N.03
Maggio/Giugno 2001

Vocazione: la via della croce

Il compito che si è assunto questo XVI Seminario di formazione alla direzione spirituale a servizio dell’orientamento vocazionale non è all’apparenza dei più semplici: mostrare il legame tra vocazione e lotta, o sofferenza o crisi o croce… D’altronde un tema così esplicitamente formulato arriva dopo 16 anni; prima o poi doveva pur arrivare questo confronto diretto. Aver il coraggio d’affrontarlo è senz’altro prova di maturità, quasi l’ingresso in una fase ormai adulta per la pastorale vocazionale che è al servizio della Chiesa italiana. E se lo stimolo è forse venuto dal luogo ove si celebra questo convegno, e dalla figura carismatica legata a questo luogo, questo ci mostra ancor di più la “verità” dell’argomento, ovvero, quanto esso faccia parte della vita concreta, della storia d’ogni creatura, volente o nolente, credente o meno. Con effetti però diametralmente opposti tra l’uno e l’altro. E con conseguenze quanto mai rilevanti sulla decisione vocazionale.

La riflessione che giunge al termine di questo convegno forse ha meno d’altre volte la preoccupazione di cercare e trovare un proprio spazio, per non correre il rischio di ripetere cose già molto meglio dette e udite dai precedenti relatori, e questo semplicemente perché il tema è così vasto e poliedrico da prestarsi a un’infinità di letture, tante quante sono i vissuti personali o le esperienze individuali. Cercherò soprattutto di accostare solo due aspetti del mistero: il senso della sofferenza o della croce oggi, nella cultura, particolarmente giovanile, e nella dinamica d’una vocazione; per poi tentare di dire qualcosa sulla valenza della croce, sul suo ruolo e funzione nella vita umana, in particolare nella storia d’ogni vivente in quanto chiamato.

 

 

 

 

GIOVANI IN CRISI?

Al di là del contrasto apparente è come chiedersi: i giovani oggi sono contenti? Le ricerche al riguardo (ce n’è sempre una appena sfornata dal computer, fresca fresca) assomigliano ai sondaggi pre-elettorali, ognuno le può tirare dalla sua parte; c’è così chi dice che i giovani d’oggi non conoscono e non sopportano le difficoltà, di nessun genere; c’è chi dice che sono liberi e disinvolti, senza più i formalismi e i complessi che intristivano la vita della generazione precedente; c’è chi li vede “sazi e disperati”[1], qualche altro, invece, spiega che sono violenti perché lacerati o violentati dentro, oppure chi li vede tranquilli perché hanno tutto… A me personalmente non piacciono né mi convincono certe ricerche (che sono la maggioranza) basate semplicemente sull’osservazione diretta sul campo o addirittura sulle risposte dell’interessato in tempo reale a un questionario, subito traducibili in percentuali e grafici, in numeri e proiezioni infallibili. In tal modo, mi sembra, non s’intercettano le vere problematiche giovanili e quel che i giovani sentono e sono.

Tento allora una lettura che cerchi d’andare al di là del dato puramente osservabile, e, pur partendo da esso, non si fermi a ciò che si vede. Senza alcuna pretesa oltre quella di formulare ipotesi di lavoro, ipotesi utili per avvicinare questo mondo misterioso dei giovani cui siamo mandati, sullo sfondo altrettanto misterioso della croce e nella prospettiva d’una chiamata.

 

 

Crisi e sofferenza nel mondo giovanile

Parto, comunque, proprio da un dato che mi sembra fornito dalla realtà quotidiana: i giovani oggi soffrono, non sono l’allegra e cameratesca compagnia di buontemponi o di stravaganti che se la spassano tranquilli e indecentemente sfaticati, più o meno spinellati e abulici, stravaccati sul muretto di turno a esibire in pubblico improbabili “prove tecniche d’amore”, ignari del costo della vita e di quanto possa esser costata o costare a qualcuno, foraggiati e coccolati da mamma e papà (nonostante le loro rabbie e frustrazioni genitoriali ricorrenti) e lusingati e inseguiti da una società che ha troppo bisogno di loro, a vari livelli, e gliele dà tutte vinte, almeno all’apparenza. C’è una misteriosa fatica di vivere nei giovani d’oggi, anche in chi la nega o l’ignora, o addirittura la irride e la droga, o la celebra in modo strano e deviante, trasgressivo e dirompente, in spazi suoi e riservati, di notte o nel branco, perché se ne vergogna o pensa che altri, gli adulti, non possono capire. Vediamo allora di smentirli, di cercar di comprendere questa sofferenza oscura e “drogata”.

Come un tempo c’era chi arrossiva quando si parlava di sesso e dintorni, così oggi un’aria di strano pudore circonda il tema o il dramma della sofferenza, il giovane si vergogna di soffrire e non vorrebbe ammetterlo. Di fatto c’è un’immagine della realtà giovanile che è di tutt’altro segno: immagine chiassosa, spensierata, divertita, vivace, magari anche violenta e strafottente, comunque non sofferta. Ma vi sono anche altri segnali che vanno nella direzione opposta, e credo che tutti voi, educatori e confidenti di giovani, guide spirituali e ministri del sacramento della riconciliazione siate stati i testimoni segreti di tanta sofferenza giovanile, affidata proprio all’amico fedele e di cui si può esser sicuri. Sofferenza poi alleviata proprio attraverso l’esternazione d’essa, dal semplice sfogo emotivo alla possibilità d’un confronto illuminato e illuminante. Ammesso che vi sia tale possibilità e venga cercata.

 

Solitudine giovanile

Il problema è che oggi molte volte il giovane non dispone di questa possibilità, non ha più un orecchio amico pronto ad ascoltarlo e si tiene tutto dentro di sé, finché ce la fa o fino al punto di esplodere con atti più o meno inconsulti. Oppure la qualità dell’ascolto che gli è offerta e poi del confronto è molto scadente e inconcludente, o il giovane è senza una guida reale e autorevole, può confidarsi-sfogarsi solo nella cerchia di amici che hanno gli stessi suoi problemi e le identiche sue incertezze che si rimpallano reciprocamente, e si ritrova dunque privo di qualcuno che possa aiutarlo a rielaborare in modo intelligente la sua sofferenza e renderla tappa d’un cammino di crescita, e allora la crisi diventa involutiva e la sofferenza aumenta o diventa insopportabile o trova sbocchi assurdi e violenti…

 

