è un cammino per pochi eletti, che si realizza attraverso esperienze straordinarie, magari estatiche o mistiche; è piuttosto il cammino di sequela a cui il Signore chiama ogni discepolo: si tratta di imparare a conoscere Cristo ed essere istruiti «secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,20-24).

Ora, questa via del discepolo è costitutivamente ecclesiale: il battesimo innesta nel corpo della Chiesa nel momento stesso in cui configura a Cristo. Perciò sviluppare la vita teologale equivale – soprattutto se opportunamente accompagnati – a scoprire il proprio posto nella Chiesa, la parte che tocca a chi è membro di un corpo in cui vige la diversità delle membra e la diversità delle funzioni. D’altronde, non è un caso che si registri una fecondità di vocazioni negli ambienti che provano a vivere l’esperienza cristiana con partecipazione più profonda. Esiste, in altre parole, una proporzionalità diretta tra il progresso della vita teologale – l’attuazione della universale vocazione alla santità – e la disponibilità a interrogarsi sulla volontà di Dio nella propria vita.

 

Conclusione

Su questo orizzonte della universale vocazione alla santità si profila il compito della comunità ecclesiale. Il primo compito di una Chiesa che sia anzitutto madre è di far crescere i figli che ha generato nel fonte battesimale. In un momento in cui le famiglie non sanno più educare alla vita cristiana, la responsabilità della Chiesa, più che sui ruoli, deve concentrarsi sulla vita cristiana in quanto tale. È un compito che la comunità cristiana deve recuperare con urgenza, se non vuole perdere il contatto con le generazioni a venire.

La questione è dove sia questa capacità materna della Chiesa. Come non basta fare un figlio perché diventi un uomo, ma bisogna accompagnarlo nelle tappe della crescita, allo stesso modo la Chiesa è chiamata a impegnare il suo tempo, a perdere il sonno, a vegliare per far crescere i suoi figli «alla misura del dono di Cristo» (Ef 4,7). Il segreto sta nell’«educazione alla vita buona del Vangelo», nella scelta cioè di far crescere figli di Dio consapevoli della propria grandezza e dignità, la cui priorità nella vita sarà di scegliere secondo la volontà di Dio e fare la volontà di Dio.

Duole constatare come troppe volte, oggi, la Chiesa sia preoccupata d’altro. Torna la durissima constatazione di von Balthasar: «La Chiesa post-conciliare ha largamente perso il suo volto mistico; è una Chiesa dei dialoghi permanenti, delle organizzazioni, delle consulte, dei congressi, dei sinodi, delle commissioni, delle accademie, dei partiti, dei gruppi di pressione, delle funzioni, delle strutture e delle ristrutturazioni, degli esperimenti sociologici, delle statistiche: più che mai una Chiesa di uomini, una entità asessuale» (Punti fermi, p. 128).

Contro questa deriva, il grande teologo svizzero domandava di prestare di nuovo attenzione al principio mariano nella Chiesa: senza l’elemento mariano «la Chiesa diventa funzionalistica, senz’anima, una fabbrica febbrile incapace di sosta, dispersa in rumorosi progetti». Il Concilio, inserendo la mariologia nella costituzione sulla Chiesa, ha riavviato la comprensione della maternità della Chiesa. In Maria, Madre degli apostoli e dei profeti, dei martiri, dei confessori e dei vergini, Madre di tutti i santi, la Chiesa contempla il modello di ciò che è chiamata ad essere anche come madre dei figli che genera alla fede. A Maria può chiedere che interceda perché sia – torni ad essere – madre di vocazioni, madre di uomini e donne che rispondono all’invito di Cristo – «Seguitemi» (Mc 1,17) – con lo stesso entusiasmo di Giacomo e Giovanni, di Pietro e Andrea.