Anche la fede ha problemi di qualità
La sfida davanti alla comprensione del tema della qualità della fede attraverso l’esplorazione della sua dinamica nella vita di una persona è tutta racchiusa nei racconti evangelici di vocazione ed in particolare nella vocazione mancata, raccontata a proposito dell’uomo ricco (cfr. in particolare delle tre versioni sinottiche Mc 10,17-22). Questo testo rappresenta un punto di partenza privilegiato perché consente, a differenza degli altri racconti di vocazione caratterizzati dall’immediatezza della risposta da parte dei chiamati, una considerazione ampia del percorso della decisione umana di fede, che diventa un paradigma di permanente attualità.
Ti manca allora solo una cosa…
Nel testo risulta centrale la qualificazione di partenza dell’uomo che interpella e viene interpellato da Gesù. Egli è ricco e dunque socialmente ed esistenzialmente si ritiene giusto. Misura la sua realtà attuale dell’essere giusto sia dalla consistenza del suo passato (attraverso il quale si è arricchito) come del suo presente dove la ricchezza diventa carta di valore riconosciuta dalla religiosità del tempo della sua condizione di giustizia. “Il ricco non riesce a separarsi dalla ricchezza che considera ricompensa della sua giustizia”[1] e dunque non può entrare nella signoria di Dio che viene a svelarsi attraverso la proposta della sequela di Gesù che lo porta a lasciarsi alle spalle il proprio passato e le sue identificazioni. È in gioco tutta la forza della tradizione nella quale viene ad elaborarsi un’immagine di Dio codificata e sorprendentemente distrutta dalla proposta a lasciare i propri beni per abbracciare la nuova rivelazione di Dio in Gesù di Nazareth. Per questo “ è veramente impossibile che un ricco entri nella signoria di Dio – un ricco, che non ha bisogno di Dio o lo trasforma in un suo ausilio, il quale ricompensa la sua rettitudine”[2]. Alla luce di questo racconto viene a delinearsi l’itinerario che vogliamo perseguire.
C’è sempre un’immagine di Dio alla quale ancorare la propria sicurezza e davanti alla quale rassegnare il coraggio di ricercare un’ulteriore qualità che salvi insieme la “reale consistenza di Dio” che si dà (rivelandosi) ed insieme si cela nel suo mistero e l’esatta percezione di sé. Un primo tratto allora di una fase “qualitativamente” esperita è dunque nella presa di distanza di una dimensione di religiosità o di fede già espressa, in modo pregiudiziale, nei tratti della cultura o della propria biografia personale (punto 1). Questa presa di distanza porta simultaneamente a misurare la dimensione di limite propria dell’esistenza individuale come punto prospettico per misurare l’autentica “verità” ed insieme l’orizzonte della “libertà” che viene messa in gioco “dalla fede” e ritrovata “nella fede” e senza la quale essa stessa non verrebbe a compiersi (punto 2). Gli ulteriori passaggi possono essere racchiusi nel “riconoscimento di sé”, con il quale la fede viene a coincidere con l’“identità” della persona (la “coscienza credente”), nella “decisione” con la quale la fede viene a coprire lo spazio del senso e del suo protendersi nel tempo e nella “attuazione”in cui la fede incontra l’esperienza dell’appartenenza e, dunque, della sua ecclesialità e l’esigenza della testimonialità quotidiana (punti 3-5).
