N.02
Marzo/Aprile 2018

Ago o forbici? La sapienza dell’ascolto nelle diverse tradizioni religiose

«U n re, un giorno, rese visita al grande mistico sufi Farid. Si inchinò
davanti a lui e gli offrì in dono un paio di forbici di rara
bellezza, tempestate di diamanti.
Farid prese le forbici tra le mani, le ammirò e le restituì al visitatore dicendo:
“Grazie, Sire, per questo dono prezioso: l’oggetto è magnifico, ma io
non ne faccio uso. Mi dia piuttosto un ago”.
“Non capisco”, disse il re. “Se voi avete bisogno di un ago, vi saranno
utili anche le forbici”.
“No”, spiegò Farid, “le forbici tagliano e separano. Io non voglio servirmene.
Un ago, al contrario, cuce e unisce ciò che era diviso. Il mio insegnamento
è fondato sull’amore, l’unione, la comunione. Mi occorre un ago per
restaurare l’unità e non le forbici per tagliare e dividere”» (J. Vernette,
Parabole d’Oriente e d’Occidente, ed. Droguet et Ardant).

Coordinato da don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio CEI
per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, il tavolo a cui hanno
partecipato alcuni esponenti delle diverse tradizioni religiose presenti
sul territorio nazionale – e che fanno dell’Italia plurale una realtà ormai
consolidata più che un miraggio da raggiungere – ha assunto già
dalle prime battute l’aspetto di un ricco lavoro di tessitura. Secondo
le suggestive testimonianze di chi si è seduto attorno a questo “telaio
dell’ascolto”, in un intreccio tra l’ordito dei testi sacri propri di ogni
tradizione e la trama delle esperienze di vita condivise, si è dipanato
un tessuto che ha restituito l’essenza poliedrica di ogni spiritualità,
che trova nella relazione il suo nucleo fondamentale.

«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in
vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque
in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone,
tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina
tutti gli uomini. […] Essa perciò esorta i suoi figli affinché,
con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione
con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza
alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano
progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano
in essi» (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni
non cristiane Nostra aetate, n. 2).

Don C. Bettega ha ricordato anzitutto come il tema dell’ascolto
sia generato da quello della ricerca del volto di Dio, del luogo della
sua dimora (cf Gv 1,35-42, la pericope evangelica di quel giorno), ma
questa ricerca trova un approdo solo quando ci si lascia introdurre in
un’esperienza di comunione. «L’ascolto lascia essere l’altro, lo lascia
esistere senza interpretarlo, senza sovrapporgli le proprie comprensioni,
ma al tempo stesso coinvolgendosi con lui, dicendogli che è
interessante per noi. L’ascolto è dare tempo all’altro, rispettare e attendere
i suoi tempi; rompe con i pregiudizi sull’altro, fa tacere i pregiudizi
» (Brunetto Salvarani, Un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Il dialogo come racconto di vita, Città Nuova Editrice, Roma 2016).

Il primo ad offrire la sua testimonianza è p. George Khachidze,
parroco greco-ortodosso di San Gerasimo di Perugia. Genitore di
tre figli, afferma che interlocutori privilegiati e destinatari prioritari
dell’ascolto sono anzitutto i giovani. «Il mestiere più difficile in
Italia è quello dei genitori. Devono preparare il terreno in cui i figli
crescono. Soprattutto dal punto di vista spirituale; educare l’infanzia
è di primaria importanza». Nella nostra cultura secolarizzata ed
iper-tecnologizzata, i giovani appaiono sempre più confusi, delusi,
rispetto alle ingiustizie del presente e alle incertezze del futuro.
Questa inquietudine appesantisce il loro cuore e «non permette
loro di conservare la libertà autentica, la decisione di camminare
verso la felicità, in una retta coscienza e in una vita pacifica».

