N.06
Novembre/Dicembre 2015

La famiglia danza con passi di fragilità e di fedeltà

1. «Ti farò mia sposa per sempre» (Os 2,21)
Sono sotto gli occhi di tutti le tante povertà delle famiglie sul piano relazionale e sul piano della “tenuta” dei valori fondamentali che dovrebbero sorreggerla, fragilità che determinano spesso il fallimento del progetto di vita di molte famiglie. A questo si aggiunga che c’è un tentativo persistente della cultura radicale e dei mass-media di demolire il valore della famiglia mettendone in luce solo i fallimenti e la povertà. Eppure siamo sempre più convinti che la famiglia non è soltanto un problema ma è principalmente una risorsa.
Abbiamo vissuto il Sinodo dei vescovi su “La vocazione e la missione della famiglia nel mondo contemporaneo”. I padri sinodali hanno iniziato le loro riflessioni a partire dalla consapevolezza che la famiglia sta vivendo un momento di fatica, ma hanno voluto ribadire l’importanza fondamentale di questa vocazione “incarnata” nel mondo per la salvezza della Chiesa, della società, dell’umanità intera.
Oggi non si può parlare di coppia e famiglia, di matrimonio-sacramento senza ribadire l’importanza del “per sempre”. Se pensiamo alle tante separazioni e alla liquidità delle relazioni, sembrerebbe da pazzi affermare che l’Amore dura tutta la vita, eppure l’indissolubilità è una prerogativa fondamentale ed essenziale dell’amore umano a prescindere da una sua comprensione di fede; due innamorati non tollerano che la loro condizione possa essere temporanea e corra il rischio di finire. Il vero amore contiene in se stesso l’anelito e l’esigenza della definitività. Anche oggi, quando i giovani si innamorano, sentono dentro di loro che l’amore deve essere “per sempre” (vedi i lucchetti di Ponte Milvio a Roma).
Ma è anche esperienza comune e diffusa che l’amore umano, che nasce con l’esigenza e l’impegno di essere “per sempre”, finisce spesso con l’attenuarsi fino al punto di morire. “L’amore è bello finché dura”… Ciò che guida i rapporti affettivi sembra essere solo il sentimento, ma i sentimenti sono fluttuanti, non possono da soli tenere in piedi un rapporto.
Noi oggi ci troviamo davanti ad un grave rischio: assistiamo ad una sorta di “ipertrofia” dell’affetto, uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali con un’affettività sradicata da una prospettiva di senso, percepita come pura saturazione di un bisogno, senza direzione e scopo, ridotta a puro sentimentalismo, a “ciò che si sente”, si prova.
Lo sbilanciamento sul versante emozionale dei legami, a scapito di un riconoscimento della loro ineludibile valenza etico-valoriale, affida completamente alla discrezionalità dei partner la libertà di decidere l’ufficialità, la durata, la possibile interruzione o frattura del patto. È su questo aspetto che pare pertanto urgente supportare e educare la coppia, spesso legata da patti fragili, senza progetto, con-tingenti ed emozionali. Infrangere il mito del “naturalismo” dell’amore coniugale (se due non stanno bene insieme “naturalmente” senza sforzi, significa che non si amano), superare la visione idealizzata della relazione tra partner (l’altro deve essere a tutti i costi colui che soddisfa ogni mio bisogno in ogni momento della vita), per approdare ad una consapevolezza realistica e serena del diritto di ogni persona (anche del proprio partner!) di avere dei limiti, di poter cambiare, di non vivere ogni evento allo stesso modo, si pone allora come una delle sfide più intriganti del percorso di una coppia che decida di investire sul futuro del proprio legame.
