N.02
Marzo/Aprile 2018

La vocazione di perdersi

Ho scelto per questo intervento lo stesso titolo di un mio libro, La vocazione di perdersi, perché riassume bene il senso delle mie esperienze nella natura, che potrei definire in senso lato “avventure di ascolto”, con tutti i sensi e con tutte le nostre facoltà di comprensione. Del resto la natura stessa, nel dare vita all’infinità delle creature, segue una simile vocazione: da quelli che chiamiamo errori genetici, o deviazioni dalle informazioni già presenti, nascono nuove specie, e la meraviglia della molteplicità. Anche per noi le scoperte che cambiano la vita avvengono quando accettiamo la possibilità di uscire dalla strada nota, e attendiamo di vedere che cosa succede.

Ho avuto la fortuna di conoscere la natura fin da bambino, in particolare la montagna, frequentandola con i miei genitori, e poi con gli amici. Le scoperte dell’infanzia sono le più preziose, se riusciamo a valorizzarle lungo la vita. La familiarità con la natura che ho sempre coltivato mi ha permesso di esplorare dimensioni oggi dimenticate, ma che erano quotidiane per gli uomini arcaici, e che ancora oggi possono parlarci delle radici della nostra anima.

Fin da bambino sentii la necessità di recuperare una relazione profonda con il creato, la cui mancanza mi suscita un vuoto spirituale e cognitivo. Le conoscenze odierne, come quelle affascinanti sulle origini dell’universo illustrate nel precedente intervento del professor Marco Bersanelli, ci permettono di percepire un mistero ancora più grande delle visioni astratte e non documentate del passato, quando non ci si rendeva conto delle potenzialità davvero incredibili di ciò che chiamiamo materia. Pensare che pochi tipi di particelle elementari, semplicemente entrando in relazione tra loro secondo innumerabili combinazioni, in quattordici miliardi di anni hanno dato vita all’universo immenso, alla meravigliosa biodiversità e perfino a tutti noi che ci troviamo in questa sala con i nostri sentimenti, le emozioni e l’immaginazione, ci dice che ogni stupore è più che giustificato. Il mistero ci riguarda perché è evidente che noi stessi siamo un suo prodotto.

Anche da ciò nasce il desiderio di perdersi rispetto alle strade pianificate dall’uomo, seguendo la nostalgia di una relazione diretta, non mediata, non tecnologica, col mistero del divenire. Perdersi significa rinunciare all’illusione della sicurezza offerta da apparati umani: non per cercare il rischio, ma per poter ascoltare ciò che il rumore della civiltà non lascia più udire.

Questa mia avventura iniziò consapevolmente quando avevo 19 anni, il pomeriggio stesso dopo l’esame di maturità, assieme al primo di 8 amici che si sarebbero scambiati al mio fianco: partii per attraversare a piedi le Alpi da mare a mare, da Ventimiglia a Trieste. Il grande arco della catena alpina non mi appariva un ostacolo, ma una possibile via: un segno sulla superficie della terra che, proprio perché più impervio e meno abitato delle pianure, permette di ritrovare lungo di esso la natura e la sua selvaticità.

Non la intesi un’impresa sportiva: nato e cresciuto in città, volevo scoprire fino a che punto avrei saputo adattarmi a una vita nomade attraverso le montagne, e che cosa, in quei mesi di cammino, la natura avrebbe potuto dirmi. Ciò che contava era la durata, la permanenza in quella natura, necessaria per abbandonare le abitudini e ascoltare ciò che è diverso. Ogni ricerca di saggezza e spiritualità ha bisogno di un deserto.

Perciò, fin dalla prima notte, decidemmo di dormire all’aperto, solo col sacco a pelo e una stuoia. Si trattava di togliere le protezioni della casa e anche della tenda, per restare immersi nel contatto diretto col divenire della natura. Non sapevo se ne sarei stato capace: temevo di non riuscire a recuperare la fatica di ogni giorno. Invece, col passare delle settimane, non solo ogni preoccupazione svanì, ma scoprii di non aver mai dormito meglio come sotto alle stelle. In caso di maltempo trovavamo sempre un riparo occasionale, in una malga abbandonata o sotto un masso sporgente. Mi sentivo accolto dalle montagne, col sentimento di essere tornato a casa: una casa aperta, senza muri, grande come il mondo.

