N.01
Gennaio/Febbraio 2003

Come si propone il valore della vocazione al servizio all’interno della pastorale ordinaria nella scuola perché apra ad una vocazione consacrata

…Maestra, parlaci ancora… ora tocca a me: ascoltatemi “ho un problema”… È il momento del cerchio, uno dei tanti momenti della nostra stupenda quotidianità. Ogni alunno ha il suo tempo per ascoltare gli altri, per parlare, per condividere esperienze e difficoltà. Li guardo ad uno ad uno e li ascolto: ho scoperto, nel corso di tanti anni di insegnamento, la valenza educativa di questo atteggiamento.

L’ascolto educa all’apertura, al rispetto, allo sforzo di comprendere mettendosi nei panni degli altri, alla lettura degli avvenimenti. L’ascolto è dimensione essenziale dello spirito, cioè del cuore dell’uomo che esce da sé per andare verso l’altro e verso le cose. La relazione educativa è una soluzione dialogica, in cui il silenzio e l’ascolto giocano un ruolo centrale.

Proprio per questo ritengo essenziale educare gli alunni all’ascolto, ad aprire il cuore, per conoscere se stessi, per porsi in relazione con gli altri e con le cose: porre attenzione all’altro, diverso da me, per accoglierlo, comprenderlo, valorizzarlo, considerarlo in tutta la sua dignità. Porre attenzione alle vicende del mondo, ai fatti della storia, perché in essa si vive; porre attenzione alle cose, alla natura, ai miracoli della vita. L’atteggiamento dell’ascolto è innanzitutto una condizione interiore, che ci aiuta a superare due grandi nemici: l’indifferenza e l’egocentrismo. L’indifferenza porta alla noncuranza, a lasciar correre tutto senza porvi mano. “Non mi riguarda” ,”Non ci posso far nulla”. L’egocentrismo porta ad avere se stessi come unica chiave di lettura del mondo e delle cose.

È la logica dell’ “I care” che va fatta sperimentare, nell’ambito di ogni giornata scolastica. È vero che difficoltà, emergenza, contingenza, punteggiano i nostri interventi: svolgere la professione educativa in una società disorientata come la nostra impone una “sfida” continua. L’alunno che ci sta davanti è certamente un bambino “programmato”, ai livelli della “piena occupazione”, tutto rivolto verso se stesso, esposto al libero mercato dei modelli culturali, calato in un preciso contesto affettivo, relazionale, educativo, socio-economico. Ma è anche un bambino spesso solo: gli adulti che lo circondano sono tutti più occupati ad organizzargli la vita che a prendersi cura di lui. Anche l’agenda dell’adulto è piena zeppa di impegni, non c’è tempo per la relazione diretta, per l’ascolto.

… Maestra ascoltami…

Non c’è mai chi ha solo da dare o solo da ricevere: ascoltiamoci ed educhiamo all’ascolto. Così facendo potremo aiutare il bambino a riconoscere l’altro come valore, ad evidenziare le differenze più come ricchezza che come ostacolo, potremo educare alla solidarietà, per capire gli altri ed immedesimarsi in loro, potremo insegnare ad essere persone, a dare se stessi, a dare dal profondo del cuore, a tendere la mano. Il fanciullo che abbiamo davanti impara progressivamente il “mestiere di uomo” e lo impara in virtù di presenze significative e premurose, autorevoli e responsabili, coerenti e fedeli, autentiche e leali, capaci di dare risposte alle sue attese e alle sue richieste.

Proprio per questo l’insegnante può assolvere compiti di aiuto e di servizio, di guida e di orientamento, può indicare traguardi ed ideali, tracciare prospettive e tragitti. Il nostro agire educativo non può che identificarsi nell’impegno di una libertà al servizio di un’altra libertà. L’insegnante mette a disposizione dell’alunno non solo la sua professionalità e le varie competenze, bensì se stesso come persona genuina , capace di manifestargli sentimenti autentici: è importante offrirsi all’altro per quello che realmente si è, secondo l’effettiva umanità posseduta, lontano da mascheramenti e alterazioni. L’insegnante deve possedere le capacità di amare, di porsi al servizio dei valori custoditi nell’interiorità di ogni fanciullo, con il convincimento che la condizione prima dell’azione formativa è l’amore e che l’autorità di chi educa si basa fondamentalmente sul suo potere di amare e di farsi amare.

Il fanciullo chiede all’adulto prima di tutto e soprattutto beni non materiali, affetto e aiuto, amore e modelli di vita, comunicazione genuina e vicinanza comprensiva, ascolto dei suoi sentimenti e delle sue emozioni e perdono. In una società come la nostra, caratterizzata dalla frettolosità e dalla superficialità dei rapporti interpersonali, è importante farsi proposta, dar vita a situazioni esemplari, riscoprire il piacere dell’incontro reale e profondo con l’altro, stimolare alla cooperazione e alla solidarietà. Il gruppo classe può diventare un luogo privilegiato di relazioni significative, dove si possono manifestare liberamente gusti e sentimenti, entusiasmi e conflitti.