Le coppie abbisognano comunque di supporto non solo nella fase della loro costituzione, ma anche nel tempo. Aver cura del patto coniugale comporta, infatti, non tanto il costruire una volta per tutte un armonico equilibrio tra aspetti etici ed affettivi, ma attuare un rilancio continuo del legame di coppia: la costruzione del patto è un processo costante, continuamente modificato e messo alla prova dagli eventi della vita, intrinsecamente esigente per la sfida implicita che porta dentro di sé nel tendere a fare di due persone “una cosa sola”, ossia nel ricondurre ad unità due differenze. Il compito fondamentale cui la coppia è chiamata è proprio quello di sapere gestire la conflittualità derivante dalla differenza tra uomo e donna, dall’incontro-scontro tra due storie familiari e sociali differenti, dai mutamenti cui il patto è sottoposto dal trascorrere del tempo.
L’impegno più grande in campo educativo è quello di aiutare le giovani generazioni a considerare il “per sempre” non solo come un rischio, ma anche come un’opportunità per un rapporto di coppia sempre più ricco e profondo.
Progettare di amarsi per sempre significa inaugurare una strada che conduce due persone ad integrarsi l’una con l’altra, nonché ad arricchirsi reciprocamente in un dialogo libero e sincero.
Questo “per sempre” non è quindi imposizione che mortifica, ma tensione che dà vita e respiro all’amore: i due sposi, nel giorno del matrimonio, non dovrebbero promettersi di stare insieme per sempre, ma di tenere per sempre vivo l’amore: esso consente loro di crescere.
Perché Gesù propone un amore indissolubile? Certamente non per incatenare due persone anche quando non si amano più; egli dice solo che in un rapporto, in una relazione continua e stabile, l’amore cresce e si approfondisce.
Sposarsi è condividere la propria vita con una persona e la persona è data non solo dal suo passato e dal suo presente, ma anche dal suo futuro: anzi, essa è più futuro che passato, è più potenzialità che presenza. Sposare una persona significa quindi spartire per sempre con essa pure il suo futuro. Certamente, anche i rapporti provvisori offrono stimoli ed arricchiscono; ma una persona non può crescere in profondità se non all’interno di una relazione stabile e sicura.
Il sentirsi amati, comunque, infonde nelle persone la tranquillità che consente loro di aprirsi l’una all’altra, dando spazio anche a qualche conflitto rigeneratore.
La fedeltà dell’amore è quella sua qualità che lo svincola dal mio egocentrismo. Non che non conti ciò che io faccio e sono, ma il motivo dell’amore che l’altro nutre per me non sta in nessuna delle mie caratteristiche, né nella mia bellezza, né nella mia intelligenza, né nella mia bontà, o qualsivoglia altra cosa, né nell’insieme di tutte queste realtà e, in ultima analisi, non dipende neanche da me stesso. Se l’amore che l’altro porta per me non dipendesse radicalmente dalla sua libertà, dalla sua decisione di volermi bene, ma fosse, invece, necessaria conseguenza della mia presenza, per ciò stesso sarebbe distrutto come amore. È illusorio e profondamente narcisistico pensare che l’altro mi ami a motivo di come sono fatto e smetta di amarmi per errori che commetto. L’altro, nella sua libertà e nel suo bene, può conservare l’amore anche dinanzi al mio sbaglio, come può interrompere l’amore anche dinanzi alla mia irreprensibilità.
È qui il fondamento dell’indissolubilità. È il poter credere alla fedeltà dell’altro che ci amerà, nonostante l’emergere del nostro limite e del nostro peccato, ed è la stessa promessa donata all’altro. Se così non fosse, dovremmo ogni giorno sedurre e conquistare l’altro, nella continua attesa di un fallimento che sopraggiungerebbe all’errore.
Amare vuol dire donare all’altro tutta la propria storia: quella bella e quella oscura; tutti i giorni: quelli felici e quelli meno felici, come ci si promette reciprocamente nel rito del matrimonio.

2. «Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7)
Crediamo che, per poter raggiungere l’unità nella coppia, bisogna innanzitutto partire dall’accettazione e dalla comprensione del proprio limite e di quello del coniuge.