Durante quegli 81 giorni ci trovammo spesso di fronte a scenari meravigliosi, a tutte le quote delle Alpi, fino sui ghiacci delle più alte cime. Ma l’esperienza che più mi colpì fu quanto si viveva nei giorni di maltempo, nella nebbia o nella tormenta. Quando non c’erano tracce né sentieri, e pareva difficile non perdersi; invece poi ci ritrovavamo su una buona strada, o sulla cima invisibile nella nebbia: come se la via si aprisse da sola davanti ai nostri passi.

Arrivato all’altro mare, presso Trieste, ero per certi aspetti un’altra persona: avercela fatta mi faceva sentire più piccolo! Il concatenarsi degli eventi di quell’avventura mi aveva fatto provare la relazione con qualcosa che è più grande di me. Il cammino può aprirci a questo sentimento, e mostrarci amica la realtà che ci sta intorno.

Molte volte sono ripartito, anche con nuovi amici. Il mio cammino più lungo, a 23 anni, fu la traversata della Norvegia da sud a nord, dalla primavera all’autunno. La terra nordica, molto più selvaggia e disabitata delle Alpi, rendeva necessario inventare un percorso originale, spesso senza sentieri, ideando una via grazie alla sola lettura delle forme naturali della terra. In quei 150 giorni d’avventura ebbi molte più occasioni di andare attraverso l’ignoto, nel maltempo prolungato. L’incertezza del percorso nelle nubi rafforzò i precedenti sentimenti: mi pareva di non essere io a trovare la strada, ma che fosse la strada a trovare me.

In seguito, traversando l’Islanda da est a ovest con un amico, a 29 anni, affrontammo anche il più grande ghiacciaio d’Europa, vasto come la Corsica, circa 8400 Kmq. Su quella distesa era come trovarsi in mezzo al mare, senza riferimenti. Tutto era bianco, in ogni direzione. E anche la mappa era tutta bianca! Fu l’occasione per imparare a interpretare le direzioni indicate dal sole nel suo moto apparente intorno alla terra. Bastava tenere conto dell’ora, e il sole ci mostrava la posizione dei punti cardinali, anche meglio di una bussola. Ci guidò per giorni e giorni, in mancanza di ogni altro riferimento, attraverso deserti di ghiaccio e di pietra. Fu un insegnamento ad avere fiducia in qualcosa che, come una stella, è più grande di noi.

Dopo molte di queste esperienze cominciai ad avvertire una grossa contraddizione nella frequentazione umana della natura. Erano gli anni ’90, i tempi della prima guerra del Golfo. Si mostrava come grazie al GPS fossero i satelliti a guidare i missili sui bersagli, “senza possibilità di errore”. Con mia sorpresa, molti esploratori iniziarono a usare lo stesso metodo per farsi guidare dai satelliti del Pentagono o del Cremlino lungo itinerari prefissati. In teoria non c’era più bisogno di guardare il mondo: si sarebbe potuto attraversare un deserto riferendosi solo allo strumento, con la testa dentro un sacco. Si perdeva ciò che per me è più importante nella natura: ascoltare ciò che è altro dalle opere umane.

Assieme a un vecchio compagno di traversate, pensai che fosse il momento di reagire, invertendo quella tendenza: provare ad attraversare un territorio selvaggio eliminando anche gli strumenti tradizionali; quindi la mappa materiale, la bussola, l’orologio, e ogni telecomunicazione. Potevamo contare su una lunga esperienza, e anche sulla consapevolezza che sia gli animali migratori, sia gli umani antichi, hanno sempre avuto la capacità di orientarsi nel mondo senza bisogno degli strumenti moderni, “ascoltando” gli infiniti eventi della natura. Fu come un tornare ai primordi della nostra interpretazione dell’esistenza, compresa la spiritualità.

L’idea fu di basare il cammino su una “mappa mentale”; cioè dotare la nostra memoria di una semplice rappresentazione schematica dell’enorme regione che volevamo attraversare, la Lapponia norvegese. Su una distanza in linea d’aria uguale a quella fra Trieste e Aosta, ovvero 500 km, si estendono altopiani disabitati, dove c’è possibilità di incrociare solo tre strade e tre piccoli villaggi. Il resto è tundra, montagne, laghi e fiumi. Non memorizzammo dettagli, ma solo la posizione delle coste, dei gruppi montuosi, dei laghi più vasti e le conformazioni dei maggiori bacini idrografici. Tutto questo, assieme al girare apparente del sole intorno all’orizzonte, ci sarebbe servito come riferimento per orientarci. Poi, nella nostra interiorità, avremmo aggiornato giorno per giorno questa mappa mentale che si sarebbe arricchita anche di sentimenti, nuovi ricordi, desideri. Qualcosa di meraviglioso rispetto a una mappa materiale.

