N.02
Marzo/Aprile 2002

Vocazione e vocazioni di fronte alla specificità del “genio della donna”

Parlare di “vocazione al femminile” significa sfuggire alla tentazione dell’anonimato, del generico: per avvicinarci alla specificità di ciascuna persona, superando la tendenza attuale che vorrebbe il livellamento dei comportamenti maschili e femminili. C’è questa consapevolezza? È davvero cercata l’opportunità per aiutare ciascuno a prendere coscienza e a coltivare i propri tratti specifici, favorendo un processo di identificazione personale? Nei confronti delle giovani c’è una proposta che le renda consapevoli della specificità del carisma della donna, con attenzione, metodi, obiettivi rivolti alla loro esperienza umana “al femminile”? Forse, prima ancora di considerare il contesto storico che può impedire la crescita delle vocazioni alla vita consacrata, è importante partire di qui: e chiedersi quali sono le specificità – se così si può dire – del femminile, pur senza cadere nella retorica e nei luoghi comuni, con il rischio di definizioni ancora generiche, statiche, lontane dalla realtà della donna.

Il Papa, nella Mulieris dignitatem, parla di “genio femminile”: quasi a richiamare una modalità, una specificità che ha il suo pieno significato nell’amore: “La donna non può ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri” (n. 30). È come riconoscere la dignità della donna in questo valore essenziale, che conduce e riconduce, nonostante la fatica e gli inevitabili scontri con la cultura, alla disponibilità, al dono di sé, nelle relazioni interpersonali, nella fedeltà che può sopportare le delusioni del fallimento, nel rischio accolto per il dono della vita, nell’amore senza calcolo, con la ricchezza di quelle sfumature che solo la donna conosce e sa mettere in atto. Bisogna lasciar emergere questi valori dimenticati, o cancellati, dalla società consumistica e secolarizzata, che ha provocato la crisi della Trascendenza, cioè del rimando a una Realtà assoluta, capace di dar senso all’umano.

Certo, non è facile, di fronte alle logiche dominanti del possesso, dell’efficienza, dell’immediato, il richiamo e l’educazione al valore della gratuità, al primato dell’essere sull’avere, sul fare, sull’apparire, sul cogliere e fruire di ciò che la vita offre al presente, qualunque esso sia. Come non è facile prescindere dall’incidenza negativa della secolarizzazione, tra le cause più rilevanti del fenomeno attuale che vede in diminuzione le vocazioni femminili alla vita consacrata. I dati da prendere in considerazione sono molteplici e complessi, talora contraddittori e ambivalenti. Se da un lato si nota, infatti, un disagio con cui fare i conti, si registra, d’altro lato, una freschezza del vivere, una voglia di cose vere e autentiche, un bisogno di essenzialità, che i giovani, e le giovani donne, reclamano con forza.

Quale la scommessa da fare in questo nostro contesto, che appare come “autunno educativo” e tuttavia prelude indubbiamente alla primavera ? Quali gli ostacoli e quali le risorse da prendere in considerazione?

Interrogativi pregnanti, che non prevedono né risposte esaustive, né troppo sicure: da collocare, comunque, dentro la grande rivoluzione culturale e sociale, che ha prodotto il sorgere di una mentalità e di un linguaggio assolutamente nuovi rispetto ai modelli del passato, dai quali è importante prendere le distanze, pur senza cancellarli. In questo terreno spesso di scontro si possono snidare le possibili cause del calo di vocazioni, ma anche rinvenire i germi positivi, i valori autentici, la ricerca sincera di chi si apre al futuro in termini diversi da un vissuto consolidato nel tempo e forse troppo datato. C’è dunque una duttilità da vivere, con il coraggio di restare dentro la realtà di oggi, attrezzandosi a decodificare i fenomeni culturali assunti, o creati, dai giovani e, per ciò che riguarda la nostra riflessione, dalle donne giovani, comunque dalle donne. Che cosa dicono? Che cosa rivendicano o propongono? Quali i bisogni o le carenze? Quali le domande di fondo?

Tento di leggere qualche dato, sia pure con un’indicazione semplice e frettolosa: a partire dalla crescente soggettività delle giovani donne che, dopo la contestazione del ‘68, sembra aver raggiunto il suo culmine, con una sfida vigorosa nei confronti dei giovani maschi, quasi stigmatizzando il loro potere demiurgico. Bisogna forse prendere le mosse da questo fenomeno, con la sua valenza negativa e positiva, per leggere la sensibilità che è andata creandosi, coinvolgendo le generazioni giovani e non più giovani del mondo femminile. Vi sono implicati molti aspetti, che si presentano ambivalenti: quali, ad esempio, la ricerca della libertà, della felicità, dell’autonomia, della liberazione dai tabù sessuali, con un crescente bisogno di solidarietà e di verità.

