N.06
Novembre/Dicembre 2001

Santi “in” e “per” un popolo santo

 

 

 

I fili invisibili della vita

La storia ha ricominciato a correre nuda, senza che la cultura abbia avuto il tempo di imbastire neppure una camicia per coprirla.

Rubo questa immagine ad un giornalista che la coniò anni fa, all’indomani della caduta del muro di Berlino[1]. Oggi sono cadute le due Torri. E non solo loro. Verso dove sta correndo, questa storia, nuda, senza che gli stracci delle nostre riflessioni possano darle una parvenza di dignità? Almeno ci accorgessimo di questa nudità, e ce ne vergognassimo: come all’alba di quel primo mattino, nel giardino, il rossore fu sulle gote di Eva e di Adamo… In quel giorno fu Dio stesso a tessere, per loro, tuniche di pelle. Anche noi, oggi, abbiamo bisogno che la sua misericordia si commuova, che il suo volto si chini ed Egli ci innalzi, fino alla guancia come una madre con il suo infante[2]. “In-fante”: colui che non sa parlare, che non sa imbastire un discorso con cui interpretare quanto capita in lui e attorno a lui. E resta nuda la sua storia, la nostra storia che avremo voluta nuovissima e felice, voltando la pagina del millennio.

Ma un’altra immagine, sullo stesso registro simbolico, ci soccorre e ci dà speranza. Si tratta dell’invito, lanciato dai nostri vescovi, a riscoprire “i fili invisibili della vita, per cui nulla si perde nella storia e ogni cosa può essere riscattata”[3]. È uno stimolo a tessere il mantello della intelligibilità, con cui avvolgere la storia ed accompagnarla verso la sua pienezza escatologica. I vescovi italiani scrivono che sono l’ascolto, la memoria ed il pensare a dischiudere il futuro ed indicano in queste attività la navicella con cui i credenti potranno tessere trama e ordito di speranza per rivestire i loro contemporanei. È in questa ottica che ci poniamo per riflettere sulla sfida alla santità, esigente, per tutti, irrinunciabile. Una santità che sia vestito della festa, festa escatologica per tutti i popoli, ma festa già iniziata nella pasqua. Una santità pasquale, eucaristica, conviviale perciò: “perché, altrimenti, l’uomo avrebbe l’irresistibile bisogno di far festa, se non per un ‘di più’ di gioia che soltanto la condivisione può permettergli di vivere?”[4].

 

La memoria

Parlando di santità, i sentieri della memoria conducono ad approdi diversi. Ed è bene rivisitarli per riconciliarsi anche con i limiti delle umane riflessioni, inevitabilmente segnate dal tempo e corrose da lui. Questo brevissimo pellegrinaggio può aiutarci ad ascoltare con rinnovata vivezza il messaggio del Vaticano II e dell’attuale Pontefice, così che possa stimolare il desiderio intenso di santità, quella, appunto a cui senza possibili equivoci, il battesimo stesso ci abilita.

Sbrigativo appare il giudizio storico espresso nel Dizionario teologico della vita consacrata: “Prima del Vaticano II la perfezione cristiana era considerata patrimonio quasi esclusivo di pochi agguerriti atleti della santità che avevano scelto un cammino di eccezione […] il cammino dei precetti veniva ad essere una via di terza classe”[5]. Dicevo “sbrigativo” il giudizio, poiché esistevano, da sempre, filoni di spiritualità feriale e quotidiana. Non è questa la sede per riprendere alcune intuizioni della devotio moderna o di Francesco di Sales, mi limito ad indicare come riferimento il passaggio che compì la definizione di santità quale esercizio eroico delle virtù, da “eroicità” straordinaria ad “eroismo dell’amore quotidiano”. Scrisse Benedetto XV nel 1916: “La santità consiste propriamente solo nella conformità al volere divino espressa in un continuo ed esatto adempimento dei doveri del proprio stato”[6]. È la persona, con il suo personalissimo cammino, nelle situazioni abituali della propria esistenza ad essere chiamata in causa.