Analfabetismo emotivo

Ma oggi c’è un’ulteriore e strana eventualità: l’analfabetismo emotivo, con conseguente mutismo. Ovvero, molti giovani non conoscono più il linguaggio delle emozioni, linguaggio che dovrebbe esser vario e diversificato, con sfumature personali e interpretazioni originali, e che invece si sta maledettamente impoverendo[2] o riducendo a gergo collettivo, che privilegia espressioni estreme e paradossali (es. “sono in coma” per dire uno stato di stanchezza), o a suoni o monosillabi indecifrabili, quasi primitivi e selvaggi (“wau”, ad es.). Tale impoverimento non consente più al singolo di esprimere il suo personale e originale stato d’animo, per cui esso finisce per non poter dar più né a sé né all’esterno il segnale preciso della sua crisi; o, ancora una volta, l’emozione non verbalizzata né elaborata nella relazione finisce per cercarsi vie alternative e spesso incontrollate, come tanti episodi di cronaca, più o meno macabri, stanno a testimoniare, segno inquietante d’una emozione ch’è stata privata della sua destinazione naturale, l’altro, e del suo contesto naturale, la relazione[3]. Tale problema è oggi sempre più attuale e a modo suo drammatico: se il giovane non sa o non può più esprimere adeguatamente i propri stati emotivi, perde il contatto col proprio mondo interiore e non sa più cogliere e accogliere quello altrui; inevitabili allora seri problemi d’identità e d’appartenenza, di stima di sé e di relazione, di progetto di sé e di smarrimento della fiducia nei confronti del futuro.

Se poi il sentimento che non sa esprimere ed elaborare è quello del dolore, da qualsiasi parte esso venga, allora perde i contatti con una delle fonti più ricche di significato, con una delle forme più espressive del mistero umano. Il dolore, annota acutamente Imoda, è per eccellenza il luogo del mistero, “proprio perché è la via necessaria attraverso cui la realtà si impone con i suoi limiti ‘dolorosi’, esso spinge al tempo stesso la persona via dalla realtà attuale, verso un ‘significato’ di quanto è doloroso, da trovarsi ‘altrove’”. Se l’analfabetismo è relativo al dolore, se il giovane non sa “leggere e scrivere” la sofferenza e la croce, allora è analfabeta della vita e del senso della vita.

 

 

 

Tentativo d’interpretazione

Formulo due ipotesi circa l’origine della sofferenza giovanile: una in relazione ai contenuti del cammino di maturazione, l’altra ai modi pedagogici. La prima ci fa comprendere “perché” e “dove” il giovane soffra, la seconda ci aiuta a capire il “come” della sofferenza giovanile.

 

Ricerca d’identità

L’età giovanile, specie il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, è l’età dell’accesso a una nuova identità, o l’età in cui il bisogno più importante è quello di avere una percezione sostanzialmente e stabilmente positiva dell’io[4]. Quando questo bisogno o questa domanda d’identità positiva resta non soddisfatta, o l’attesa è male orientata, sarà inevitabile una reazione di sofferenza, come un risentimento interiore verso nessuno in particolare, in realtà contro se stessi, soprattutto, o contro quell’io che non è così bello come si vorrebbe o che non riesce a vedersi in una luce positiva, o contro quella parte o dimensione dell’io che risulta non abbastanza positiva. E sarà tanto più forte e amara la sofferenza quanto più il soggetto aveva riposto proprio lì le proprie speranze di positività. Il problema allora è vedere come si risolve il problema dell’identità, e quali sono gli errori più frequenti al riguardo.

 

Tre equivoci (e tre livelli di sofferenza)

Gli equivoci sono legati a un errato modo di identificarsi, e vi corrispondono regolarmente altrettanti fonti o ambiti di sofferenza.

 

Sofferenza a livello somatico

Ad esempio avremo delle sofferenze giovanili connesse soprattutto al corpo, al fatto di non piacersi, di sentirsi o d’apparire poco interessante, di avere uno strano rapporto con la propria vita fisica, per cui da un lato si è eccessivamente preoccupati d’avere un corpo (o un look) sano-bello-forte-giovanile, e dall’altro si ostenta sciatteria e disinteresse, quasi a nascondere la delusione di non essere come si sperava. È sofferenza legata all’apparire, fondamentalmente, e pure molto intensa e a volte dilaniante.

Sono molti i giovani sofferenti a causa d’una errata interpretazione del loro corpo o d’una sopravvalutazione del livello cosiddetto somatico in funzione della propria positività e identità e di tutto ciò che è connesso con l’apparire. D’altronde, viviamo in una società che privilegia le varie forme fatue dell’apparire, e che dunque attrae verso questo tipo d’identificazione. Ma non ci vorrà granché o non si dovrà aspettare d’invecchiare per accorgersi che questo livello d’autoidentificazione non può dare in modo definitivo e sicuro la certezza di positività, nonostante i tanti e a volte stravaganti tentativi d’intervenire sul proprio corpo per renderlo più attraente e prestante (dal piercing alle …maggiorazioni varie). E allora, quando l’inganno sarà evidente, forte sarà anche il disappunto, con possibili e a volte accentuate ripercussioni umorali e comportamentali. A volte questo risentimento, deluso e irato, verso e contro il proprio corpo potrà anche dar luogo a forme di aggressività contro di esso, quasi una sorta di paradossale vendetta (vedi tutte le forme di autolesionismo, dagli stupefacenti alle anoressie o bulimie, dalle varie forme di sottile disprezzo della vita [vedi i giochi rischiosi per l’esistenza propria e altrui] ai tentativi veri e propri di suicidio[5]…). Indubbiamente il giovane d’oggi vive un rapporto assai disturbato col proprio corpo, rapporto ambivalente di amore-odio, di cure eccessive, da un lato, e di aggressione nei suoi confronti, dall’altro.

 

Sofferenza a livello psichico

A un livello un tantino più elevato avremo le sofferenze legate precipuamente alle proprie doti e capacità, di vario genere, a un insuccesso o a un risultato meno positivo nell’esercizio delle proprie qualità, o alla constatazione che un’altra persona appare più dotata o fortunata e fa più carriera o ha maggior successo nella relazione, specie con le donne. Questo sconcerto interiore è legato all’avere, e alla pretesa di avere sempre più, sempre più degli altri, in termini soprattutto di qualità e capacità di vario genere (da quelle manuali a quelle mentali), di riscuotere gradimento e apprezzamento, al punto di non poter sopportare un sia pur minimo insuccesso.

Questo livello, che potremmo chiamare psichico, e l’equivoco che ingenera, interessa moltissimi giovani, perché tutti, più o meno, nella ricerca della propria identità passano attraverso questa illusione, ancora una volta sbagliando punto di riferimento o riponendo male le proprie speranze. Tutti errori o malintesi che si pagano poi molto cari, anche se il giovane raramente ha la libertà interiore di riconoscere tutto ciò come la causa della sua sofferenza.

 

Sofferenza a livello relazionale-sentimentale

C’è infine un altro possibile livello di identità, quello legato alla relazione con l’altro. E un livello cui l’adolescente e il giovane sono molto sensibili, perché …così vuole la natura, ma proprio per questo l’equivoco qui è ancor più sottile. L’altro qui è cercato, ma raramente in modo libero e disinteressato, è cercato piuttosto entro una prospettiva di conquista o di dipendenza, di gratificazione d’un bisogno magari rimasto insoddisfatto e di fronte al quale il soggetto si sente impotente, e dunque con modi ancora molto infantili ed egoistici. Situazione, questa, oggi tutt’altro che rara: le famiglie d’origine sono sempre più frequentemente lacerate al loro interno, e non danno dunque al bambino e al ragazzo quella sicurezza emotiva che è invece indispensabile per la formazione d’un io forte e capace di relazione autentica.