Il fatto straordinario fu che dopo non molti giorni scoprimmo di poter tenere la rotta senza problemi, come se avessimo avuto gli strumenti tradizionali. Significò liberarsi da tante esigenze che il nostro contesto sociale impone, ma che, di fatto, non corrispondono a bisogni essenziali. Sperimentammo come togliendo delle cose che si credono indispensabili, si venga raggiunti da una grande libertà e da una profonda relazione col mondo vivente. Tutto quello che accade diviene importante per tenersi sulla via, per questo si impara a notarlo e apprezzarlo.

In questa dimensione, libera rispetto a molti preconcetti culturali, si può avvertire farsi strada in noi una forma di preghiera arcaica: è la spiritualità primordiale del parlare di tutto con ogni cosa del mondo. Oggi la si chiama animismo, ed è stata tipica di tutte le popolazioni di cacciatori e raccoglitori; ma non è legata a una specifica confessione religiosa, è semplicemente la radice della religiosità; tanto che questo dialogo con ogni creatura caratterizzò la vita di San Francesco d’Assisi. È un dialogo che dona serenità, perché fa sentire immersi in una relazione con ogni divenire; offre la fiducia di pensare che presto qualche evento ci rivelerà la via anche nella nebbia, se sapremo ascoltare e capire.

Tutto ciò accade proprio perché la via non è prestabilita, si costruisce passo dopo passo, è anzi una sorta di esercizio spirituale. Non significa forzare il pericolo, al contrario: saper ascoltare ogni suggerimento dell’ambiente diventa la vera meta, quindi ogni intenzione può mutare; può essere bello cambiare strada, fare il giro, accettare l’imprevisto.

Per chiarire cosa intendo, accenno a un’esperienza esemplare accaduta durante una delle numerose avventure senza mappe e senza bussola vissute da allora. Eravamo tre esperti amici, col progetto di compiere un vagabondaggio senza meta obbligata in pieno inverno e con gli sci, dentro il grande deserto lavico innevato islandese chiamato Ódáđahraun. L’unico obbligo era riuscire a tornare al villaggio di partenza, Reykjahliđ, entro 20 giorni, prima dell’esaurimento dei viveri che trascinavamo su slitte.

Nelle tempeste che spesso imperversarono, contò il semplice permanere nel deserto bianco, imparando anche a sostare, in attesa di momenti adatti a ripartire. Dopo 11 giorni di un’affascinante Odissea, fu tempo di iniziare il ritorno verso il villaggio, per una strada nuova, perché le tormente avevano cancellato le tracce sul cammino già compiuto. Dopo una settimana senza visibilità, ci affidammo al vento per cercare di tenere una rotta verso nord ovest, dove pensavamo, a intuito, si trovasse Reykjahliđ. Avevamo capito che il vento veniva da est: lo tenevamo dunque sul fianco destro, un po’ da dietro, e la sua pressione ci guidava in un biancore assoluto. Era il whiteout, in cui la nebbia nell’aria e la neve al suolo si fondono perfettamente, creando una cecità bianca anziché nera. Andammo così tutto il giorno. Un’esperienza per me meravigliosa: si trattava di un esercizio di fiducia pura. Avanzare senza vedere, scoprire che si può contare sul semplice vento, è una gioia rivoluzionaria, che si può provare, ma difficilmente narrare.

Ma tutto parve contraddirsi: all’alba del giorno dopo tra le nebbie apparve il sole per qualche istante: era dalla parte opposta a quella che ci aspettavamo! Durante la marcia, il vento aveva girato di 180 gradi, e noi con lui. Stavamo rientrando nel deserto, non uscendone!

Sostammo in tenda senza prendere decisioni affrettate, e per un giorno riflettemmo, facendo anche uno schizzo sul quaderno per ragionare su dove potessimo essere. Ma non si poteva stabilire in che senso il vento avesse ruotato: era come trovarsi in un esperimento mentale ideato da Albert Einstein per spiegare la relatività.