Proseguendo su questa linea, Pio XI, in occasione di una canonizzazione, affermò: “Quale forza si richiede anche solo per difendersi da questo terribile, schiacciante, monotono, asfissiante quotidiano! Quanta non comune virtù è necessaria per adempiere con non comune esattezza, o meglio non con la comune e quotidiana così frequente inesattezza, negligenza, faciloneria, ma con attenzione, pietà, fervore intimo di spirito, tutto il complesso di cose comuni che riempie la nostra vita quotidiana”[7]. E il Pontefice evidenzia l’azione di “provvida maestra” compiuta dalla chiesa nel dar risalto a umili luci spesso ignote, in modo che risulti evidente come “a tutti, senza distinzione, è rivolto l’appello alla santità”[8]. Su questa tematica è più volte intervenuto anche Papa Pio XII, cosicché i teologi parlano di “certezza morale” riguardo alla universale chiamata alla santità, in quanto tale verità è presente nel magistero ordinario dei Pontefici. Allora qual è la novità del Vaticano II? Mi pare vada posta non tanto sulla universalità della chiamata, che recepisce e ribadisce le istanze più volte espresse nel magistero e nella vita della chiesa, ma piuttosto quella di evidenziare la dimensione misterica su quella etica.

Si legge in Lumen gentium 40: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e quindi perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuto. […] Il Signore Gesù, …a tutti i singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione […] mandò lo Spirito Santo per muoverli internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro”.

La santità che è in Dio viene consegnata, nel sacramento, ad ogni uomo che si lascia raggiungere dallo Spirito scaturito dalla Pasqua del Signore Gesù. Abitare nel “costato aperto” del suo Signore è fare esperienza della misericordia che santifica. Questa la “rivoluzione” del Vaticano II: guardare alla chiesa come comunità identificata dal suo essere modellata sulla Trinità. Da qui scaturisce il modello misterico (cioè sacramentale) della santità che è filiale, perché generata dal Padre; che è cristiforme, perché plasmata sul Figlio; che è pneumatica, poiché solo dallo Spirito trae vita.

 

L’ascolto

Secondo l’indicazione dei nostri Vescovi compiamo allora un ulteriore passaggio in questa rivisitazione della chiamata alla santità. I nostri pastori ci invitano a porci in ascolto del vissuto di Gesù di Nazaret, ce ne narrano l’esperienza[9]. Soffermandosi sulle espressioni usate nel documento, risulta evidente lo iato con il succitato “terribile quotidiano”. Intatti, proprio seguendo il percorso della kenosi che conduce il Figlio dal Cuore del Padre alla compagnia con ogni uomo, i Vescovi presentano Gesù come colui che sa discernere e far comprendere la bellezza della vita: “Sì, la sua è stata una vita bella, vissuta in pienezza: è stato un uomo sapiente, capace di vivere tutti i registri delle relazioni umane”[10].Ci pare di poter affermare che qui sia nascosto l’invito a coniugare la dimensione estetica della santità con quella etica. La fonte cui riconnettersi è il “tob” biblico della creazione che si ripercuote nell’universale vocazione ad essere santi per un Dio santo, cioè “bello-buono”. Ne consegue uno sguardo semplificato, capace di posarsi, senza timore di restarne abbacinato, sullo splendore della bellezza. Viene in tal modo superata – per lo slancio del desiderio generato dalla tensione bellezze-Bellezza -, l’empasse costituita dalla visione moralistica dell’istanza alla perfezione. Si intuisce che essere santi significa, anzitutto, lasciarsi raggiungere dalla Parola che crea. “La santità – ha scritto Enzo Bianchi – testimonia anzitutto il carattere responsoriale dell’esistenza cristiana, un carattere che afferma il primato dell’essere sul fare, del dono sulla prestazione, della gratuità sulla legge. Possiamo dire che la santità cristiana, anche nella sua dimensione etica, non ha un carattere legale o giuridico, ma eucaristico: è risposta alla charis di Dio manifestata in Gesù Cristo. Ed è segnata perciò dalla gratitudine e dalla gioia; il santo è colui che dice a Dio: ‘Non io, ma Tu’. Questa ottica di grazia preveniente ci porta ad affermare che altro nome della santità è bellezza[11]. Mi pare che il richiamo ad una forma responsoriale dell’esistenza cristiana concili in modo singolare la dimensione misterica e quella vocazionale. Si tratta di sintetizzare nell’eucaristia (cuore di ogni sacramento) il percorso esistenziale di ogni chiamato. Si tratta di ribadirne l’apertura comunionale in cui è visibile “la fonte e la foce” in cui ogni chiamata alla santità si riconosce: la Trinità.