L’equivoco (o l’illusione) a tale livello, allora, consiste in questa aspettativa sottilmente irrealistica: il rapporto con l’altro risolverà i miei problemi d’identità, anzi, il tu, l’amico o l’amica, il gruppo o il branco, diventano il mio grembo protettivo, la fonte di certezze, ciò che mi consente di non sentirmi solo come un cane e che mi dà anche un’illusione di positività. Al centro insomma c’è il bisogno soggettivo, non l’altro e la sua dignità e originalità da accettare incondizionatamente; al centro, ancora, c’è il bisogno d’identità, più ancora che il bisogno tipicamente affettivo o sessuale. Qui prevale la logica del dipendere dall’altro, quasi logica consumistica, molto più che costruttiva del rapporto; è il rapporto dei sentimenti, non dei progetti. Al tempo stesso, però, l’altro è come mitizzato: egli dovrà risolvere i miei problemi, d’identità e affettività; così mitizzato che l’altro appare perfetto e senza difetti e il rapporto un idillio (regolarmente e ampiamente smentito dall’eventuale sfortunato matrimonio…).

Ecco perché il rapporto molte volte è cercato compulsivamente, non è mirato, basta essere accoppiati, e magari esibire l’amico o il fidanzato come una prova della propria capacità amatoria (e, alla radice, della propria identità positiva), ed ecco perché spesso il rapporto è poi estremamente superficiale e labile, oppure non giunge mai a un progettare davvero la vita assieme e creare un vincolo duraturo. Ma soprattutto ecco perché quando il rapporto si rompe, o dinanzi al minimo screzio o incomprensione, scatta una reazione di sofferenza assolutamente insopportabile, con esiti a volte drammatici. È la sofferenza dei sentimenti, della passione; spesso è la sofferenza che sfocia in violenza inaudita. Purtroppo è la conferma del noto principio di psicologia relazionale: quando si chiede troppo all’altro, in termini di gratificazione emotiva o di soluzione dei propri problemi, lì si pongono le premesse d’una violenza destinata prima o poi a esplodere! La cronaca sembra confermarcelo sempre più spesso…

 

L’inganno dello specchio

In tutti e tre questi casi la sofferenza è legata a un errato modo di definirsi, errato perché totalmente autoreferenziale, perché totalmente privo di qualsiasi appello dall’esterno, da un altro, e dunque chiuso, in sostanza, alla relazione o almeno alla relazione vera: impossibile, a queste condizioni, accedere a un’idea positiva di sé, che non può assolutamente venire, Narciso insegna, da una contemplazione estatica di sé. Lo specchio è interlocutore fallace e ingannevole, in tutti i sensi: o ti restituisce sempre la stessa immagine, senz’alcuna sollecitazione, quasi una fotocopia o una clonazione, o ti attira in un agguato mortale, come le acque infide ove il bel Narciso, questa grande icona dello smarrimento giovanile, ha finito per annegare la sua depressione.

Il corretto senso dell’io, infatti, quello che assicura un concetto sostanzialmente e stabilmente positivo dell’io, non si acquista né al livello somatico né a quello psichico né a quello banalmente relazionale, semplicemente usando l’altro, ma a quello ontologico, ove ci si definisce per quel che si è e per quel che si è chiamati a essere. Evidente, in questa formulazione, la prospettiva vocazionale e autenticamente relazionale (la vocazione è relazione in se stessa), come condizione imprescindibile per un’identità finalmente positiva, assieme al passaggio dalla logica dell’apparire e dell’avere o del dipendere, a quella dell’essere, come dire, dall’instabilità ondivaga alla stabilità sicura.

È solo l’idea di vocazione che rispetta la dignità e nobiltà dell’essere umano, anche su un piano semplicemente psicologico, perché se qualcuno ti chiama vuol dire che sei cercato da qualcuno, sei degno d’attenzione, sei significativo e importante per qualche altro; in ultima analisi chi ti chiama ti vuole anche bene, ti manda un messaggio positivo, e se ti chiede tanto vuol dire che non semplicemente ti accontenta secondo i tuoi gusti, ma ti provoca a dare il massimo di te stesso… Ai primi tre livelli, somatico, psichico e sentimental-relazionale, invece, nessuno in realtà ti chiama, e se nessuno ti chiama vuol dire che non conti niente per nessuno, sei insignificante e incolore, non hai una personalità che ti renda inconfondibile, che tu ci sia o non ci sia non cambia niente per nessuno, non c’è alcun piano su di te, nessuno l’ha mai pensato, dunque sei abbandonato a te stesso… E allora uno s’attacca a se stesso, o alle cose o alle persone nella misura che funzionano come uno specchio, che gli rimanda l’immagine del positivo che trova immediatamente in sé, quello che appare subito, spesso vero ma banale, evidente ma instabile e non definitivo, a partire dalla vita fisica o dalla sua personalità psichica; ma non avrà mai in tal modo quella certezza della propria dignità che viene all’uomo solo dalla relazione costruttiva con un altro, che giunge all’io solo dal tu rispettato nella sua alterità, che unica può attivare le potenzialità nascoste nell’essere umano. Al di fuori della relazione autentica e trascendente il livello della ricerca di sé, del tu che chiama e sorprende, l’uomo smarrisce se stesso e la gioia di vivere. Se non c’è un volto che si volge a me, se non c’è uno sguardo che mi fissa, se non c’è una parola diretta esplicitamente a me, io sono senza volto, senza lineamenti, senza parole. È la sofferenza dell’uomo senza vocazione!

 

La sofferenza dell’uomo senza vocazione

Si tratta d’una sofferenza largamente disattesa e ignorata nella sua radice, non solo da chi la soffre, ma anche da chi la dovrebbe riconoscere. Semplicemente perché l’idea di vocazione, nel vocabolario della lingua corrente, non richiama ancora in modo evidente l’idea di gioia, di pienezza, di voglia e gusto di vivere, e dunque chi “non ha vocazione” (così si suol impropriamente dire) non per questo è ritenuto uno sventurato o un infelice, e infatti non gli dispiace proprio per niente, almeno all’apparenza e di solito.