Il presupposto di fondo è rappresentato dalla singolarità di Gesù nel suo rapporto costante con il Padre da cui riceve tutto e che è chiamato a rivelare come il ‘tutto’della propria vita. È dunque la fede di Gesù, il suo rapporto con il Padre, davanti a cui Egli si riconosce come Figlio e da cui ne riceve il senso pieno da attuare nella sua concreta storia di vita, ad essere il tratto che qualifica la fede del cristiano nei termini di una partecipazione alla sua coscienza filiale, nei termini di un rapporto reale e vissuto, attraverso il Cristo, con il Padre che viene a riempire integralmente la vita stessa dell’uomo reso possibile come frutto della grazia dello Spirito che consente “di essere resi conformi a lui”[3]. La sequela richiesta al giovane ricco diventa così la necessità insostituibile di partecipare alla stessa coscienza filiale di Gesù sia nella sua comprensione come nella sua attuazione[4]. Per questo “si potrà dunque parlare di fede cristiana esclusivamente laddove l’uomo deciderà nel concreto della sua esistenza di affidarsi a Gesù Cristo il quale, se per un verso rivelerà in se stesso all’uomo il Padre, per altro renderà l’uomo capace di accogliere questa stessa rivelazione attraverso il dono del suo Spirito”[5].
Prendere le distanze (o del dolore del lasciare)
C’è comunque un lasciare alle spalle, un rompere con i pregiudizi che costituiscono come una vetrata che opacizza ogni rapporto vivo con il Dio di Gesù Cristo. Ogni cultura ha costruito i propri presupposti e i propri cortocircuiti intellettuali che, se hanno reso concettualmente configurabile l’approccio al mistero di Dio, tuttavia hanno contribuito a deformarne il senso. L’analisi di essi nella sua completezza sfugge i contorni imposti al presente contributo. Per questo occorre limitarsi a segnalare alcuni tratti della “religiosità diffusa” che pregiudicano l’accesso ad una qualificazione della fede nei termini sommariamente accennati.
Un primo tratto è quello della deriva psicologica della fede. La riduzione della fede allo spazio del sentimento, quello lasciato angosciosamente libero da ogni altra spiegazione su di sé ed il mondo, riconduce il credere ad un semplice bisogno psicologico e sicurizzante per la persona che emerge dopo il fallimento di tutti gli altri valori sui quali si è cercato di costruire la propria vita o che si pone semplicemente accanto (e non in alternativa) ad essi solo per alcuni segmenti della vita. Prendere le distanze significa riconoscere che la fede non può essere un semplice linimento consolatorio alla fatica e ai drammi dalla vita.
Un secondo tratto è quello della deriva moralistica della fede. L’illusione, non troppo sottile, è quella di ricondurre quello che è un rapporto globale con Dio ad una prestazione da compiere. È l’illusione di pensare che compiere le opere di Dio compensi e dispensi dal comprendere chi è il Dio che chiede all’uomo l’amore e le sue opere, misconoscendo che la “sorpresa dell’amore” è tutta dalla parte di Dio che precede e fonda ogni azione di amore dell’uomo. Prendere le distanze da questo significa ricordare che il nesso profondo tra fede ed amore, tra proposta di Dio e risposta dell’uomo, non è mai esprimibile come alternativa, ma solo come mutua e profonda implicazione.
L’ultimo tratto è ravvisabile nella deriva intellettualistica della fede. È la sbrigativa riduzione della fede ad un “pacchetto”di verità da credere, che non di rado diventa un fardello ingombrante perché non si riesce a comprendere più il motivo per cui esso ci sia stato consegnato attraverso un lungo processo di iniziazione condotto in età infantile. Lasciare alle spalle questo pregiudizio comporta l’impegno a fuoriuscire da una forma di infantilismo religioso che riduce il conoscere Dio ad una serie di informazioni non troppo facilmente utilizzabili come “senso” per il vivere quotidiano.
C’è poi un lasciare alle spalle che è del tutto personale e che non si può catturare nei tratti descritti. È quello legato alla propria biografia, alla sedimentazione di alcune modalità nel percepire e vivere la fede che precludono ad ogni ulteriore ricerca. Resta comunque la verità di questo primo passo che impone di creare quello spazio interiore aperto per un’esatta valutazione di sé e della proposta del Dio cristiano come capace di raggiungere ed illuminare in modo integrale la persona colta nella sua essenziale storicità della propria verità e libertà[6].