Possiamo leggere in chiave coniugale ciò che ha affermato Mons. Galantino durante l’ultimo Meeting di Rimini, proponendo di «comprendere l’essere umano a partire dal limite, articolando così una “antropologia del limite», non nel senso di un’antropologia non orientata alla felicità o al benessere della persona, ma nel senso di un’antropologia che li persegue tenendo conto della «nativa debolezza dell’uomo». Il limite, la “mancanza” non possono essere messi da parte come un inconveniente o un elemento trascurabile, ma «vanno assunti come elementi che strutturano radicalmente l’essere della persona, e vanno valorizzati come portatori di una potenziale ricchezza». Del resto, sottolinea Mons. Galantino, l’uomo è, nella sua stessa essenza, un «essere-nel-limite». È il limite insito nella natura stessa dell’uomo, in quanto «essere creaturale e intrinsecamente mancante». Una mancanza, della quale «facciamo esperienza ogni giorno e che si manifesta in molte forme e innumerevoli aspetti: nella malattia e in ogni forma di sofferenza, nella difficoltà o impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni, nella fatica a collaborare e convivere con gli altri, nella morte che pare azzerare e svuotare ogni obiettivo raggiunto». Se il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può trasformarsi in una «finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti senza mai riuscirvi, di negare la propria natura finita e la propria pochezza».
L’essere umano, infatti, «desidera ciò che è grande e illimitato e tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha». Questo è positivo e non è un male in se stesso. Lo diviene però se egli rifiuta la sua debolezza e intende questi obiettivi come dei diritti, arrivando a pretendere di raggiungerli invece che perseguirli con umiltà. «Il limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è il motore della volontà – afferma Galantino. Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla; se al contrario si scopre mancante, è mosso alla ricerca di ciò che non ha».
Anche la coppia deve diventare consapevole dei suoi limiti, delle sue fragilità, per fare di queste la spinta verso la crescita.
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta», dice San Paolo: il tesoro è l’unità dei due e i vasi di creta sono le nostre persone, che come disse San Giovanni Paolo II: «Possono rompersi e per questo si richiede la massima cura».
La vita matrimoniale si può paragonare ad una danza, una danza sulle uova, poiché bisogna sapersi muovere con delicatezza e rispetto con la consapevolezza che siamo fragili. Come tutte le danze, anche quella nuziale ha passi ben stabiliti che possono aiutare la coppia a vivere la sua vocazione in pienezza. Gli sposi sono chiamati a portare il Cristo con la loro umanità, la loro è una vocazione particolarmente “incarnata” che trova compimento nel quotidiano della storia degli uomini. Sono chiamati alla santità nella vita di tutti i giorni e la santità si esprimerà nelle scelte quotidiane, nella vita ordinaria vissuta in modo straordinario. La loro danza sarà fatta con passi che coniugano corpo e spirito, psicologia e fede, dove il divino e l’umano danzando insieme esprimeranno quella danza nuziale divina tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
L’amore per crescere deve poter danzare, deve essere ricevuto e donato nella piena gratuità e libertà. L’amore deve danzare tra gli sposi, tra loro e Dio, tra loro e il mondo, perché solo se esce può rinnovarsi e ritornare indietro arricchito. Il guaio è che spesso non si ha voglia di ballare, oppure non si è molto capaci. Ma il Signore ha pensato anche a questo. Ha messo accanto agli sposi un maestro di ballo, un allenatore: lo Spirito Santo.
Il dono dello Spirito aveva già reso coraggiosi e zelanti i pavidi apostoli che ancora avevano paura di affrontare il mondo nel nome di Gesù, Crocifisso, Risorto e asceso al cielo. Lo Spirito non è nient’altro che il modo con cui Dio abita in noi. Dunque lo Spirito Santo non è un dono di Dio, ma Dio che si fa dono. La presenza dello Spirito Santo negli sposi dà loro la forza di sperare, li rende capaci di amarsi “da Dio”.

3. «Lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2)
 La danza di coppia richiede dunque un impegno, un allenamento quotidiano. Ma quali sono gli “esercizi” più efficaci per crescere nell’amore coniugale?