Quel che vogliamo sottolineare qui è l’importanza di riconoscere questa sofferenza mentre riemerge, sotto mentite spoglie, in tanti corrispondenti atteggiamenti giovanili, come disagio esistenziale e vuoto di certezze e ideali, come incertezza cronica e stato adolescente perpetuo, come noia mortale e perdita progressiva del gusto di vivere, come incapacità di chiedere a se stessi il massimo e calo della capacità di desiderare e della qualità dei desideri, come randagismo esistenziale e smarrimento del centro della vita…

Tutte forme diverse che stanno a dire lo stesso problema di fondo, un’amarezza invincibile che si piazza al centro della psiche, magari per esser subito resa inconscia e apparentemente innocua, ma che non riuscirà mai a cancellare del tutto la sensazione più drammatica per l’essere umano: quella di non esser cercato da nessuno, d’essere insignificante, di non aver alcun progetto da portare a termine e affidato solo alla propria persona; in definitiva, la sensazione di non essere amato, anticamera di quella depressione oggi sempre più presente anche nel mondo giovanile[6].

Un intelligente animatore vocazionale dovrebbe saper riconoscere questa sofferenza, coglierne la radice profonda, non cadere nel tranello di letture superficiali e di condanne senz’appello del mondo giovanile. La proposta della vocazione (“una volontà buona ti ha chiamato all’esistenza e non cessa ogni giorno di chiamarti…”), e della vocazione cristiana (“Dio, quando ama, e perché ama, chiama”) non è forse risposta a questa sofferenza?

Così come sarà necessario riconoscere una certa sofferenza anche laddove è esplicitamente smentita da un atteggiamento, almeno apparente, di non sofferenza, tipica del giovane tranquillo che non è né murettaro né spinellato, e magari è anche credente, ma che non vive la propria fede come coraggio di prender decisioni con essa coerenti e compromettenti. Qui allora c’è una sofferenza addirittura da provocare e di cui l’animazione vocazionale (e l’animatore vocazionale) devono farsi carico con tatto e coraggio, per rompere un equilibrio che appiattisce la vita e vorrebbe preservarla da ogni fatica. Ma c’è anche un altro modo di leggere e affrontare la sofferenza giovanile, un’altra ipotesi relativa soprattutto al modo pedagogico che dovrebbe abilitare a vivere la sofferenza come componente normale della vita umana.

 

Il diritto alla sofferenza

Secondo Castellazzi, esperto di psicologia evolutiva, oggi possiamo paradossalmente dire che “al bambino e all’adolescente non è riconosciuto il diritto alla sofferenza. Mi riferisco naturalmente a una sofferenza sana, che aiuta a crescere…”[7], quella sofferenza salutare, quasi un optimal frustration, che deriva dalla capacità progressiva di opporsi alla logica, o al ricatto, del piacere obbligatorio, quasi fosse un comandamento nel decalogo dell’uomo moderno. E invece, ciò che è d’obbligo è proprio l’apprendere ad aspettare, a non esigere subito la gratificazione del bisogno, a fare l’esperienza della mancanza e del limite, perché è esperienza feconda, che costringe a interrogarsi sul senso dei propri desideri, a domandarsi se esprimano davvero ciò che è più importante per la propria vita o se dicano tutta la ricchezza e capacità di desiderare del cuore umano; eventualmente a purificarli, a sperimentare che di fatto si può vivere anche senza un certo tipo di gratificazione di certi bisogni, magari indotti dalla cultura circostante o dal branco… È grande scuola il sacrificio, perché la rinuncia al piacere momentaneo introduce in un mondo nuovo di significati, fa scorgere nuove e impensate realtà valoriali, apre l’orizzonte del giovane verso ideali più su misura d’uomo, fa assaporare sensibilità e gusti inediti, verso il bello, il vero e il buono, fa sentire dentro che quel che prima attraeva ed era considerato irrinunciabile è perdita e spazzatura.

È grande torto e ingiustizia nei confronti di ragazzi e ragazze, di adolescenti e giovani non insegnare il dolore, la fatica, perché in tal modo si corre il rischio di non far nascere mai strutture psichiche e atteggiamenti spirituali indispensabili per la crescita armonica. È macroscopica ingenuità illudersi di semplificare in tal modo la vita di chi s’affaccia alla vita anticipando i loro desideri senza che facciano alcuna fatica per conquistare qualcosa; così si vanifica la capacità di desiderare e si annulla la resistenza interiore alle difficoltà inevitabili del vivere, ma si distrugge anche la capacità di godere di ciò che la vita offre e si coltivano esistenze spente, giovani vite scarsamente interessate al proprio futuro, senza sogni e piene di paure. Non è interesse di nessuno continuare a proporre il modello della famiglia-chioccia che tiene avvinti a sé e non sgancia mai i propri figli perennemente (pre-)adolescenti, soprattutto perché determina il prolungamento spropositato dell’età adolescenziale-giovanile, intesa come periodo nel quale c’è libertà piena, ma con una quota ridotta di responsabilità. La famigliachioccia mette al riparo da ogni imprevisto o inconveniente, lasciando campo libero solo alle cose “piacevoli”, ancorché vuote, ma soprattutto rischia di non formare mai al senso di responsabilità, di non far cogliere la misura delle cose, la serietà e il costo – certo non solo economico – della vita, rischia di far crescere invertebrati, persone che non si sono mai “fatte le ossa” al contatto col dramma della vita[8]

In una vita tutta chinata sul proprio ombelico, in una cultura del “tutto e subito”, quando l’esistenza stessa chiederà a questi giovani un certo prezzo da pagare, uno sforzo per raggiungere un traguardo, o semplicemente un’attesa o rinvio di qualcosa che non si può ottenere subito, o quando vi sarà una delusione o un insuccesso…, tutto ciò sarà vissuto come troppo pesante, come insopportabile, come supplizio e tortura insoffribile. Invece di affrontare realisticamente le difficoltà sopportando la tensione, si tenderà allora a eliminare ciò che si oppone alla soddisfazione immediata, il motivo della tensione; e Dio non voglia che in questo contrasto, in una società avvelenata nel profondo da una concezione banalizzante il valore della vita umana, non si arrivi al punto di offendere la vita stessa, propria o altrui, negandola con una violenza assolutamente incredibile.

Quel che vogliamo dire, al di là di giudizi morali sui comportamenti, è che il giovane d’oggi vive in una cultura e riceve una educazione che sembra abilitarlo sempre meno a soffrire, ad accettare di sperimentare il dolore, a scegliere la rinuncia. E così quando s’imbatte, per vari motivi, anche non così importanti, con il dramma della sofferenza si trova sguarnito, non sa come reagire; nessuno gli ha insegnato che con il dolore si può convivere e trarne frutto, e allora reagisce male, d’istinto, va dove lo porta l’istinto (che qualcuno confonde con il cuore), non si controlla più, non ha indicazioni reali, né ha remore di sorta, e neppure la coscienza è più in grado di indicargli un punto di riferimento vincolante e autorevole… Insomma, soffre e maledice la sua sofferenza, la subisce e scarica in modo incontrollato fuori di sé, spesso addosso e contro qualcuno…

In sintesi, per concludere questo paragrafo, se c’interroghiamo sulla realtà della sofferenza giovanile, in sé e nella sua espressione esteriore, sul perché e il come d’essa, ci potremmo dare queste risposte: 

il giovane d’oggi soffre, e probabilmente d’una sofferenza acuta e intensa, anche se non sempre così evidente, anzi quasi mai evidente, neppure a se stesso, tanto meno agli altri o a chi, anche tra gli adulti, ha un rapporto superficiale e da adulto giudicante col mondo giovanile. 