Misurare se stessi (o del problema della verità e della libertà)
Accanto a questa operazione, pur dolorosa quanto necessaria, si profila un ulteriore passo per accedere alla “qualificazione”della fede: l’impegno a misurare i termini esatti della verità di sé e della propria libertà, all’interno dei quali la fede può costituirsi come apertura totale all’Altro.
Quest’apertura è resa possibile attraverso la percezione del proprio limite creaturale, della propria finitezza esistenziale[7]. Circa l’idea di limite occorre accennare che dietro questa espressione non si vuole semplicemente descrivere l’inevitabile limitazione connessa con la storia della vita personale. Secondo questa visione allora l’esistenza appare “delimitata” dalla condizione e dalla biografia individuale come rinuncia ad un’orgogliosa presunzione della propria volontà di potenza. Accanto a questa accezione occorre pensare al limite nel senso del “confine”. Fare esperienza del proprio limite è dunque l’operazione coraggiosa di giungere al confine della mia libertà, al punto ultimo delle mie possibilità, alla percezione piena di quello che sono per scoprire qui l’apertura alla fede, come affidamento sensato all’Altro che permette di guardare al mio limite personale come l’unico orizzonte in cui Egli rivolge la Parola di salvezza. Proprio da questo “limite” o “confine” allora appare la dimensione della verità personale e del Dio persona che si rivela in Gesù. Il limite è l’orizzonte della verità oltre l’illusione di autofondare l’esistenza o di dissolverla nell’alienazione. Da esso appare allora la verità della fede che supera la visione di Dio come semplice espansione del mio bisogno insita in ogni processo di autofondazione di sé o della visione di Dio come idolo che ha bisogno dell’uomo per sussistere e che insieme aliena l’uomo asservendolo a sé. Dal limite che sono colgo che l’irrompere di Dio misura la mia vita come reale possibilità di fondarsi e di esprimersi nella libertà autentica. Così l’orizzonte della libertà diventa lo spazio aperto della vita che viene messo in gioco dalla fede e insieme riconquistato da essa. Il Dio a cui la libertà dell’uomo si affida non è il dio-padrone che ritaglia gli spazi della libertà di ciascuno catturandoli a sé, ma il Dio-Padre per il quale l’esperienza della fede diventa la reale apertura della vita nella sua integralità. A partire da questa misurazione di sé la dinamica della fede viene a dispiegarsi come problema di “identità”, di costituzione dell’orizzonte del senso e di doverosità della testimonianza, come di altrettante garanzie della sua qualità.
Riconoscersi (o della costituzione dell’identità)
La fede non è un semplice problema di conoscenza, ma di riconoscenza. Si tratta di mostrare come l’identità della persona è tutta racchiusa da questa verità del proprio limite e della libertà che si apre solo in esso. Riconoscere è dunque assumere l’intera propria esistenza sotto il segno della fede ritenendo che essa venga a definire in modo totale la propria vita. Riconoscere è fare esperienza che niente di quello che una persona è, a cominciare dagli affetti, può essere sottratto dalla logica della fede. Riconoscersi è ancora esperienza dello stupore, della meraviglia che la mia vita è comunque donata, e che viene dall’Altro. Ma anche riconoscersi è superare l’angoscia della distanza tra la logica della fede e l’attuale situazione di vita in cui la persona viene a trovarsi. Riconoscersi significa accedere, oltre l’incertezza della meraviglia e l’apparente paralisi dell’angoscia, alla responsabilità, cioè alla doverosità di dare risposta con la vita al Dio cui la persona si è affidata. Tale responsabilità implica, allora, l’impegno della decisione, cioè il passaggio dall’astratta considerazione della vita alla sua progettazione.