 

La ricerca della libertà

È indubbiamente un valore in sé. Da perseguire e attuare, quando, appunto, dice la realtà della persona che intende non piegarsi al determinismo di altri o di altro, per metterci del suo, per aprirsi a prospettive e relazioni desiderate e volute e assumere autonomamente decisioni di vita. Tuttavia, poiché la libertà delle giovani è ancora in formazione, e ha perciò bisogno di essere illuminata per maturare e crescere, rischia di sfociare in un libertarismo, concedendosi alle mode correnti. Di qui il rifiuto di qualsiasi norma, specie se essa si presenta rigida, arroccata su posizioni consolidate, che possono provocare fughe o abbandoni anche nel caso di scelte già attuate.

La domanda di libertà è come una sorta di rivendicazione del proprio io, del bisogno di riconoscersi persona con gli altri, non in dipendenza da altri; anche se resta forte e sincera l’esigenza di qualcuno che simpatizzi con il proprio progetto, lo accetti e lo valorizzi. Qui l’azione educativa e formativa deve fare i conti con i propri meccanismi di difesa, spesso giustificati da un eccessivo senso della norma, che può limitare l’accoglienza dei diritti della libertà. Si tratta, in altri termini, di mettere in crisi la pretesa sicurezza educativa per leggere la persona nell’oggi, nel suo essere e nel suo divenire e affiancarla nella crescita e nella maturazione della libertà. Da non confondere, certo, con lo spontaneismo, secondo cui tutto viene considerato buono, onesto, legittimo, purché risponda a un bisogno naturale.

Assecondare una visione spontaneista della vita vuol dire autorizzare un modo di comportarsi che le giovani – ma anche i ragazzi – confondono con la spontaneità. È una mentalità diffusa, che prende corpo in tutti gli aspetti della vita. Nella preghiera, ad esempio, per cui si sente dire: “Prego perché mi sento di pregare; non prego se non mi sento”, con una logica che intende giustificare la difficoltà: “Non farei una preghiera sincera, vera, se pregassi senza sentire…”, quasi che la preghiera disconoscesse i momenti difficili, che richiedono fedeltà e disponibilità alla fatica e alla lotta. È così per molti altri atteggiamenti, che sfuggono a ogni controllo.

La confusione della libertà con lo spontaneismo colora l’ambiente sociale nel quale siamo immersi: fino a disconoscere qualsiasi valore alle norme e, soprattutto, alla Norma che è il Vangelo, che è Gesù di Nazareth, il quale esige di donare la vita fino alla croce: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8, 34).

La paura della croce, del sacrificio, della rinuncia non è anch’essa causa del venir meno delle vocazioni “consacrate”? Eppure si avverte nelle ragazze una forte esigenza di radicalità, soprattutto nel momento della scelta e nei primi passi del cammino. Come cogliere e valorizzare questa energia, che rifiuta il compromesso, le mezze misure e tende ad ideali forti? Anche se, spesso, il sogno dell’ideale è distaccato e lontano dall’esperienza vissuta, è importante non abbassare le esigenze, orientare lo sguardo e gli sforzi verso la gratuità dell’amore di Dio, per il Quale vale la pena di vivere ogni sforzo. È un aspetto nodale, questo, da non mettere mai tra parentesi.

C’è nelle giovani, in forza della loro vocazione femminile, il desiderio del dono, della gratuità, di un servizio accogliente: che non contraddice la richiesta di libertà, ma può sostenerla, orientandola verso il modo proprio di vivere la femminilità. Ancora capace di gesti delicati e di intuizioni profonde. Non è così vero che, in nome della libertà, le giovani vogliono “gestire il proprio corpo” e tutte se stesse, secondo gli slogan sessantottini, se gli obiettivi sono convincenti e adeguatamente testimoniati da chi li propone. E non è vero che la donna si sottrae al rapporto sincero e gratuito: anzi, lo cerca, perché in lei è sempre presente e fecondo quell’atteggiamento generativo materno che si apre alle relazioni, che si fa dono e fa spazio alla condivisione e alla compassione.

La donna ritrova qui la propria libertà. E da qui nasce, può nascere, il rimando al Vangelo, alle molte figure femminili che hanno incontrato il Signore e hanno ritrovato la propria dignità nella sequela di Lui: anche nel morire, non un morire comunque, ma un morire aperto alla gioia e alla pienezza della vita. Un Vangelo proposto senza sconti e senza accomodamenti, peraltro, rifiutati dalle giovani, se aiutate a intravedere i valori tipicamente femminili che conducono al dono di sé. Non è casuale, infatti, che la diminuzione delle vocazioni alla verginità sia proporzionale alla diminuzione della maternità, cioè alla rinuncia al dono della vita. Quando invece questo valore viene accolto e apprezzato, anche la verginità è guardata, e coerentemente scelta, con profonda stima.