Certo tutto serve. Servono la messa, il sacramento della riconciliazione, il volontariato, l’amicizia, il far bene il proprio dovere. Ma tanti strumenti sono per tutti. Ci sono invece aiuti specifici, doni e vie peculiari del sacramento del matrimonio che sono spesso sottovalutati e non conosciuti. Infatti anche i monaci hanno certi mezzi (come la regola, per esempio) che sono tipici della loro scelta; e i preti ne hanno altri (come l’Ufficio delle ore o l’impegno pastorale) che non sono richiesti in ugual modo ai laici o agli sposi.
Possiamo allora identificare tre specifiche vie, adatte per gli sposi, camminando nelle quali essi crescono, si perfezionano, si santificano: esse sono la vita di relazione, la sessualità, la preghiera di coppia.

3.1 La vita di relazione
È l’insieme di tutte quelle attenzioni che fa di due persone distinte e diverse un cuore solo e un’anima sola. C’è tutta una scuola per arrivare alla relazione perfetta. Se mai è possibile arrivarci, perché la Relazione perfetta è la Trinità. La Trinità è un modello di relazione d’amore da tenere sempre sotto gli occhi, ma avvicinarsi a questo modello non è un fatto spontaneo; va cercato con decisione, anzi, con tante piccole, concrete, decisioni quotidiane. Insomma, è una specie di conversione, ci sono cose da imparare:
– c’è da imparare l’ascolto, imparare a capirsi. Non basta udire con l’orecchio: l’udito è poco,  l’ascolto è di più! Si ascolta e si comprende l’altro anche con gli occhi, con il tatto e con il linguaggio del corpo. E soprattutto col cuore. Ascoltarsi è un’arte assolutamente necessaria in una coppia;
– c’è da imparare il dialogo. Perché esista un autentico matrimonio occorre una vera comunicazione, la più intima e personale possibile. Non è sufficiente parlare della gestione e dell’educazione dei figli, o parlare delle varie necessità per la casa, o dei parenti o del lavoro. Prima di ogni altra cosa bisogna comunicare quello che viviamo dentro, quello che proviamo interiormente;
–  c’è da imparare ad arrivare alle decisioni insieme; non come due scapoli che vivono sotto lo stesso tetto, ma come due persone che tendono ad essere “una sola carne”. C’è tutto un lavoro interiore da fare (spesso molto difficile), per evitare la prepotenza (c’è anche quella gentile fatta di furbizia e di ricatti), oppure, al contrario, per non finire con lo spartirsi le cose di casa come buoni “soci” (tu i figli e la scuola, io gestisco i soldi e la casa…);
–   c’è da imparare a riconciliarsi dopo i litigi, concedendo il perdono e riconoscendosi bisognosi di perdono (che è la cosa più difficile) per ricostruire la relazione.
Tutto questo può sembrare un impegno “laico”, solo terreno, non una strada di santità. Eppure questo ascoltarsi, dialogare, perdonarsi è una via ascetica della coppia, per vivere integralmente il matrimonio come “sacramento” e non semplicemente come una società umana o un contratto.

2. La sessualità
Dobbiamo tenerci lontani dall’idea di sessualità vista come paura, pericolo, come debolezza o cosa sporca. La vita intima degli sposi fa parte del cammino verso la santità, anzi proprio da qui passa la loro chiamata. Il loro primo compito è quello di curare l’altro, amarlo e rispettarlo, donando tutti se stessi.
Fare bene l’amore, con la tenerezza, il rispetto, l’attenzione all’altro, aiuta gli sposi a vincere l’egoismo e li educa al dono di sé. Forse ciascuno di noi, istintivamente, non sarebbe portato a cercare prima di tutto il bene dell’altro. Di fatto però, proprio questo rapporto con l’altro (con te che mi rimproveri il mio egoismo, che mi fai presente le tue esigenze che io non avrei capito e che spesso non voglio capire, con te che mi ricordi i tuoi ritmi diversi dai miei e mi insegni a rispettarli..), proprio questo rapporto coniugale, quindi, anche fisico, diventa un continuo allenamento ad andare oltre se stessi per imparare ad amare; diventa una vera scuola quotidiana di sacrificio, pazienza, fiducia, altruismo. Insomma un’imitazione dell’amore sponsale di Gesù per la sua Chiesa.