Ma per entrare in dialogo con loro e aiutarli a «cercare anzitutto il Regno
di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33), occorre crescere nella virtù
della pazienza, quella del contadino che semina, attende, miete e
raccoglie. Padre Khachidze ha ricordato come tutti noi abbiamo fatto
esperienze deludenti, poco ascolto da parte di chi a diverso titolo
è chiamato ad esercitare questo ministero nella Chiesa. Il titolo dato
al Convegno, “Dammi, Signore, un cuore che ascolta” diventa allora
«un’eccellente invocazione, non solo per
i sacerdoti durante la confessione, la preghiera
o la visita agli ammalati, ma anche
per tutte le volte che debbano entrare in
relazione con il prossimo. Occorre ascoltare
soprattutto i bisognosi, i malati, che non
chiedono il pane, ma di essere ascoltati. L’esperienza
spirituale che noi stessi abbiamo
vissuto è la migliore testimonianza che possiamo
offrire umilmente e pazientemente
ai giovani. I gesti umili e semplici di Papa Francesco ne sono un
esempio illuminante».
Un altro contributo è quello del rabbino Roberto Della Rocca
che ha ricordato come il popolo ebraico sia essenzialmente il popolo
dell’ascolto, centro della vita liturgica, attraverso lo studio della Torah
e l’applicazione dei suoi principi. Il riferimento scritturistico più
immediato è Dt 6, «Shema Israel, il Signore è il nostro Dio, il Signore
è Unico», ma la prima volta che compare la parola “ascolto” è in
Gen 3, quando Adamo ascolta la voce di Dio che incede nel giardino
dell’Eden e a lui, che si nasconde dalla sua presenza, domanda: «Dove
sei?», per toglierlo dal senso di colpa e rendergli nuovamente la possibilità
di dialogare con Lui. Il primo dialogo nella Bibbia in cui ci si
ascolta a livello interumano è in Gen 12, quando Abramo rivolgendosi
alla moglie Sara dice: «Tu sei una donna molto bella!». L’ascolto inizia
in famiglia, nella coppia, dove la dialettica dell’alterità nasce nella
consapevolezza di un legame di reciprocità. I tentativi precedenti sono
infatti falliti. In Gen 4, prima dell’uccisione di Abele da parte di Caino,
la Scrittura lascia incompiuto un dialogo tra i due fratelli. «Il primo
omicidio, che non a caso è un fratricidio, è la conseguenza di un’incapacità
di dialogo, di ascolto. Quando non si riesce ad ascoltare, si arriva alla violenza.

Lo stesso succede a Babele; laddove l’uomo cerca di
raggiungere Dio creando modelli di prevaricazione e di dominio. Nessuno
guarda in faccia il proprio prossimo. Ci si guarda dall’alto verso
il basso, ma non ci si guarda, né ci si ascolta». L’ascolto della voce di
Dio deve vederci non come robot che eseguono meccanicisticamente
i suoi precetti. Il rabbino ha ricordato come l’esperienza dell’ascolto
nella Torah raggiunge una espressione altissima nell’episodio narrato
in 1Re 19 in cui Elia, costretto a fuggire nel deserto, si nasconde nella
fenditura della roccia e lì incontra Dio, che si rivela nella “voce di silenzio
sottile”. «La grande esperienza di ascolto è quella di tornare a percepire
il silenzio. In questa cultura così ricca di interferenze, dobbiamo
tornare all’ascolto interiore, per ascoltarci in profondità»

Occorre ascoltare soprattutto
i bisognosi, i malati, che
non chiedono il pane, ma un
tempo per essere ascoltati.
L’esperienza spirituale che
noi stessi abbiamo vissuto è
la migliore testimonianza che
possiamo offrire umilmente e
pazientemente ai giovani.
Dopo il rabbino ha preso la parola Sanaa Claudia Pizzuti,
responsabile della sezione giovanile della COREIS (Comunità Religiosa
Islamica Italiana). Sanaa ha ricordato che nella tradizione
islamica tutta l’esistenza ha inizio e si conclude con l’ascolto.
«L’ingresso del musulmano nella comunità islamica inizia quando
il padre sussurra nell’orecchio del neonato la chiamata alla preghiera
e la professione di fede islamica (“Non vi è Dio se non Iddio”:
professione dell’unicità di Dio, e “il profeta Mohammed è il suo inviato”:
professione dell’unicità dell’Islam e caratterizzazione rispetto
agli altri monoteismi). Secondo la dottrina islamica l’udito è l’ultimo
dei sensi a scomparire; quindi, quando tutte le funzioni vitali
sono ormai spente, esso è ancora attivo. È importante in questo
momento di avvicinamento a Dio, ricordare al credente chi è Dio
tramite il suono e la rivelazione».

