N.03
Maggio/Giugno 2019

L’angelo ai pastori

Una chiamata per chiamare

L’angelo e i pastori: una chiamata per chiamare

Guercino, Annuncio ai pastori, lunetta della cupola della cattedrale di Piacenza, 1627

 

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”.

(Lc 2,8-12)

Varcando la soglia della cattedrale di Piacenza e avanzando lentamente, l’intradosso della cupola svela allo sguardo meravigliato dello spettatore otto lunette, dipinte tra il 1626 e il 1627 dal celeberrimo pittore emiliano Giovanni Francesco Barbieri detto – per il suo strabismo – il “Guercino” (1591-1666), le quali alternano figure di sibille a rappresentazioni dell’infanzia di Cristo. Fissiamo gli occhi alla lunetta dov’è raffigurata la pagina lucana dell’annuncio ai pastori. 

L’angelo

La figura dell’angelo, in una “narrazione silente”, suggerisce tante cose sul mistero della vocazione cristiana. Anzitutto il nome stesso di “angelo”, che in greco indica “l’annunciatore”, ricorda come ogni cristiano è, grazie al suo battesimo, un annunciatore del Vangelo. L’angelo, poi, è dipinto in alto, poiché il contenuto del Vangelo, il Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per la nostra salvezza, è un dono gratuito (grazia) che viene dall’alto, dalla Trinità Santa. Un dono non deducibile dai meriti e dalle aspettative dell’uomo. Lo sguardo e le mani tendono in direzioni opposte. Come a dire: chi dice la bella notizia deve tenere lo sguardo fisso alla terra, alla dura e brulla quotidianità e nel contempo indicare Gesù, la luce che splende nelle tenebre (cf. Gv1,5); il Verbo che viene per amore nel mondo, ma che, nello stesso tempo, lo precede e lo supera. Una luce, un’aurora anticipata nel pieno della notte, cinge la figura angelica. Quasi a suggerire velatamente che la chiamata a divenire evangelizzatori è vocazione a dire e a portare Gesù: la luce del mondo, chi lo segue non cammina nelle tenebre (cf. Gv8,12).

I pastori

Sia i pastori che le pecore sono in parte destati dall’annuncio angelico in parte, invece, continuano a dormire. Viene in mente la parabola dei semi gettati su diversi tipi di terreno, non tutti accolgono il germe del Vangelo e lo fanno fruttificare. Un’altra lettura, meno drammatica, potrebbe essere la seguente: i tempi dell’accoglienza del Verbo sono diversi. Alcuni sono operai dalla prima ora del giorno, altri dalla sera. Viene in mente uno dei pilastri della vita enucleati da papa Francesco: il tempo è più dello spazio. Nella vita bisogna saper pazientare e aspettare: non tutti camminano allo stesso ritmo. Un’altra interpretazione, forse azzardata ma non impossibile, potrebbe essere questa: i pastori sono cinque, tanti quanti sono i sensi. Non sempre accogliamo il vangelo con tutto il nostro essere. Forse esso penetra e impregna una parte di noi. Forse non sempre ci prende subito e per intero. Bisogna avere pazienza anche con noi stessi, i nostri tempi, le nostre accoglienze e i nostri rifiuti della bella notizia. San Gregorio Magno (papa dal 590 al 604), inoltre, individua nei pastori l’immagine di una specifica vocazione cristiana, quella al sacerdozio ordinato: “Per quale motivo l’angelo appare ai pastori che vegliano e lo splendore di Dio li circonda, se non per significare che meritano più di ogni altro di contemplare le realtà di Dio coloro che custodiscono il gregge dei fedeli? Mentre essi vegliano con amore questo gregge, la grazia divina scende abbondante su di loro”[1].

 La colonna

Il basamento di una colonna che si intravede, probabilmente non ha solo la funzione di servire da schienale a un pastore assopito. Sembra la rovina di un tempio pagano. Due le possibili letture. La prima: la chiamata cristiana non bypassa la cultura di un popolo, ma la suppone e la supporta evidenziandola, elevandola e sublimandola. La seconda: la vocazione battesimale non obnubila le nostre qualità e (anche) i nostri limiti. Li ingloba e, nel caso, li sana. La grazia non distrugge la creaturalità, ma la suppone e la potenzia.

 

L’angelo e il pastore

Al centro della lunetta, quasi dividendola in due, il Guercino pone un pastore e un angelo. Il primo con le braccia e il secondo con le ali spiegate a forma di croce. Quasi a indicare che Gesù crocifisso è centro dell’annuncio (kerygma) cristiano. Ciò è vero, ma non basta. L’angelo del Natale rimanda specularmente all’angelo della Pasqua. La veste bianca del pastore all’abito che avvolge chi annuncia il sepolcro vuoto, il Cristo vivente. L’albero vicino sembra rimandare all’albero della croce, all’albero della vita. È il mistero pasquale nella sua interezza, mistero di morte e di risurrezione, che è il centro della vocazione cristiana. Sia nel senso che si è chiamati ad annunciare Gesù crocifisso e risorto sia nel senso che il battesimo, momento basico della vocazione cristiana, è esso stesso “immersione” nel mistero pasquale e perciò nel mistero del Dio comunione, mistero ineffabile di “relazioni sussistenti”.

 

La vocazione è una chiamata per chiamare

Che cosa ci insegna, riassumendo, sulla vocazione cristiana la lunetta del Guercino? La vocazione è una chiamata per chiamare. Non consiste solamente in una risposta, in un ascolto intimistico e solitario della Parola. Ma in una risposta all’Altro fatto carne (cf. Gv 1,14) per chiamare altri a seguirlo, a farsi suoi discepoli. Quasi “un effetto domino”, una “catena di reazione”, di risposte-chiamate, così come è successo ai primi discepoli del Signore.

 

 

 

 

 

 

Preghiera

 

Signore Gesù, buono e paziente con noi,

tu che non ti stanchi di seminare la tua Parola

e di temporeggiare sui nostri ritardi,

sui i tempi e sui modi disparati con i quali ti rispondiamo,

fa’ che sappiamo fare del nostro battesimo

una chiamata a chiamare altri a divenire terreni fecondi

nei quali la vita buona del Vangelo fruttifichi senza misura,

per gustare la dolcezza del tuo amore.

Amen! Alleluia!

 

 

 

 

 

 

 

[1]  Gregorio Magno, Omelia sui Vangeli VIII, 1.