Avendo recuperato l’orientamento grazie alla breve apparizione del sole, il giorno dopo ripartimmo verso nord: prima o poi avremmo raggiunto la strada costiera islandese. Stranamente, dopo alcune colline, ci trovammo a seguire una sorta di vallone perfettamente piano, senza ostacoli, diritto nella nostra direzione. C’era nebbia, ma il vento da nord riprese a guidarci. Solo a sera il corridoio piano finì di colpo: davanti si apriva un bassopiano, e subito le nubi si diradarono. Restammo stupefatti: proprio davanti a noi, all’orizzonte, apparvero il lago Myvatn e il villaggio di Reykjahliđ!

Il fatto era straordinario. Proprio quando ci eravamo creduti persi nella nebbia, gli eventi ci avevano guidati non solo verso la meta, ma lungo la via migliore, la più pianeggiante e senza ostacoli. Lo constatammo da una sommità, nell’aria ormai limpida: perdendoci, avevamo imboccato l’unico percorso non impervio del deserto. Se ci fossimo affidati a strumenti umani, mappe e GPS, avremmo semplicemente seguito le indicazioni per imboccare quella via. Invece, accettando di non sapere, incontrammo qualcosa di inspiegabile, e tuttavia presente: il mistero di una compagnia nell’invisibilità. Eventi molto simili mi sono accaduti in ogni altro percorso vissuto senza mappe; per questo non li considero un caso, ma il frutto di una relazione reale, il cui mistero va rispettato.

La montagna non mi ha portato solo a questa intimità col divenire della natura, ma mi ha introdotto anche a un’avventura di riscatto umano che ha contribuito a cambiarmi: la partecipazione alle attività di formazione per i giovani nati sulle Ande peruviane. Ho compiuto molti viaggi esplorativi assieme ai figli di quelle montagne meravigliose, ragazzi di grande semplicità, pronti all’amicizia e all’avventura, fortissimi per natura.

Il mio coinvolgimento è nato grazie al movimento di volontariato Operazione Mato Grosso, che, tra moltissime altre opere d’aiuto materiale e morale ai campesinos della sierra, ha anche creato percorsi di formazione per i giovani affinché divenissero guide alpine e di trekking, rifugisti e così via. Lo scopo è permettere loro di continuare la vita sulle montagne, senza dover migrare, formandosi anche come persone generose, capaci di aiutare a propria volta chi è nel bisogno. Sull’inizio di questa avventura ho pubblicato un libro approfondito, che narra una storia corale attorno alla più alta montagna del Perù: Huascarán 1993. Verso l’alto. Verso l’altro.

In breve, la filosofia che muove queste migliaia di volontari nasce dal missionario Padre Ugo De Censi, salesiano, che oggi ha 94 anni, e che dagli anni ʹ70 vive sotto la Cordillera Blanca peruviana. La sua proposta per scoprire le vocazioni non è teorica, ma parte dal concreto: vivere il Vangelo anche se, mentalmente, non si è convinti. L’esperienza del donare può coinvolgere da subito tutti; l’adesione col pensiero verrà di conseguenza. Perciò il movimento è aconfessionale: non importa cosa dice il cervello, ma mettersi in gioco per gli altri.

Padre Ugo continua a lanciare un grido: dobbiamo ripartire da un Vangelo che si fa con le mani e coi piedi, non con le spiegazioni teologiche, da cui la gente scappa. Riassume così i fondamenti di questo percorso: «Io sono un animale a quattro zampe. La prima è il silenzio, specialmente del nostro cervello: stare in ascolto. La seconda fare fatica fisica, usare le nostre doti e non le macchine, meglio se per aiutare qualcuno. La terza è cercare sempre la bellezza: quello che si fa, farlo con arte. Infine saper perdere – che è l’atto d’amore di Cristo -, dare via tempo ed energie, regalare, senza preoccuparsi se non si vedono i risultati».

Tutto ciò è in effetti vissuto sia dai volontari, sia da migliaia di ragazzi e ragazze che frequentano gli oratori delle Ande e che partecipano a campi di lavoro per opere di utilità locale: come quelli per costruire i quattro rifugi d’alta montagna della Cordillera Blanca, i cui proventi di gestione vengono interamente impiegati per le persone più bisognose dei villaggi. È straordinario il numero di vocazioni, religiose e laiche, che così nascono tra i volontari dell’Operazione Mato Grosso.