La stessa parola “Corano”, che significa “recitazione”, ci suggerisce
che la trasmissione della Rivelazione
è avvenuta per via orale, ed è attraverso
la voce dei muezzin che per cinque volte
al giorno i fedeli sono chiamati alla preghiera
attraverso il Verbo di Dio. L’inquinamento
acustico in cui siamo immersi
viene purificato da questo ascolto che
ci permette di non distrarci da ciò che è
essenziale. Lungi dal pensare alla realtà
come qualcosa di negativo da cui fuggire,l’educazione all’ascolto ci permette di fare discernimento «tra i suoni
che ci allontanano da Dio e la voce di Dio tra questi suoni», perché
«tramite il riconoscimento dei suoi segni si può entrare in uno stato
di grazia e si può aprire il cuore all’ascolto degli altri». Per imparare
ad ascoltare occorre imparare a coltivare «un atteggiamento ed una
condotta elevati, ad immagine di quelle della gente del paradiso».
Secondo la cavalleria spirituale di Abd Al Rahman Sulami, che
recita l’ultimo versetto del Corano, «in Paradiso non si odono futilità,
si sente solo Pace». Occorre dunque liberare il nostro cuore «dalle
cose inutili, dai giudizi, dalle aspettative, dall’orgoglio, dall’invidia
e da tutte le cose negative che rimbombano nel cuore e non che
ci sia quel vuoto positivo, quel silenzio che permetta di far scendere
dal cielo il suono di Dio e la vera pace».
«Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità (umma)
unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate
dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti ritornerete, allora
Egli vi informerà di quelle cose per cui ora siete in discordia!»
(Corano, V, 48).
La pratica di questa “competizione” ha fatto vivere ai giovani del
Coreis un’esperienza di alcuni giorni tra Assisi e Siena durante le
ultime vacanze di Natale, in cui hanno visitato i luoghi di Francesco
accolti dall’ospitalità dei frati, la sinagoga di Siena e il santuario di
Santa Caterina, dopo aver fatto visita al Vescovo locale.

Il pastore valdese Luca Baratto ha portato la testimonianza di
una chiesa che, come lui ha sostenuto, ha rischiato di scomparire a
causa di una pesante crisi economica,ma che attraverso l’ascolto della
Parola di Dio ha ridefinito i modi della sua
presenza evangelica nel mondo e ha rifondato
il senso della sua vocazione. Il suo intervento
ha uno sviluppo pro-vocante. L’ascolto
del cuore è “operazione ambigua”: a volte
nella Bibbia sono descritte vicende in cui i
cuori si accordano e stringono “la mano di
associazione”, secondo l’espressione del teologo
John Wesley, fondatore del movimento
metodista, per compiere azioni inique; altre
volte, com’è successo ad Anna nel santuario
di Silo (cf 1Sam), si sperimenta la frustrazione di non sentirsi adeguatamente
ascoltati nella propria incapacità di articolare parole. Le
nostre chiese sono capaci di ascolto? Da un lato si rischia di fare come
Eli, che fraintende la preghiera di questa donna e va in cerca di una
mediazione che le permetta di stare alla presenza del Signore.