– Non solo la radice di questa sofferenza è di solito sconosciuta, ma il giovane molto spesso non può dirla a nessuno, o perché non trova nessuno disposto ad ascoltarlo e capirlo profondamente, senza sentirsi giudicato e condannato, o perché non sa dire la sofferenza che ha dentro, è un po’ un analfabeta emotivo, o l’esprime in maniera rozza e riduttiva, generica e gergale, senza svelare se stesso, senza svelarsi a se stesso.

– Il giovane soffre per qualcosa di centrale e indispensabile che gli viene a mancare: soffre soprattutto per il non senso della vita, o perché non è riuscito a dare un orientamento positivo e stabile alla sua esistenza, alla sua identità. Questa sofferenza è la madre, per così dire, delle sofferenze. In tal senso, sottolinea Frankl, “chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come”. Mentre, se non è chiaro il perché non ci potrà essere neppure alcun come, nessuna modalità intelligente di gestione del dolore… 

– Infatti, in questa situazione di sofferenza il giovane non sa come agire e reagire; non ha imparato a vivere la sofferenza come tappa di crescita, nessuno gli ha insegnato la fatica della ricerca, la resistenza alle difficoltà, l’integrazione della negatività. Di conseguenza ha paura della sofferenza, non ne vuol sentir parlare, la rimuove dai suoi orizzonti. Di fatto non la sopporta. 

– Di conseguenza, la presenza d’una sofferenza acuta, il fatto d’ignorarne la radice, il non poterla esprimere e confrontare con un altro, il non saperla rielaborare e gestire in modo intelligente, e dunque il doverla reprimere dentro di sé…, tutto ciò può costituire una miscela pericolosa che in certi casi porta a espressioni incontrollate e anche violente della sofferenza giovanile.

 

 

Vocazione e sofferenza

L’opzione vocazionale, a fronte di questa situazione, può svolgere un ruolo importante, ma forse anche ambivalente. Da un lato, infatti, essa rappresenta una risposta adeguata allo smarrimento di senso e all’incapacità di gestire situazioni difficili, pur chiedendo un alto livello di capacità di rinuncia e dunque un certo coraggio d’affrontare la sofferenza. D’altro canto c’è il rischio che una decisione vocazionale in qualche modo costituisca una sorta di fuga dalla crisi e dalla sofferenza, quasi ponendo al riparo d’una struttura protettiva, come d’una nuova famiglia-chioccia. Forse questa seconda possibilità sembra meno frequente oggi, ma non è da escludere specie per certe personalità. Ma preferisco dire che in ogni opzione vocazionale è presente questa ambivalenza, che chiede all’animatore vocazionale molta attenzione, molto coraggio e pure molto equilibrio nel proporre la croce e la via della croce come via vocazionale.

 

 

 

 

LA CROCE NEL PERCORSO VOCAZIONALE

L’impressione è la stessa che abbiamo espresso quando abbiamo parlato della proposta vocazionale della verginità: l’impressione che certi argomenti non siano considerati dagli operatori nel settore “temi vocazionali”, capaci, cioè, di suscitare un interesse che possa sfociare in impegno o cammino vocazionale, e dunque siano accuratamente ed elegantemente evitati dagli stessi operatori. Che sarebbe errore gravissimo, classico autogol, boomerang vocazionale! Perché siamo assolutamente convinti che la croce possa invece costituire elemento di trazione e attrazione vocazionale, forse addirittura l’elemento decisivo e centrale, ciò attorno al quale ruotano appello e opzione vocazionale.

 

 

La croce e i giovani: Tor Vergata e dintorni

Abbiamo questa convinzione non solo a livello teorico e argomentativo, ma perché mi sembra che sia quello che abbiamo sperimentato in questi ultimi anni, in occasione soprattutto delle Giornate Mondiali della Gioventù. Queste Giornate hanno svelato un insospettato feeling tra i giovani e la croce; la croce è diventata il simbolo delle GMG, in qualsiasi parte siano state celebrate. È stato commovente vedere quei gruppi di giovani pellegrini andare a piedi verso Roma al seguito proprio della croce. Diciamo pure che la croce, altro che il Papa o i Papaboys, è stata il protagonista indiscusso alla GMG 2000. A Tor Vergata dominava coi suoi 36 metri d’altezza il lungo “muro della storia”, il cammino dell’umanità. E alla sinistra del palco un’altra croce, quella che dal 1984 accompagna le giornate mondiali della gioventù, che ha già fatto due volte il giro del mondo ed è stata incontrata da quasi 30 milioni di giovani. E non era un semplice effetto scenico, perché il Papa, con parole antiche e sempre nuove pronunciate a fatica ma capite immediatamente dai giovani, provvedeva a chiarirne il senso senza equivoci: “Celebrare l’Eucaristia ‘mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue’ significa accettare la logica della croce e del servizio. Significa cioè testimoniare la propria disponibilità a sacrificarsi per gli altri come ha fatto Lui”, spezzando il proprio corpo e versando il proprio sangue.

La Chiesa nasce esattamente dall’Eucaristia, da un corpo spezzato sulla croce, e l’immagine di Chiesa offerta ai giovani nei giorni romani è stata proprio quella della Chiesa dei martiri: il dono della fede passa attraverso il loro sacrificio e dunque chiede a ogni giovane credente di imitare il loro coraggio. La “memoria dei martiri”, di fatto, è stato uno dei momenti più intensi di questo giubileo. Chi potrà dimenticare, durante quella “notte dello stupore, della conferma, della consegna”, la lunga e struggente litania di martiri da ogni continente e d’ogni tempo, che ha accompagnato in un silenzio pieno di mistero la processione verso la croce: Clemente, Lorenzo, Sebastiano…, Paolo Miki, Massimiliano Kolbe, Edith Stein…? E le parole puntuali del Papa: “Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì!” Quella fedeltà che è come un martirio quotidiano, perché vuol dire andare “controcorrente” nella purezza e nella libertà d’amare, nella fedeltà alla propria vocazione, nel coraggio di seguire Gesù nel sacerdozio e nella consacrazione religiosa…

Non possiamo ignorare o sottovalutare il grande impatto che tutto ciò (queste parole, il simbolo della croce, l’evocazione dei martiri…) ha avuto sul cuore e la mente dei giovani di tutto il mondo. È il potere suggestivo-evocativo dei grandi simboli della nostra fede, altro che Woodstock cattolica e altre sublimi sciocchezze. È la perenne verità e attuazione delle parole di Gesù: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). Quanto ci crediamo a questo potere e a questa verità? L’animazione vocazionale non è in fondo proposta e poi esperienza di questa attrazione? Non è forse cammino dell’educatore vocazionale, anzitutto, verso la croce, per poi o assieme accompagnare altri nello stesso percorso? Non c’è, rigorosamente parlando, un prima e un dopo, un apprendimento personale e poi un’offerta d’aiuto ad altri, ma ogni autentico percorso d’animazione vocazionale è sempre esperienza della centralità della croce di Gesù per ogni soggetto che è implicato nell’operazione, per l’animatore come per il giovane in cammino verso il futuro. È fondamentale capire questo se non vogliamo diventare puri mestieranti o semplici ripetitori. Proprio per questo l’animazione vocazionale è formazione permanente!

