N.03
Maggio/Giugno 2020

Dietrich von Hildebrand

Cercato nell’amore

«Dietrich von Hildebrand era un uomo rapito dallo splendore della verità, dal bagliore di una verità che attrae e unisce esattamente perché sta al di là della soggettività di ciascuno di noi»: a scrivere è l’allora Cardinal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, nel firmare un’intensa prefazione alla biografia di questo filosofo tedesco – uomo di mondo non meno che di pensiero, pensatore che non tralasciò mai la buona musica, le camminate e gli amici –: un uomo che aveva consacrato la propria esistenza alla verità, come Ratzinger sa bene, ma l’aveva infine trovata nell’«amore», fondamentale atto con cui la libertà umana si vincola al bene e lo assume a criterio di valore e scelta.

Dietrich nasce nell’ottobre 1889 a Firenze, dove la spiccata sensibilità artistica della famiglia ha modo di esprimersi a contatto con la bellezza dell’Umanesimo e del Rinascimento e la loro stessa casa spicca per eleganza. Sono tedeschi e, pur professandosi cristiani (protestanti), ricercano la misura dell’agire anzitutto nel bello che affascina. Giovanissimo, Dietrich vive forse la sua prima opposizione al padre quando egli, chiamato in causa dalla sorella con cui Dietrich s’era appena scontrato, si permette di liquidare come semplicemente dovuta ai suoi 14 anni la persuasione che i valori morali non fossero relativi, né meramente determinati da circostanze di luogo e tempo. Lo si direbbe dunque un adolescente “al contrario”, che ricerca il definitivo e riconduce egli stesso i familiari a quella stabilità che essi non potevano garantirgli.

Leggendo i Dialoghi di Platone – alcuni nell’originale greco – scopre a 15 anni la propria vocazione: la filosofia. L’aveva colpito l’argomentare dell’autore, ma anche qualcosa di più profondo: una propria specifica abilità a trovar gli errori, a stanare gli equivoci. Per Dietrich von Hildebrand “filosofia” non sarebbe mai stata una disciplina arida, ma l’uomo in azione alla ricerca del vero, uno sguardo di sapiente concretezza posato sulla realtà. Se al pensare è richiesto di essere vero, all’agire è però richiesto d’essere autentico: c’è una verità che passa dalle scelte, da cosa si apprezza e cosa si rifiuta, da come si guarda e si ascolta, si parla e si tace, si soffre e si gioisce. Dietrich lo scopre molto presto. Studia con alcuni validi maestri oggi quasi dimenticati, ma allora di una certa fama: Theodor Lipps, dalla personalità nobile, che emana spiritualità; Adolf Reinach, uomo di solido stampo morale e d’eccezionale precisione e chiarezza. Da loro von Hildebrand apprende il potenziale liberante del rigore, essenziale atto di rispetto che sa scegliere parole esatte e stare dinanzi alla realtà per come essa esige.

Dietrich bruciava le tappe di studio e formazione, ma ciò non gli basta. Ha bisogno anzitutto di vivere. Folgorante la sua prima vera esperienza affettiva: l’incontro con una ragazza, Märit Furtwängler, grazie alla quale sperimenta cosa significhi venire amato per primo. Per lui è quasi una vocazione-nella-vocazione: la verità si declina nel concreto, non mortifica ma dà vita, non è mai senza amore. “Trovare gli errori” poteva aiutarlo a non finire ingannato: ma scoprire di appartenersi nel donarsi era un’altra cosa. Anche se non sarebbe stata Märit la donna della sua vita – e a distanza di qualche anno egli avrebbe dovuto lottare per sposare la persona giusta mentre poi, rimasto vedovo, si sarebbe risposato con la giovane Alice, compagna nella fede e negli studi – è questo un primo incontro che concorre a definire il senso di tante sue scelte successive. Dietrich von Hildebrand si occuperà anche di etica e di estetica, sino a diventare il filosofo dell’amore, della bellezza che conquista e rende buoni. E non c’è nulla di romantico in questa sua opzione fondamentale. Egli distingue tra la mera conoscenza intellettuale, che ambisce ad essere dimostrativa, e la «familiarità»: «conoscenza diretta, fondata sulla frequentazione continua, sull’intimità». “Vero”, allora, è solo marginalmente il non-falso: piuttosto è ciò che assaporato dà vita, è una pienezza d’essere. Parla allora del “sentire”, questa fondamentale capacità apprezzante dell’umano – tutta da scoprire ed educare – ben diversa dall’emotivismo di superficie: sentire è sperimentare il valore di un incontro, di una persona, di una realtà. È risalire al suo “peso”. È intuire cosa oggettivamente valga, quanto sia importante. L’uomo retto allora è chi apprende a stare con gli altri e davanti alle cose per come esse meritano, non per come egli le vorrebbe. Qualcosa tocca in superficie, qualcos’altro coinvolge: ma pochissimo scardina nel profondo e – soprattutto – ha il diritto di farlo. Dietrich dedica così parte della propria riflessione al modo virtuoso di stare nella realtà; di concedere alle sue differenti manifestazioni lo spazio che esse meritano, né di più né di meno.