La stanza nuziale diventa un altare dove i due sposi si donano totalmente in modo totalmente gratuito e l’atto sessuale diviene uno dei più intensi momenti di preghiera che la coppia può vivere. Come il prete sull’altare in Persona Christi consacra le ostie che diventano il corpo di Cristo Sposo offerto per la salvezza della Chiesa sua Sposa, così gli sposi nell’atto sessuale diventano quel corpo di Cristo che si dona totalmente per la salvezza dell’altro. Diceva San Bonaventura che «nell’unione carnale gli sposi si uniscono di più alla chiesa come ogni uomo nell’Eucaristia si unisce di più alla Chiesa» e nella concretezza della loro casa essi vivono ciò che Gesù ci dice: «Quando due saranno radunati nel mio nome io sarò con voi».

3. La preghiera coniugale (e di famiglia)
Buona cosa certo è pregare da soli: tu cresci, io cresco, perciò noi cresciamo. Buona cosa è anche quando marito e moglie pregano contemporaneamente. Ma preghiera coniugale è soprattutto quando gli sposi sono insieme e ognuno dei due ha ben presente l’altro; quando lo sguardo non è fisso nel vuoto o in un Dio lontano, ma nel Dio-Amore che è presente fra loro.
Gli sposi pregano l’un per l’altro, insieme, con la mano che si stringe, con i corpi che sono vicini, con lo sguardo che si incrocia, con il cuore che nel frattempo si perdona e rafforza la relazione. Questa preghiera è molto “incarnata”, è segnata dagli avvenimenti quotidiani: se ci sono difficoltà, se ci sono incomprensioni, se si litiga e non si riesce a perdonarsi, allora come è importante affidarsi al Signore, mettersi insieme di fronte a un crocifisso, ad un’icona. Pregando, si chiede scusa a Dio per gli errori, dicendo a lui quello che in quel momento non si riesce a dire al coniuge e lasciando che sia il Padre a fare da mediatore, che sia lui a trasformare la durezza del cuore in tenerezza. Nei momenti belli, diventa importante saper ringraziare per tutto ciò che ci è donato, per il coniuge, i figli, gli amici, la comunità, ma anche per il lavoro, la natura per quelle cose che sembra normale che ci siano, questo aiuta gli sposi a non dare mai niente per scontato, a coltivare lo stupore per la “bellezza” che salverà la loro vita.
A volte si cade nella tentazione di dire che manca il tempo per la preghiera, che alla mattina è difficile e alla sera si è stanchi, e che per pregare insieme ci vuole tempo. In una coppia bisogna imparare a gestire la preghiera insieme con molta elasticità e creatività. Papa Giovanni XXIII aveva suggerito agli sposi una preghiera semplice ma piena di significato, il bacio dell’anello nuziale prima di andare a letto. Questo gesto racchiude in sé tutta la promessa che gli sposi si sono fatti l’un l’altro in Dio e la rinnova quotidianamente, e quando in periodi di fatica non si riesce a vivere tempi di preghiera più prolungati ecco che gesti semplici come questo permettono di “rimanere” insieme nel Signore.
Come la vita di una coppia non può essere rigida, così è della preghiera coniugale. Per questo è importante:
allenarsi: allenare il cuore e la mente alla presenza di Dio nella propria vita, alla presenza di Dio nel coniuge e in tutte le persone che si incontrano;
– sperimentare: bisogna anzitutto trovare uno stile che rispecchi la coppia (non sempre il modo di pregare singolarmente si adatta ad essa); poi bisogna trovare tempi, forme e modalità diverse a seconda della fase della vita di coppia e di famiglia, affinché la preghiera rimanga una costante imprescindibile nella vita di sposi;
perseverare: ci è chiesto di “pregare incessantemente” (1Ts 5,17) è questo è possibile nella misura in cui i momenti della vita, i gesti tipici del matrimonio e le azioni della giornata sono vissuti bene, in Dio, magari preceduti da una breve invocazione e conclusi con un rendimento di grazie, allora la vita stessa diventa preghiera della coppia.