 

 

La croce al centro della vita (maturità della guida)

Si tratta allora, da parte di quel credente che compie il servizio dell’educazione alla fede, di mettersi anzitutto lui stesso nella posizione o distanza giusta dinanzi alla croce, o di porre la croce al posto che le spetta nella propria vita. Ovvero al centro.

Che vuol dire che la croce deve diventare nella vita della guida quello che essa è e costituisce nel progetto cosmico del Padre: ciò in cui si ricapitolano tutte le cose, il cuore del mondo, il punto di convergenza e attrazione generale, la riconciliazione e rappacificazione delle persone, tra loro e dentro di loro…

 

La croce, verità della vita

A livello più personale e soggettivo significa la scoperta, per così dire, positiva della croce di Gesù, come il momento della verità, ciò che più d’ogni altra cosa ed evento e parola e prodigio dice la verità di Dio e del suo progetto salvifico, dell’uomo e della sua storia. A Pilato che chiede cosa sia la verità Gesù risponde non a parole, ma salendo l’erta del Calvario e immolandosi sulla croce: quella è la verità.

Ovvero, la croce è la verità della vita, perché svela il nesso indissolubile che lega la vita alla morte, nesso che è costituito dall’amore, dal dono di sé. La vita, come spiega la croce, nasce dall’amore-che-si-dona, e tende allo stesso amore-che-si-dona. Si vive e si muore per lo stesso motivo, perché l’amore ricevuto tende per natura sua a divenire amore donato. E tutto questo è detto dalla croce di Gesù, il più forte ed espressivo simbolo del mistero della vita e morte dell’uomo, e assieme l’espressione più grande dell’amore più grande. Per questo la croce di Gesù è e dice anche la verità dell’uomo; non è qualcosa di eventuale e sinistro e da tener lontano il più possibile, ma ciò che svela fino a che punto l’uomo è stato considerato degno d’amore, svela dunque come nessun’altra cosa la dignità e nobiltà umana; fissa per sempre in modo irrevocabile l’identità e positività della creatura, d’ogni creatura (liberandola da quelle false illusioni viste prima). E indica pure in quale direzione l’uomo deve costruire la sua vita se vuol esser fedele e coerente al dono ricevuto, ossia a se stesso e alla sua verità, come vedremo poi. Nella prospettiva della croce c’è dunque la verità dell’io, al di fuori c’è l’io virtuale, disperato per quanto apparentemente (virtualmente) sazio…

Da quando un crimine orrendo, il più assurdo della storia, è diventato mediazione di salvezza, da allora ogni situazione, anche la più assurda e maledetta, può essere riempita d’amore, esser sostanziata e motivata da un atteggiamento di benevolenza. Nonostante tutto. La croce è il segno che questo è possibile, perché proprio questo ha fatto Gesù: è penetrato con la sua morte di croce nell’abisso del non senso e l’ha riempito di senso. Da allora fuori della croce c’è l’assurdo, dentro la croce c’è l’amore-verità.

 

La croce libera dalla paura

E se la croce svela la verità, essa libera anche dalle paure, dalle tante paure che ci ammorbano la vita, la maggioranza delle quali infondata: dalla paura di non contare niente, che nessuno ci chiami e ci ami, o dal timore di voler bene, di dare la vita, dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, dalla paura dell’altro, del padre, terreno e divino, dalla paura di chi ci può fare del male, dalla paura della morte, dalla paura della croce… La croce libera anche ciascuno di noi dalle paure tipiche dell’animatore vocazionale: paura di certi ambienti, di fare certe proposte, di chiamare tutti e ovunque, di non ottenere risultati apprezzabili, di fare brutta figura, di essere provocante, di sbagliare percorso, di non risultare interessante e attraente…

 

Il giudizio della croce

Ma è necessario imparare a fare un esercizio, costante e quotidiano, l’esercizio dell’integrazione della vita attorno alla croce. Centralità vuol dire che la croce di Gesù è davvero il cuore dell’esistenza, ovvero ciò che non solo dice la verità, ma dà verità a tutto. Si tratta allora d’imparare a sottoporre ogni cosa, affetto, pensiero, sentimento, emozione, progetto, scelta… al giudizio della croce. Perché solo la croce può giudicare la vita, scoprire la non verità che è in essa, orientarla e riorientarla continuamente, darle la forza di vivere nella verità e nella verità dell’amore. Sottoporre al giudizio della croce anche il proprio modo di fare animazione vocazionale, d’intendere questo servizio, nei suoi aspetti meno gratificanti e a volte crocifiggenti.

 

Responsabili per amore

Si tratta, infine, d’imparare a motivare la vita intera, il proprio essere e agire, con la motivazione che ha spinto Gesù ad abbracciare la sua croce, perché l’amore è la vera e unica motivazione della vita, è per amore che noi siamo vivi, è per amore che siamo chiamati, è per amore che possiamo fare un certo servizio, e dunque è solo per amore che possiamo rispondere alla vita, rendendoci responsabili degli altri; è per amore e solo per amore che ha senso morire, accettando fino in fondo tale responsabilità. Anche nelle situazioni che sembrano darci un messaggio contrario, o ci provocano o ci tentano a pensare il contrario, che non siamo frutto d’amore o che ci conviene fare i furbi e scegliere chi e come amare, per non farci fregare e pensare a noi stessi, e magari alla nostra salvezza o alla nostra vocazione. Perché non tutti i credenti o non tutti i sacerdoti o religiosi e religiose si sentono di fatto responsabili della vocazione altrui? Perché non tutti i chiamati hanno il coraggio di chiamare? Io credo che qui possiamo trovare una possibile spiegazione; perché solo la croce provoca la responsabilità dell’amore, solo chi si sente salvato dalla grazia “a caro prezzo” sente di dover pagare lo stesso prezzo per gli altri. Solo chi impara a mettere ogni giorno la croce al centro della vita e si lascia amare e giudicare da essa può caricarsi sulle spalle il fratello.

L’animazione vocazionale è la proposta di questi significati della croce: la croce-verità, come condizione di senso della vita. Così la guida spirituale la deve vivere, se vuole che la sua proposta sia efficace e provocante. Questa è la maturità spirituale che gli è richiesta. Ma vediamo come articolare la proposta sullo sfondo della sapienza della croce.