Proprio per questo ho sempre cercato di costruire nella scuola un ambiente sereno, di accogliere gli alunni come ospiti graditi, come compagni di viaggio, di favorire il loro incontro cercando di creare momenti di collaborazione e di dialogo, di stimolare il sorgere di rapporti di amicizia, di cooperazione, di aiuto reciproco. La classe si è sempre strutturata in gruppi di lavoro, dove le abilità dell’uno potevano fare da supporto alle difficoltà dell’altro e dove la gioia vera si poteva raggiungere quando tutti potevano raggiungere i traguardi stabiliti. Per aiutare gli alunni nel loro processo di crescita personale, per aiutarli a vivere in modo sereno e positivo, per aiutarli a vedere nell’altro una persona da amare, è necessario infatti far vivere esperienze significative, promuovere situazioni che consentano di vivere in condizioni di benessere, di predisporre una scuola accogliente e attenta alla significatività delle relazioni. Occorre tener presente che il bambino ha bisogno di sicurezza, di punti di riferimento stabili, di una guida autorevole, ha bisogno di essere sostenuto nelle difficoltà, accompagnato a superare paure ed angosce, indirizzato verso obiettivi per cui vale la pena di impegnarsi. Ha bisogno inoltre di relazione: oggi il ragazzo è tenuto accuratamente lontano dalla vita concreta; disagio, sofferenza, morte sono considerate realtà dalle quali è meglio preservarlo. Ho avuto occasione, invece, di dover vivere tutte queste realtà umane nella classe: è morto un genitore in un incidente, è morta una bambina fortemente disabile. Bambini e genitori hanno fatto a gara con la loro solidarietà e la loro presenza, tutti ci siamo stretti intorno alle famiglie colpite, sono nati momenti stupendi di collaborazione, di servizio, di supplenza. Tutti insieme abbiamo cercato di trovare un senso ai propri giorni, alle proprie azioni, alle proprie scelte, cercando di costruire una comunità educante fondata nella cultura della responsabilità, dell’impegno, della solidarietà. Abbiamo cercato di inventare nuove forme di rapporto scuola-famiglia, in grado di consentire una crescita relazionale fondata nel gusto dello stare insieme, sulla capacità di costruire nei propri contesti rapporti ricchi di umanità, nel sapersi ascoltare, nella gioia dell’incontro.

Proprio per questo i genitori, nel mio modo di vedere la scuola, sono stati sempre presenti, coinvolti in attività comuni, si sono costituite sempre, nel corso dei vari anni, forti amicizie tra le famiglie che non hanno consentito soltanto di superare momenti tristi e dolorosi, ma anche di comunicarsi la fatica dell’essere genitore oggi, di scoprire la bellezza della condivisione e del servizio.

Ho avuto la fortuna di avere sempre presenti, nella classe, alunni portatori di handicap anche gravissimi che sono stati accolti come segno della Provvidenza da tutta la comunità educante, che sono stati sempre considerati come risorse, come persone particolari da seguire con amore e con grande spirito di solidarietà. Gli alunni sanno capire molto bene le difficoltà di questi compagni e sanno dare vita a forme incredibili di aiuto e di partecipazione. L’esempio degli adulti li stimola molto, la loro sensibilità fa il resto.

Quando la volpe, nella nota fiaba di A. de Saint-Exupéry, vuole rendersi amico il Piccolo Principe, si rivolge a lui sospirando: “Per favore, addomesticami!” E al Piccolo Principe che chiede il significato di quell’espressione risponde: “Addomesticare significa creare dei legami, stabilire una relazione di solidarietà affettiva, la sola che permetta ad un incontro di essere fonte di conoscenza vera, perché non si vede bene che con il cuore.

Al termine di un anno scolastico era previsto uno spettacolo teatrale sulla lettura de “Il Piccolo Principe”. Il testo era stato redatto, le parti assegnate. Gli alunni scelsero, per la loro compagna, del tutto impossibilitata a muoversi e a parlare, la parte del “fiore” che il protagonista cura con amore e per il quale così si esprime: “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

– È un invito ad accogliere gli alunni come ospiti graditi, con atteggiamento di serena disponibilità all’ascolto della ricchezza interiore di cui essi ci faranno partecipi solo se ne guadagneremo la fiducia donando loro lo sguardo del cuore.

– È un invito a capire che l’incontro non indica il semplice trovarsi accanto nella vita di ogni giorno, ma è dirigersi in direzione di…, è accogliere per…, è avere di fronte una “storia”… riconoscere una singolarità di parole, di gesti, di volti, è lasciarsi irretire dall’unicità di questi, valorizzando ciò che distingue.

– È ascoltare le storie, è lasciare lo spazio interiore per poter anche progettare un cammino insieme.

“Ecco è tutto qui”: la vita, per essere reale ha bisogno di essere vissuta nella sua luce e nella sua ombra; incontrarla è responsabilità di ciascuno di noi. Quando prenderemo coscienza del nostro compito, per quanto sia poco vistoso, solo allora saremo veramente felici… perché ciò dà senso alla vita.