Decidersi (o dell’orizzonte del senso)
Decidere e decidersi significa allora costituire l’orizzonte complessivo del senso che dovrà essere perseguito e verificato nella concretezza della vita. “Decidersi è progettare e questo ha come costitutivo l’anticipazione di qualcosa che non si possiede e l’affidamento al senso che a questo anticipato si dà con la decisione [….] Per essere se stesso e non perdersi nell’insignificanza ognuno deve singolarmente decidere e la decisione è ciò che di più nostro abbiamo perché nessuno può decidere autenticamente per noi”[8]. La fede si struttura dunque come decisione nella quale si profila il senso dell’esistenza nella sua apertura, attraverso il tempo, al futuro. Tale decisione coincide con l’accoglienza di Gesù Cristo e l’accesso alla sua obbedienza filiale come senso complessivo ed implicala destinazione della vita all’amore di Dio e dei fratelli nei termini proposti dall’esperienza storica di Gesù[9]. “La decisione di credere in Gesù Cristo coincide col vivere per Lui, con Lui ed in Lui, attuando in questo modo, attraverso un’obbedienza totale ed incondizionata a Gesù Cristo, l’unico rapporto realmente in grado di consentire all’uomo di realizzare in pienezza la libertà finita che lo costituisce strutturalmente”[10]. Davanti all’incertezza della decisione si gioca il difficile accesso alla qualità della fede che diventa vocazionalmente feconda. Tale decisione dunque rappresenta un atto intensivo ed espressivo della destinazione della vita che richiede di essere estensivamente proposto e verificato nelle molteplici circostanze della vita attraverso la doverosità della testimonianza.
Attuarsi (o della doverosa testimonianza)
L’ultimo elemento della “qualità” della fede è il suo approdare dalla decisione all’attuazione, al configurare storicamente e biograficamente la vita. La questione della testimonianza è più che una semplice conclusione dell’opzione di fede, ne rappresenta, piuttosto, la permanente verifica a confronto con le molteplici esperienze ed esigenze della vita. Il carattere testimoniale della fede cristiana richiede di essere esplorato su due versanti. II primo è quello dell’adesione alla Chiesa, non semplicemente nei termini di superare l’opposizione, culturalmente vincente (e per certi versi convincente) tra l’accoglienza di Gesù e il ripudio della Chiesa, ma piuttosto tale adesione deve esprimersi come consapevolezza che la costituzione della Chiesa ha a che fare con l’impegno di ciascuno a dare ragione della fede e a ritrovare le ragioni della fede nel confronto con i fratelli e le sorelle della comunità cristiana. Questa attuazione ecclesiale diventa costitutiva della Chiesa stessa come comunità di quanti sono posti sotto l’obbedienza al Signore Gesù, chiamati a percorre la sua “via”e a proporla come “verità” attraverso la testimonianza della “vita”. L’ulteriore figura della attuazione è quella della coerenza personale che è richiesta ai discepoli non come orgoglioso impegno all’autoperfezionamento, ma come espressione che ogni aspetto della vita ha a che fare con l’amore, che si profila non nella sua genericità, ma nella sua generalità. L’amore, la carità, come realtà da ritrovare, custodire e realizzare in tutte le esperienze della vita e da accogliere come perdono (da parte di Dio e del fratello) davanti allo scacco del peccato. Tale attuazione allora dimostra come l’amare sia possibile solo a partire dall’apertura nella fede al Dio-amore rivelato da Gesù. Lo sforzo della qualità della fede che testimonia è allora quello non tanto di esibire una molteplicità di atti, ma attraverso la molteplicità degli atti di cui si compone, inevitabilmente, la vita della persona, di mostrare l’unica realtà che ne consente l’unificazione: l’amore.