Ma ci crediamo? O sono prevalenti i luoghi comuni che stigmatizzano l’incapacità oblativa delle giovani? Quali i modelli proposti? C’è da chiedersi se le difficoltà della generazione adulta non abbiano penalizzato soprattutto le ragazze: infatti, molte figure femminili adulte, giustamente provocate a reinterpretare la loro femminilità, hanno spesso edulcorato alcuni contenuti, per cui è venuta meno l’efficacia di una testimonianza. Che è invece irrinunciabile per ogni proposta di vita.

 

La domanda di felicità

È come una prosecuzione della ricerca di libertà. Se è un dato innegabile della persona umana, nella donna questa esigenza assume toni marcati, bisogno di concretezza e di continuità. Fino a respingere una felicità troppo facilmente a portata di mano, anche quando si fanno incalzanti e seduttive le proposte dei mass media e della moda e sono più facili le tentazioni a indulgere al “carpe diem”. Questa ricerca di felicità, nella donna, esprime un bisogno radicale, in contrasto con la cultura del provvisorio, del contingente, che sembra sconfessare ogni definitività. È anche questo un nodo problematico.

Si tende al “per sempre”, lo si vuole, e insieme si ha paura ad assumere legami duraturi. Anche per chi è incamminata verso la donazione totale al Signore sono frequenti i rimandi, la richiesta di prolungare i tempi della formazione e dell’attesa: così che la dialettica tra desiderio e realtà si protrae con alterne vicende. Talora per paura, talora per sfiducia nelle proprie forze o ancora per la mancanza di modelli convincenti. Non a caso, le giovani cercano i riferimenti nella fedeltà e nella serenità delle persone avanti negli anni, quasi per trovare una conferma che si può reggere nelle scelte. Anche se, poi, procedono “per prova”, come accade per il matrimonio, continuamente dilazionato, o fatto “per prova”.

Appare continuamente l’inquietudine di chi cerca, e vuole, un futuro definitivo, in contrasto con il bisogno di appagamenti immediati, di risposte, “al presente”, alle proprie istanze di ben essere, di ben vivere. Quali comportamenti assumere nei confronti di questi vissuti? Come offrire la consapevolezza che è nella natura della persona fare scelte definitive? Come far crescere la “donna” nell’adolescente, la cui stagione sembra interminabile? Qui, forse, si può ritrovare la ragione dell’innalzamento progressivo dell’età in cui le giovani operano scelte di vita: le insicurezze, i cambiamenti di prospettiva, propri dell’età adolescenziale, rendono sempre più difficili le decisioni.

Gli adulti non devono sottovalutarle, magari proponendo la loro esperienza passata, senza commisurarla con il tipo di ansie attraverso cui le giovani generazioni cercano le soluzioni ai loro problemi.

Quale felicità proporre allora? Come giustificare la pienezza delle beatitudini evangeliche, che esigono di mettersi in discussione? Anche qui si registrano valutazioni ambivalenti.

A fronte della paura del sacrificio sta una forte esigenza di rigore nel vivere la povertà, la giustizia, la cura e l’attenzione verso i poveri, gli emarginati… Questa sensibilità particolarmente femminile conduce le giovani ad assumere impegni faticosi, spesso volendo sconfessare anche così il perbenismo di tante comunità, auspicate più aperte, più inclini ad uscire dagli schemi tradizionali, più gioiose. In questo senso le giovani non si accontentano di proposte generiche, ma desiderano “vedere” come si è felici nell’esperienza della verginità, nella rinuncia a tanti beni enfatizzati dal consumismo, nella consegna al Signore della propria volontà attraverso l’obbedienza.

Ciò che per gli adulti può apparire scontato diventa allora per esse motivo di novità e di fascino, specialmente se proposto con gioia, con convinzione, con la persuasione del vissuto: perché l’attrazione dei modelli concreti è sempre più alta del pensiero lucido e delle raccomandazioni puntuali. Il comunicare la gioia della sequela di Gesù è perciò tra le sfide più grandi e vincenti per chi ricerca il sapore grato del vivere.

 

La domanda di relazioni affettive

È un tema noto. Che non può essere eluso. Anche qui è evidente la contraddizione: se è proclamata e vissuta una sessualità senza tabù, c’è insieme molta paura, molta insicurezza. E un bisogno non dell’avventura, ma dell’amore, della tenerezza, della fedeltà. Un bisogno di incontro che non divori il proprio spazio interiore e non sia ambiguo, che non sia occupato soltanto da emozioni, spesso disordinate, ma recuperi il gusto delle aspirazioni più alte della persona. Per questo, la proposta di Gesù di Nazareth, nel suo incontro con le donne, è sempre avvincente. Perché tocca il senso della vita, della persona, della felicità.