 

 

La via vocazionale della croce (maturità del chiamato)

La croce non è solo sfondo o punto d’arrivo, ma può essere anche via e percorso; non solo contenuto, ma anche metodo; non appena mistero tenebroso, ma proposta pedagogica che aiuta a fare chiarezza e indicare come giungere a trovare la propria vocazione. Dato che abbiamo parlato di integrazione, vorrei ora indicare un percorso che sfrutta un’intuizione psicologica, quella in particolare di Kernberg, che ha pensato il cammino di maturazione dell’essere umano come un cammino che conduce alla capacità di stabilire relazioni oggettuali totali, cioè con la totalità dell’oggetto, passando attraverso cinque fasi. È un concetto che può aiutarci a capire e vivere meglio il senso del comandamento divino di amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e in questo momento soprattutto può suggerirci come articolare la proposta vocazionale.

 

Autismo vocazionale

È la situazione di partenza. Ma in certi casi, ahimè, è anche quella di arrivo, ovvero è situazione che non si sblocca mai. Il termine è esagerato, ma rende l’idea di chi in pratica è chiuso nella progettazione dell’io a ogni mediazione o relazione, autogestendosi in assoluta autonomia presente e futuro, o in assoluto egoismo. Ma mentre quest’ultimo è reale, spesso l’autonomia è un’illusione, perché chi pretende far tutto da solo si espone, per di più senza saperlo, a una serie pesante di condizionamenti, dall’interno e dall’esterno (dalle sue tendenze alle sue paure, più o meno inconsce; dalle tendenze della cultura a quelle del mercato…). L’impressione è che ci sia molto autismo vocazionale anche nella Chiesa, pure in molti che hanno già scelto ma che vivono la loro vocazione al di fuori della logica della croce; anche nei nostri gruppi giovanili. Più precisamente, diciamo che c’è autismo vocazionale laddove il progetto del proprio futuro non nasce dinanzi alla croce, perché nulla come la croce allontana la pretesa di saper già tutto di sé e apre al mistero, distoglie dal ripiegamento ebete su di sé e dà alla vita una prospettiva essenzialmente relazionale.

 

Illusione simbiotica

Un’espressione ancora molto infantile di fede è rappresentata dalla pretesa di identificare in assoluto le proprie attrazioni o sentimenti o orientamenti con il piano di Dio, formulando dunque ipotesi circa il futuro che corrisponderanno a prospettive molto soggettive. Come se Dio dovesse esser sempre d’accordo coi gusti del soggetto, o fosse la creatura a indicare al Creatore il piano della creazione. È la fede di chi segue devotamente quel che sente dentro, quel che prova nel cuore; o la fede dei primitivi adoratori delle proprie sensazioni, fino a divenire succubi di esse e prenderle come segnale inequivocabile della propria vocazione; o è ancora la finta fede di certi gruppi parrocchiali, gruppi “del mutuo soccorso”, ove si cerca semplicemente e soprattutto la calda intimità del rapporto interpersonale, ove ci si ritrova tutti simili e tutti ci si gratifica reciprocamente, in un girotondo attorno ai sentimenti dove un po’ alla volta anche Dio è disegnato sul modello dei propri bisogni. C’è tutta una cultura oggi che spinge in questa insensata direzione, sarebbe in fondo la tendenza New Age, che elimina l’alterità dell’Eterno e rende confusi e indistinti i confini dell’io, finendo per essere vero e proprio messaggio di ateismo. Tale pretesa simbiotica è la tentazione o illusione classica del credente; è in fondo, ancora una volta, la tentazione di fare a meno del Crocifisso, vertice estremo dell’alterità divina, punto di massima divaricazione tra Dio e l’uomo, esperienza umana addirittura di “abbandono” da parte di Dio. La vocazione, progetto di Dio sull’uomo (e non progetto dell’uomo su Dio o su se stesso) è riconosciuta autenticamente solo al di fuori dell’illusione simbiotica.

 

Prova della differenziazione

L’incanto o la pretesa della simbiosi è destinato a durare ben poco, perché molto presto la vita, e più in particolare un cammino serio di iniziazione alla fede, dovrebbe porre l’essere umano, l’aspirante credente, di fronte alla novità e imprevedibilità di Dio, il Radicalmente Altro. Ed è proprio qui, in questo punto, che l’animazione vocazionale assume senso e trova il suo ruolo. La vocazione, infatti, rettamente intesa, è il pensiero del Creatore sulla creatura, è la dimostrazione molto personale (“ad hominem”) che i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, e dunque contiene inevitabilmente una certa differenziazione. Parliamo della vocazione in quanto chiamata quotidiana, continua, sempre sorprendente e a volte sconcertante; se un giovane viene educato a percepire questo appello quotidiano, a capire che “ogni vocazione è ‘mattutina’, è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno”[9], viene come allenato costantemente a entrare nella logica di Dio, a riconoscerla come qualcosa che trascende regolarmente i suoi orizzonti e impossibile da identificare coi suoi gusti, appiattendola su una misura riduttiva.

L’animatore vocazionale che conosce questo esercizio quotidiano sa indicare al giovane un segnale inconfondibile della chiamata quotidiana divina: è il segnale della croce, come un richiamo o un pungolo continuo che ogni giorno spalanca dinanzi alla vita umana orizzonti impensati e chiede la rinuncia a progetti meschini. La croce come compagnia abituale, dunque, addirittura quotidiana, non come evento sinistro eventuale, da tener distante il più possibile, ma come distintivo inequivocabile della presenza del Dio che quando ama chiama, così come un giorno ha chiamato il Figlio a dare la vita per l’umanità. In tal senso la ricerca vocazionale è vera e propria via crucis, nel senso più arioso e positivo del termine, perché la croce è verità, è la croce che moltiplica l’amore e scaccia le paure, è la croce perennemente giovane in cui riconoscere la propria identità, finalmente e definitivamente positiva.

 

Integrazione vocazionale

In tal modo, piano piano la croce si mette sempre più al centro della vita del giovane; non più segno di lutto e dolore, dolorosa e umanamente repellente, ma diventa punto di riferimento fondamentale per la ricerca della propria identità, perché il giovane scopre progressivamente che è la croce a dire il senso della sua vita, la sua verità, la verità della vita e della morte, perché la sua esistenza viene da quella morte e tende verso quella morte, o è frutto di quell’amore e tende a esprimere quello stesso amore che ha portato Cristo in croce. Se infatti la sua vita viene da quel gesto d’amore, si ritroverà dentro di sé quella stessa capacità d’amare, non potrà inibirla dentro di sé; anzi, la sua identità e positività è tutta racchiusa in quel legame tra amore ricevuto e amore donato, tra vita ricevuta in dono e dunque a sua volta donata, non nel corpo, non nei suoi successi, non in un certo modo di possedere l’altro, ma nella gratitudine che diventa gratuità[10].