“Vorrei imparare a credere”
Il profilarsi di un itinerario di qualificazione della fede può spietatamente mettere la persona davanti alla protesta della sua impossibilità. Se questo può portare ad una sorta di “blocco” o di ripiegamento verso le più accomodanti derive della fede, d’altra parte può svelarne il fascino nascosto dietro l’incompiutezza e rilanciare la ricerca verso il suo compimento come impegno non solo mai precluso all’uomo, ma anche costantemente in fieri e da accogliere come frutto della “grazia” a caro prezzo che sgorga dalla Croce di Gesù che continua ad attrarre a sé e alla sua sequela gli uomini di ogni tempo. Restano allora vere le parole di D. Bonhoeffer: “Si impara a credere solo nel pieno essere – aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa, un giusto o un ingiusto; un malato o un sano – , e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani”[11]. Così davanti ad ogni protesta di una risoluzione della vita nei termini di una realizzazione di essa e dei propri progetti, Bonhoeffer replicava semplicemente: “Io vorrei imparare a credere”
Note
[1] L. GOPPELT, Teologia del Nuovo Testamento, vol. I, Morcelliana, Brescia 1982, p. 149.
[2] Ivi, p. 150.
[3] Veritatis Splendor, n. 21. Risulta comunque importante la scansione dei nn. 19-21 dell’Enciclica di GIOVANNI PAOLO II nei quali si mostra il collegamento del tema della “sequela di Gesù”con quello della “imitazione di Gesù” e della “conformazione a Gesù” come tratti specificanti la morale in senso cristologico e nel suo nesso con la dinamica della fede.
[4] È questa, di fatto, la logica che presiede alla costituzione degli stessi racconti evangelici, come espressa in modo sintetico dall’apertura del Vangelo di Marco e dal percorso narrativo attraverso cui il lettore è condotto fino alla risposta personale di fede davanti al “sepolcro vuoto” (Mc 16,8).
[5] P. BERNARDI, La fede come obbedienza a Gesù Cristo, in P. BERNARDI – G. GIORDANO – G. LINGUA, La Decisione di Credere. Per una comprensione della fede come atto pratico. Esperienze, Fossano (To) 1996, p. 183-4. Si noti, di passaggio, come questa prospettiva lasci alle spalle un’interpretazione della fede come atto intellettualistico presupposta dal modello “manualistico” della teologia come illustrato in altra parte del Saggio citato. Per una più profonda comprensione del tema si rimanda, comunque, ad un’opera di Teologia Fondamentale ed in particolare a P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, in Biblioteca di teologia contemporanea, 85, Queriniana, Brescia 1996.
[6] È facile osservare che le tre derive della fede a cui si faceva cenno corrispondono ad una riduzione di essa all’espressione privilegiata di una delle facoltà ritenute costitutive dell’uomo. Rispettivamente quella psicologica alla facoltà del sentimento, quella moralistica alla volontà e quella intellettualistica alla ragione. È superfluo far notare che un accostamento alla fede nei termini di un rapporto ontologicamente costitutivo con il Dio rivelato in Gesù Cristo non può né essere adeguatamente espresso per appropriazione di una di queste facoltà e nemmeno dalla semplice sommatoria di esse. L’accesso alla fede viene a coincidere con l’integralità e l’integrità della persona colta a partire dall’effettiva ed affettiva esperienza di vita. La fede in atto diventa così “ forma pratica dell’unità della persona” (cfr. P. SEQUERI op. cit., pp. 356 ss.).
[7] Circa il rapporto tra “finitezza e questione di Dio” preziose riflessioni, anche se di uno spessore teoretico di non immediata accessibilità, sono offerte nel numero monografico, dedicato a questo tema, della rivista Filosofia e teologia 7 (1993) 3.
[8] G. LINGUA, L’uomo di fronte all’esistenza, in P. BERNARDI…. op. cit., p. 34. Circa il tema della decisione valgono le pertinenti riflessioni contenute in A. BERTULETTI, La decisione e la verità, in Servitium, 28 (1993) 87, pp. 216-223.
[9] Circa il tema della destinazione di sé alcune indicazioni possono essere ritrovate in P.D.GUENZI, La condizione dell’adulto: destino, fede e vocazione, ‘Vocazioni’ 13 (1996) 3, pp. 24 ss.
[10] P. BERNARDI, La fede come obbedienza…, in op. cit., p. 198.
[11] D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Classici del pensiero cristiano, 2a Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 446.