Le ragazze, le giovani hanno bisogno di credere che l’amore autentico è possibile, ed è esperienza reale soprattutto in chi si è fatto eunuco per il Regno (cfr. Mt 19, 12). Al contrario, i comportamenti asettici di tante persone consacrate, che non sanno umanamente amare, che considerano perfino sconveniente riconoscere il valore dell’affettività, creano distanze e dubbi, accentuano la paura dell’isolamento e della solitudine, provocano giudizi negativi sulla vita religiosa.

Le giovani osservano con attenzione critica le relazioni interne alle comunità, nel desiderio di leggervi una sincera capacità di comunione: ben diversa dalle loro esperienze di gruppo, che rispondono a una domanda di compagnia e di solidarietà, lasciando tuttavia nell’isolamento. È come un voler vedere che ci si può effettivamente “prendere per mano” nel percorrere un itinerario comune, che si possono abbattere le frontiere che separano giovani e adulti, e sono possibili rapporti accoglienti, porte aperte, dimensioni autentiche di famiglie spirituali.

Ma è soprattutto un voler vedere che l’amore esclusivo per il Signore non vanifica, anzi accentua e sostiene la propria identità umana e femminile, in quella logica d’amore, che può condurre alla rinuncia: ma per il dono, per la valorizzazione delle proprie attitudini, nell’amare senza calcolo. Fino allo “spreco”: come è stato per Maria di Magdala, nello spezzare il vaso di alabastro colmo di profumo, anche se sarebbe bastato spanderne qualche goccia (cfr. Mt 26, 6-7). Anche questa è una grande scommessa che le comunità cristiane e di vita consacrata non possono lasciar perdere.

 

La domanda di spiritualità

Può apparire strana dentro una cultura che tende sempre più a relegare la fede nelle “sacrestie”, a vanificarne il senso, quasi irridendone i contenuti. Eppure il bisogno di una spiritualità viva ed esigente è forte nelle giovani: e, proprio quando esse assumono gesti di indifferenza o di miscredenza, nascondono una profonda domanda di sperimentare la fede come rapporto vivo con una persona, con la persona del Signore Gesù, con la sua Verità. Lo dicono le molte “scuole della Parola” a cui partecipano molti giovani, anche non immediatamente provenienti dalle comunità cristiane.

Nella donna, particolarmente, il bisogno di incontrarsi con Gesù di Nazareth assume i contorni dell’affidamento, della relazione personale, del desiderio di sentirsi chiamare per nome, come è stato per la Maddalena la mattina di Pasqua: per trovare, in quel nome, il senso e il sapore della propria vicenda umana (cfr. Gv 20). L’esperienza, o la ricerca di fede della donna comporta sempre la percezione di un rapporto vivo, non teorico, con una Persona, con un Interlocutore a cui confidare sé e il proprio destino. Forse, va scoperta questa domanda anche nel mondo della musica che i giovani e le giovani frequentano. Nel grande consumo musicale c’è indubbiamente non solo il bisogno di superare una certa solitudine, ma anche quello di trovare le risposte agli interrogativi più profondi. Da leggere e interpretare e da non lasciare inevasi.

Stupisce sempre l’attenzione e l’ascolto per alcune figure che sanno parlare con la vita. È così anche per i Fondatori e le Fondatrici, il cui magistero e la cui storia sono accolti con interesse vivo: per come e quanto hanno vissuto e testimoniato il loro rapporto con la Persona di Gesù. Anche qui è grande la sfida a dare risposte convincenti, senza riduzione alcuna, alle domande profonde di spiritualità. Senza mai sminuire l’educazione alla preghiera e al silenzio, cioè a quel tacere nel quale la persona si espone al mistero di Dio; senza pensare che l’esperienza spirituale è avventura riservata a pochi, perché è invece offerta a tutti. È avventura della libertà che si inoltra nei sentieri della Trascendenza, il cui nome e il cui volto si rivela con Gesù, il Figlio unigenito, il Verbo di Dio incarnato. Che continua a chiamare a Sé anche i giovani e le giovani del nostro tempo.

Se è così, è importante educare all’ascolto e all’obbedienza. Con la certezza che all’autunno” delle vocazioni succede, può e deve succedere la primavera. È la primavera garantita dalle imprevedibili sorprese di Dio, che dà incremento al nostro “arare e irrigare” (cfr. 1Cor 3, 6): perché la pazienza sovrasti la tentazione di un’accomodante rassegnazione: perché non manchino progetti e itinerari concreti, dentro la storia in cui viviamo, dentro la storia della libertà della persona, dentro la complessità, che tuttavia non cancella la voce del Signore.