Osvaldo Thupten Tharpa, monaco buddista tibetano, ha posto
l’accento sull’importanza del silenzio nella pratica dell’ascolto.
Il silenzio pone le persone in un atteggiamento non giudicante,
depone il flusso concettualizzante della mente e ci predispone ad
accogliere il contributo che, dentro di noi o nella realtà intorno a
noi, nella sua originalità ci permette di giungere alla meta della conoscenza
e della verità. La vita è un pellegrinaggio e la destinazione
viene raggiunta attraverso l’ascolto di ciò che è altro da noi.
«Nel buddismo ci sono tre saggezze da sviluppare e ciascuna è
propedeutica a quella successiva. Anzitutto l’ascolto, poi la riflessione
ed infine la meditazione. Tramite l’ascolto, il Dharma è compreso,
la condotta errata è eliminata, il senza significato è abbandonato
e il Nirvana è ottenuto». L’ascolto offre i contenuti per la riflessione,
che discerne il senso di ciò che è stato ascoltato, accogliendo ciò che
è significativo per noi abbandonando quello che non lo è. Infine la
meditazione ci fa rientrare in noi stessi e attraverso la Citta (“mentecuore”,
un tutt’uno in sanscrito) siamo condotti al Nirvana, che è
la pace suprema, l’intuizione perfetta. È la nostra esperienza più
intima e profonda. L’ascolto è un atto di grande umiltà e forza, perché
rivela il senso del cammino di tutti e di ciascuno; sentirsi amati
esercitando compassione gli uni verso gli altri.

L’ultimo è il contributo di Svamini
Hamsananda Giri, dell’Unione Induista
Italiana. La sorellanza tra le religioni
permette di superare la paura del
dialogo che si pensa possa indebolire o
portare al sincretismo, reca in dono la
capacità di trasformare i cuori e farci diventare
amici. La tradizione induista ha
il suo cuore nei Veda, i testi sacri, che
vengono indicati anche con il termine Shruti, che significa “ascolto”.

L’ascolto è la parola primordiale,
la parola di Dio che si manifesta nel cuore del mondo, e questa
epifania diventa esperienza. Il rishi è il saggio che percepisce questa
conoscenza e trasmette questa parola! È il veggente, la parola
rivelata che dà la luce della conoscenza.
Nell’inno cosmogonico chiamato Nasadiya Sukta, il poeta tenta
con le sue parole di spiegare l’originemisteriosa del nostro essere: «In
principio Amore sorse, la primitiva cellula germinale della mente. I Veggenti,
indagando nei loro cuori con saggezza, scoprirono la connessione dell’Essere
nel Non Essere». Quando ascolta il veggente? Quando indaga nel suo
cuore con saggezza, il suo cuore è puro ed è in silenzio. Il silenzio
genera la parola. L’induismo non è la religione del Libro, ma della
Parola. «Ricorda ciò che è stato ascoltato!»: la conoscenza si trasmette
dalla bocca all’orecchio. Secondo la sapienza induista, sono tre gli
imperativi dell’ascolto: primo ascolta, secondo medita, terza realizza.

La saggezza consiste nel realizzare la coerenza del pensiero con l’azione.
“Cuore” in sanscrito è Hredayam, il luogo della compassione,
dove la mente si unisce con il cuore, è il luogo dell’incontro. «Io e te
siamo uno», questo è il gesto riverente dell mani unite sul cuore con
cui ci si saluta, si riconosce la presenza del divino che abita nell’altro.

Camminare nell’ascolto significa imparare a vivere nella con-cordia.
«Concordi siano i vostri cuori»: così terminano i Veda.

Con un appello alla concordia si è concluso il tavolo di testimonianze
molto ricche e affascinanti. La policromia delle tradizioni condivise
ha permesso di esplorare racconti differenti, cogliendo un’armonia
fatta di assonanze che riconducono a ciò che è essenziale. Allargando
la mente e il cuore, sono risuonate le parole dell’Evangelii
gaudium: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice
somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da ragionamenti
limitati e limitanti. Bisogna sempre allargare lo sguardo per
riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Occorre
farlo senza evadere, senza sradicamenti. […] Allo stesso modo,
una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde
la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità,
non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo.[…]
Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le
parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (nn. 235-236).