Mi si conceda di citare qui l’esperienza di una mia consorella, Eugenia Picco, che il Papa ha beatificato domenica 7 ottobre. Proprio nell’eucaristia essa ha condensato il percorso e la chiamata alla santità, desiderando che la sua vita assumesse la “forma” del Pane e volendo, in ogni suo gesto, l’impronta della gratitudine e del sorriso, poiché diceva, eucaristia significa rendimento di grazie ed è improprio ringraziare con il volto triste[12]. L’insistenza del nostro annuncio va quindi portata non sul fatto che “tutti dobbiamo” essere santi, ma che “è bello per ciascuno” essere santo; “bello” della bellezza stessa del dono ricevuto. L’annuncio poi andrà fatto risuonare nelle nostre assemblee eucaristiche, perché solo una liturgia “seria-semplice-bella”, sarà capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini[13].

 

Il pensare

Ci introduciamo così nel terzo passaggio della nostra riflessione, cercando di chiederci se le sottolineature fin qui operate abbiano una ricaduta sulla pastorale vocazionale. I nostri vescovi, nel documento che ci guiderà nel primo decennio del 2000, ci chiedono di assumere un atteggiamento pensoso: “Ci sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita, facendo unità di tutto in Cristo. Solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a render conto della speranza che li abita (cfr. 1Pt 3,15)”[14]. Questo “pensare” la fede, deve giungere alle radici di quella micidiale frattura fra Vangelo e cultura che costituisce il dramma della nostra epoca.

Questo pensare, inoltre, non deve temere le provocazioni. Quelle che ci vengono, ad esempio dallo spauracchio della fede intesa come “crociata”. Ci è chiesto di portare la croce (non “imporre” la croce), anche della fatica intellettuale necessaria per elaborare percorsi intelligibili a tutti, freschi della semplice freschezza del Vangelo, e “belli” di quella luminosità che rifulge sul Volto del Cristo (2Cor 4,6). Una provocazione può essere anche quella generata dalla “inflazione” di beatificazioni che “hanno oltrepassato negli ultimi vent’anni le proclamazioni avvenute nell’arco dell’intera storia cristiana – ha scritto, come sempre in modo pungente, Cettina Militello, e aggiunge – credo che si renda necessario precisare anzitutto due cose: il concetto stesso di santità nel suo doppio registro di dono inerente la normalità cristiana, e di ‘canone’, modello che interpella la comunità; la variabile culturale, sia nel recepire la normalità dell’essere santi, sia nella qualità e nei tratti del modello canonico”[15]. Nelle successive esemplificazioni la teologa indica modelli di santità laicale in Gianna Beretta Molla, la Delbrel, Frassati, ed interpreta tali modelli “canonici”, quale proposta di una santità in cui il cristiano celebra la vita, la accoglie, si fa tramite di circolarità e si fa dono in tutta gratuità. Si chiede (e nella domanda c’è un po’ di pepe!) quale sia la mens della chiesa soggiacente a queste beatificazioni, ma giunge alla conclusione che l’inversione di rotta – dalla fuga mundi alla full immersion nella storia – indica con chiarezza che Dio lo si incontra nel mondo.

Potrebbe qui nascere un lamentoso sospetto: c’è ancora posto, in questa visione della santità, per le vocazioni di speciale consacrazione? Se hanno tolto alla “speciale” consacrazione il primato, perché continuare a proporre una via così ardua e, in definitiva, con tagli così radicali, quando è immergendosi nel quotidiano che si diventa “santi credibili” per la cultura attuale?