Non tutto «afferra» il nucleo della persona: al poco si deve concedere poco; al molto si può concedere molto. Ma solo al “tutto” va dato tutto: solo dinanzi al “tutto” ci si “inginocchia”. «Alcune persone», scrive, «sono caratterizzate dal fatto che tutto le tocca profondamente, viceversa altre dal fatto che tutto rimane alla loro periferia». Tuttavia – precisa – questo «essere toccati in profondità esige un limite»: varcato tale limite non si tratterebbe più di sensibilità ricettiva, ma di falsante disponibiltà condannata a diventar sterile (perché esige più di quanto possa esserle corrisposto).

Dietrich sperimenta questa sapienza dei gradi diversi di adesione – dal poco al molto al tutto, qualcosa che ha molto a che fare con l’ordo amoris di agostiniana memoria caro al suo amico Max Scheler – anzitutto nell’incontro con la Chiesa Cattolica, in cui chiede di essere ammesso. Era stato attratto e affascinato dalla luce che essa gli mediava: ma aveva ancora qualcosa da apprendere, per arrendervisi senza condizioni. L’occasione gli venne da un serrato confronto al termine del quale egli – lo studioso mai a corto di parole – per una volta non aveva alcun errore da smascherare, alcuna obiezione da sollevare. «Questa è la dottrina della Chiesa. Devi accettarne l’insegnamento nella sua interezza. Non si tratta di cogliere e scegliere; io non posso portarti nella Chiesa se tu rifiuti di assentire alla totalità della dottrina Cattolica». Ridurre il “tutto” a misura delle proprie aspettative sarebbe stato falsante. Quando riceve il battesimo, Dietrich von Hildebrand vive quindi nella Chiesa l’esperienza più piena di quell’essere “amato per primo” che è al tempo stesso fiducia e fermezza: l’amore ha il dovere di essere vero, di dire le cose come stanno. Lui si fida e fa il grande passo e scopre che – quel nucleo più profondo della persona – solo pochissime esperienze hanno il potere di raggiungerlo: il cuore inquieto, in definitiva, lo pacifica Dio.

Scrive in Liturgia e personalità: «Ogni vero valore, come la bellezza della natura o di un’opera d’arte come la Nona Sinfonia di Beethoven, o la luce morale di un generoso atto di perdono […] ci conducono innanzi al volto di Dio». Tutto è strumento, tutto è scala graduata che innalza a ciò che è il più Prossimo all’uomo, da sempre. C’è un’infinita poesia in ogni vero atto umano, perché esso porta l’impronta del trascendente e conduce a Lui.

Al termine di una vita intensa, trascorsa tra Italia, Austria, Francia, Germania e Stati Uniti, Dietrich von Hildebrand muore nel 1977 avendo lasciato un segno profondo. Alla moglie un giorno aveva detto: «Quando ti accorgi che non posso più filosofare, chiama urgentemente il prete; la fine è prossima». E davvero era stato pensatore sempre. Pio XII lo aveva definito informalmente «il dottore della Chiesa del Ventesimo secolo».

 

«Suo marito è stato uno dei più grandi studiosi di etica del ventesimo secolo».
San Giovanni Paolo II ad Alice von Hildebrand.

«L’amore è risposta al valore dell’altro».
Dietrich von Hildebrand, L’essenza dell’amore.

 

Dietrich von Hildebrand nasce a Firenze il 12 ottobre 1889, da una famiglia tedesca profondamente innamorata del bello e delle sue espressioni artistiche. Giovanissimo trova nella filosofia la propria vocazione: era la passione per la verità, riconosciuta nel quotidiano e testimoniata al proprio tempo. Ma non c’è verità senza amore, che egli ricerca con tutto se stesso e insegnerà agli altri a riconoscere e vivere. Molte sono le sue opere, accessibili anche in italiano, tra cui L’essenza dell’amore (Milano 2003), Che cos’è la filosofia? (Milano 2001), Il cavallo di Troia nella città di Dio (Roma 1969, Milano 2014), scritto dopo il Concilio Vaticano II. In inglese, The souf of a lion [L’anima di un leone]. Dietrich von Hildebrand (San Francisco 2000) è la sua avvincente biografia, a cura della seconda moglie Alice, con prefazione dell’allora Card. Joseph Ratzinger. Il http://www.hildebrandproject.org/ si occupa in America (dove von Hildebrand muore il 26 gennaio 1977) di curarne l’edizione inglese delle opere e farne conoscere la figura.