Ecco la valenza tipicamente vocazionale della croce. La croce risponde al bisogno d’identità positiva dell’essere umano, perché gli dà il messaggio più forte, sicuro e definitivo della sua amabilità e positività, se Dio ha ritenuto di morire per lui; d’altro canto la croce non solo rassicura e conforta, ma pone sulle spalle anche una tremenda responsabilità, perché non c’è nulla di più responsabilizzante dell’amore ricevuto. Di conseguenza, l’amore della croce diventa impegno a donare amore, è la vera fonte del comandamento dell’amore, significa la piena assunzione di responsabilità nei confronti anche degli altri, è dunque il momento più alto e decisivo del cammino e della decisione vocazionale (e risponde anche proprio alle due situazioni critiche ove s’evidenzia e si concentra una certa debolezza della gioventù d’oggi: la ricerca d’identità e la paura delle responsabilità).

Anche questo è integrazione. Integrare, infatti, è trovare un centro attorno al quale la vita intera può girare ed esser attratta, un centro di gravità che attrae tutto a sé, che dà senso e verità a tutto, che consente al giovane di “raccogliere” tutta la sua esistenza, tutti gli aspetti della propria personalità, dal positivo al negativo, dall’affettività alla sessualità…, attorno a esso, per sottoporlo al suo giudizio, ma anche e soprattutto perché da questo centro luminoso e caloroso riceva luce e calore (“nulla si sottrae al suo calore”, Sal 18), e nessun frammento del suo essere viva lontano da questo centro, come meteora impazzita che si perde nel buio dell’insignificanza e nel gelo del non amore. La croce è questo centro di gravità che attira tutto a sé. Ogni essere umano ha bisogno d’un centro, al quale riferirsi e dal quale dipendere, dal quale partire e cui far ritorno, come radici da cui ogni giorno fiorire e rifiorire, o ciò che dà la certezza assoluta della propria amabilità e positività. Ebbene, nulla come la croce può fare da centro vitale della vita, o esser la radice sana e ricca d’energia d’una vita nuova che s’apre al progetto pensato dal Padre. Per questo possiamo ben dire che la vocazione, come la gioia, ha le radici a forma di croce!

 

Consegna di sé e felicità

Se ogni uomo ha bisogno d’un centro cui fare riferimento costante e attorno al quale costruirsi, è anche vero che ogni uomo è poi chiamato a consegnare se stesso, ad affidarsi e ad affidare quel che è ed ha a un altro, a un ideale o a una persona, o comunque a chi o cosa ognuno deciderà, ma in ogni caso non potrà esimersi dal farlo. La consegna di sé è atto inevitabile, anche chi la nega di fatto la mette in pratica, consegnandosi a qualcosa o a qualcuno che lui ignora. In un cammino vocazionale questa tappa finale significa la scelta vocazionale vera e propria, che è soprattutto un gesto di consegna di sé a Dio Padre e Creatore.

Consegna come fiducia, abbandono, certezza della presenza e dell’amore del Dio fedele, decisione presa non sulla base del calcolo mirato o della previsione della propria riuscita o di garanzie esterne o della conoscenza perfetta di quel che il futuro riserverà, ma in forza d’un atto di fede che diventa fiducia. Quella stessa fiducia che diede al Figlio il coraggio di andare incontro alla morte con atto libero e responsabile (la mia vita “nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso”, (Gv 10, 18), e di lasciarsi inchiodare sulla croce; la fiducia che il Padre non l’avrebbe abbandonato (anche se poi sulla croce proverà la tentazione contraria).

Consegna anche a un’istituzione umana, a persone concrete, a una storia in cui si entra e che esprimerà senz’altro, accanto alle meraviglie della grazia, la debolezza della creatura. Ma anche qui vale lo stesso principio: il giovane che sceglie di accogliere l’appello dall’alto non pretende di entrare a far parte del partito dei puri, semmai è grato di poter riconoscere la sua identità in un gruppo di persone che vivono un certo dono; non pretende che siano perfette, gli basta sapere che in quella convivenza lo attende la grazia che lo formerà e plasmerà secondo l’immagine del Figlio e della sua Pasqua di morte e resurrezione.

La croce è l’immagine della fiducia e dell’abbandono di sé, come testimoniano le ultime parole dette dal Gesù morente. Ma è anche ciò che sollecita questa fiducia e il coraggio dell’abbandono che porta a una scelta. Infatti la croce non solo dà la certezza dell’amore ricevuto, ma rende consapevoli della capacità di saper dare. Anzi, la croce è la più forte provocazione a dare, a imitare il gesto di Gesù, a fare la stessa cosa, lo stesso dono. Nulla è così rassicurante e al tempo stesso provocante come la croce.

Per questo nulla può far nascere una opzione vocazionale come la croce di Gesù, in cui è la salvezza nostra, d’ognuno e di tutti, in cui è la promessa più sicura d’una felicità senza fine, perché nulla come il dono di sé rende felici, d’una gioia per sempre. Amen.

 

 

 

 

Note

[1] All’affermazione, diversi anni fa, del card. BIFFI vi fu chi rispose con risentita ironia: “Disperato sarà lei, noi siamo sazi e contenti d’esserlo…”.

[2] “Le parole scappano e non ce n’accorgiamo”, così J. J. MILÀS, autore di L’ordine alfabetico.

[3] Una ricerca nel mondo giovanile inglese ha dimostrato che i ragazzi “conoscono al massimo una decina di parole relative alle emozioni e all’affettività: …parole scarsamente differenziate, generalmente volgari, che non consentono sottigliezze quando si tratta di definire il proprio stato d’animo o di comprendere quello altrui…, e quando non ci sono parole, le soluzioni sono essenzialmente di due tipi, chiudersi in se stessi o aggredire gli altri, cioè affidare all’azione ciò che non si sa esplicitare in modo più articolato” (A. OLIVERIO, Le nostre emozioni alla ricerca di un alfabeto, in “Avvenire”, 15/III/2001, p. 23).

[4] Circa il problema dell’identità e sui livelli dell’identità stessa cfr. A. CENCINI, Amerai il Signore Dio tuo. Psicologia dell’incontro con Dio, Bologna 1999, pp. 13-37.

[5] In Italia ogni anno ci sono più di sette suicidi ogni 100mila ragazzi.

[6] Avrà un suo significato, in relazione a questi due equivoci sull’identità, che siano circa 4 milioni gli Italiani che hanno sperimentato episodi più o meno lunghi di depressione, mentre 6 milioni sono gli obesi.

[7] L. CASTELLAZZI, La crisi adolescenziale. Problemi di diagnosi differenziale tra crisi evolutiva e psicosi, in “Orientamenti Pedagogici”, 37 (1990), p. 242.

[8] Cfr. Giovani: come dar loro entusiasmo?, lettera firmata in “Avvenire”, 11/IV/2001, p. 20. 

[9] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26a. 

[10] Cfr. Nuove vocazioni, 26c.