Evidentemente è un dilemma inesistente. Si tratta infatti di convertirsi ad un modo di pensare comunionale in cui il denominatore comune, sia, appunto, la comunità in cui ciascuno (adulto e non più infante) è invitato a narrare una vita “diversa”: “Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, costantemente impegnati nella conversione, infiammati dalla chiamata alla santità, capaci di testimoniare con assoluta dedizione, con piena adesione e con grande umiltà e mitezza il Vangelo. Ma ciò è possibile soltanto se nella chiesa rimarrà assolutamente centrale la docile accoglienza dello Spirito, da cui deriva la forza capace di plasmare i cuori e di far sì che le comunità divengano segni eloquenti e motivo di una vita diversa[16]. Abbiamo sottolineato le comunità. Sono esse i soggetti dell’epifania della santità che il Dio Tripersonale ha consegnato agli uomini nell’incarnazione del Figlio suo. Ai sacerdoti, ai religiosi ed agli operatori pastorali viene chiesto, nella progettazione pastorale 2000-2010, di essere coinvolti in maniera corresponsabile ed intelligente nel cammino delle loro chiese locali.

In questa ottica si colloca il richiamo specifico posto al n. 62 del documento Annunciare il vangelo in un mondo che cambia, in cui si chiede ai religiosi di essere segno di speranza testimoniando la possibilità, data ad ogni uomo, di abitare le frontiere della società. Scegliere la marginalità perché nessuno si senta ai margini: questa la vocazione dei religiosi. Ma, ancora una volta, tale vocazione è collocata all’interno del richiamo rivolto a tutta la comunità a farsi prossima di quanti vivono situazioni di frontiera. Dire con la vita che nessuno è marginale, poiché nessuno è lontano dall’abbraccio della Misericordia: vocazione esigente che, secondo le indicazioni del Papa, è esigita dall’ora presente: “ora della fantasia della carità”[17].

Secondo queste coordinate è possibile consegnare la fede alle nuove generazioni e farle vibrare per gli orizzonti della fede, poiché la fede è, sempre, un evento di amore che racconta, in maniera sempre nuova “la follia e la bellezza tragica dell’amore con cui Dio ci ha amati donandoci suo Figlio, Gesù Cristo”[18].

 

 

 

 

Note

[1] S. VERTONE, Corriere della sera, 24 novembre 1990.

[2] Cfr. Gn 3,21; Os 11,4.

[3] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n 2.

[4] Ivi, n. 4.

[5] N. D. SILANES SANZ, Santità, in T. GOFFI – A. PALAZZINI [ed.], Dizionario teologico della Vita consacrata, Milano 1994, 1573.

[6] AAS, 1920, 173, citato in J. MUZIC, La via della perfezione, Rivista di Vita spirituale, 2/ 2001, 162.

[7] Cit. J. MUZIC, 165.

[8] Ivi, 166.

[9] CEI, Comunicare il Vangelo, n. 10-31.

[10] Ivi, n. 21.

[11] E. BIANCHI, Le parole della spiritualità, Milano 1999, 23.

[12] T. BRIZZOLARA, La sorella del Pane, Collana Eroi, Elledici, Torino 2001. 

[13] Cfr. CEI, Comunicare il vangelo, n. 49. 

[14] Ivi, n. 50.

[15] C. MILITELLO, La santità anonima, in Credere oggi. La spiritualità del terzo millennio, 3/2000, 51. L’articolo presenta alcuni passaggi interessanti per interrogarsi sul volto attuale della santità.

[16] CEI, Comunicare il Vangelo, n. 45.

[17] GIOVANNI PAOLO II, Novo Millennio Ineunte, n. 9. Il documento CEI al n. 62, colloca questa attenzione alla carità non in un quadro etico, ma cristologico, ricollegando la citazione riproposta sopra con la seguente: “la pagina del giudizio in cui Cristo chiama ‘benedetti’ quelli che si sono fatti prossimi a lui nei piccoli non riguarda solo l’etica, ma è anzitutto “una pagina cristologica che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo” [NMI, n. 50]. Si ribadisce in tal modo la sottolineatura misterica della santità, su quella etica.

[18] E. BIANCHI, a.c, 26.