Il valore del silenzio e dell’ascolto in questo contesto è legato per esempio a una sequenza di eventi che ho seguito negli ultimi anni. Durante un’esplorazione con i miei amici peruviani su un gruppo di favolosi nevados che superano i 6000 metri, ci trovammo la strada sbarrata da alte pareti di granito, oltre cui non si riusciva a scendere. Quando stavamo per abbandonare le ricerche, scoprimmo a 4800 metri uno stupefacente passaggio naturale nascosto, che permetteva di scendere attraverso un abisso roccioso, altrimenti invalicabile, dentro una valle meravigliosa, chiusa su ogni lato da fantastiche pareti di granito arancione. Già questo ci rese felici; ma quando scoprii che lungo il passaggio c’era una pittura rupestre preistorica, che tratteggiava una figura umana con largo copricapo e bastone in mano – certo una sorta di arcaico sacerdote o sciamano – ci si aprì un intero nuovo mondo. L’esplorazione della valle nascosta, che pareva un vero santuario naturale, ci permise di scoprire almeno una decina di abitazioni rudimentali celate sotto enormi massi, in un luogo e a una quota dove non si può trovare di che vivere. Crediamo sia testimonianza di un’arcaica comunità di monaci, cultori di una spiritualità sconosciuta, che affrontavano la durezza della vita in quel mondo di pietra per qualcosa a cui tenevano molto: una forma di ascolto e dialogo con misteriose divinità delle cime.

La forza di un simile ascolto l’ho ritrovata nelle scelte di vita di innumerevoli ragazzi e ragazze delle Ande. Padre Ugo De Censi e padre Armando Zappa negli anni scorsi lanciarono un progetto in apparenza folle: ricostruire ex novo a quota 4100 metri un villaggio identico all’originale preincaico in rovina, già in precedenza studiato. L’impresa avrebbe creato un motivo di attrazione turistica e culturale, ma prima di tutto sarebbe stata un’esperienza rivoluzionaria per i giovani coinvolti. Dal 2014 migliaia di oratoriani si sono alternati a ricostruire un gigantesco tempio preincaico, e poi gruppi di abitazioni, per ricreare l’antico abitato in quota. Per farlo, passano giornate intere a trasportare pietre di ogni dimensione da un affioramento roccioso adatto fino al cantiere. Certi massi per architravi e pilastri pesano più di mezza tonnellata. E tutto viene fatto con le tecniche esistenti mille anni fa: a mano e a spalle, con piani inclinati e funi, lavorando tutti assieme. Sembra davvero un faticare assurdo; eppure, è proprio questo scoprire che l’impossibile si realizza con i mezzi più semplici, se ci si mette d’impegno tutti assieme, coltivando la fiducia in ciò che ancora non si vede, come nella nebbia, a cambiare la vita di questi giovani, a far loro captare che c’è qualcosa di grande che sta oltre i semplici progetti umani.

Lo si è visto quando l’Operazione Mato Grosso decise di scendere dalle Ande fino alle periferie desertiche della città costiera di Chimbote, dove si concentrano centinaia di migliaia di migranti che lasciano montagne e foreste, attratti dal miraggio della modernità cittadina. Finiscono ad abitare le invasiones, baraccopoli disperate dove c’è solo sabbia, dove anche l’acqua portata dai camion va pagata. I bambini, abbandonati tra le baracche tutto il giorno dai genitori che vagano in cerca di lavoro, rischiano di perdersi nella malavita. Contro il fenomeno dei bambini di strada, De Censi ha proposto di costruire sei asili forniti di maestre in mezzo a queste invasiones. Si è fatto un appello tra i giovani che avevano già partecipato alla ricostruzione del villaggio preincaico: qui si sono visti i frutti di quell’avventura. A centinaia, ragazzi e ragazze di origine campesina partirono come volontari, e tra gennaio e giugno del 2015 costruirono i primi cinque asili, moderni e attrezzati, che da allora ospitano centinaia di bambini. E l’avventura va avanti: padre Ugo propone che proprio là, su quella sabbia disperata, sorga una Città dell’Amicizia. Una comunità impostata su valori evangelici praticati, anche se si mischiano persone con le idee più diverse. Nuove strutture, nuovi cantieri sono ora in corso d’opera; e i giovani che hanno ascoltato qualcosa che vinceva l’assurdo, su in alto a spostare pietre sulle montagne, si stanno donando per farcela.

Attraverso il corpo, col silenzio dell’intelletto e l’ascolto della fatica e della natura, stanno nascendo vocazioni che parevano perdute.