N.02
Marzo/Aprile 2003

Pastorale familiare, giovanile, vocazionale: perché e come lavorare insieme

 

 

(Il testo è ricavato da registrazione e non è stato rivisto dall’Autore)

 

Io ho un ricordo di quasi trent’anni fa, nei primi anni ‘70 – era il ‘74 o il ‘75 – quando, da giovane prete, facevo il segretario del mio Vescovo, monsignor Gottardi, un grande Vescovo che è morto l’anno scorso, che è stato, tra l’altro, tra i primi Vescovi in Italia a investire molto in termini di persone e di risorse per la pastorale familiare. Ricordo in particolare un incontro – erano i primi anni di questo mio servizio – con un gruppo di giovani, in una parrocchia. Erano gli anni in cui si era svuotato il seminario (il seminario di Trento in particolare, in quegli anni, dal ‘68 in poi…); gli anni in cui c’erano molti sacerdoti e molti religiosi e religiose che lasciavano, e quindi erano anni di grande disorientamento. A un certo momento, ricordo uno di questi giovani che ha fatto una esplicita domanda – era un incontro di dialogo –: “Cosa lei si aspetta da noi giovani?”. E sembrava una cosa ovvia, anch’io mi aspettavo che il Vescovo rispondesse: “Mi aspetto che abbiate il coraggio di fare delle scelte radicali, che entriate in seminario, che entriate in convento, che andiate a fare i missionari”, e invece il Vescovo ha dato questa risposta: “Io non mi aspetto da voi che superiate l’attuale crisi di vocazioni, io mi aspetto da voi che rispondiate con radicalità alla vostra chiamata-vocazione di costruire delle belle famiglie. Dopo di voi, da queste famiglie rifioriranno anche le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa”. Ho capito che c’è un nesso inscindibile tra la qualità della vita familiare – e intendo dire la qualità della relazione sponsale – e la qualità della relazione genitoriale e della capacità educativa; c’è un nesso inscindibile tra la qualità della vita familiare e la capacità di spendere la vita per ideali alti e in forma definitiva. C’è perciò un nesso inscindibile tra la radicalità e la definitività con cui si vive l’amore di coppia e la capacità di formare, di educare persone capaci di un amore coraggioso, che osa rischiare sul futuro.

 

Perché lavorare insieme

Allora vi dico qual è il mio sogno, che non credo sia un’utopia. Il mio sogno è – da una parte – che la preoccupazione di fronte alla sterilità delle nostre Chiese rispetto alle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, non sia solo una preoccupazione dei consacrati e dei responsabili della pastorale vocazionale, ma diventi anche la preoccupazione delle famiglie cristiane. Questo, quando avvenisse, sarebbe il segno che le famiglie cristiane hanno capito che non possono fare a meno dei sacerdoti e delle persone consacrate, proprio per essere aiutati a vivere pienamente le loro relazioni familiari. D’altra parte, sogno anche che preti e persone consacrate siano sempre più consapevoli che non possono fare a meno degli sposi, per vivere in modo pienamente umano ed evangelico la loro identità e il loro servizio pastorale, per viverlo in modo caldo, persuasivo, che sappia diventare testimonianza, all’interno di relazioni umane piene e mature. Questo sogno – che non ritengo un’utopia, ma credo che sia un sogno realizzabile – si fonda su due scoperte che la Chiesa sta facendo in questi anni grazie alle intuizioni già del Concilio Vaticano II e sotto la spinta decisa del Magistero di Giovanni Paolo II.

La prima scoperta. Il matrimonio cristiano non è soltanto il coronamento di un sogno di coppia, ma è risposta a una chiamata. È risposta a una vocazione. Il matrimonio cristiano non è un fatto privato, soltanto individuale o di una coppia, ma è una risorsa sociale ed ecclesiale. Il matrimonio cristiano ha alla sua base una vocazione alla santità. Lo ha già detto il Concilio: che tutti sono chiamati alla santità, anche gli sposi cristiani sono chiamati alla santità nella via loro propria, non vivendo da monaci o da religiosi, ma vivendo da sposi, pienamente, la loro umanità, la loro relazione di sposi e di genitori.

La vocazione al matrimonio cristiano è una vocazione al servizio nella comunità. Si parla, infatti, di ministero coniugale e ministero vuol dire servizio. E a questo proposito i Vescovi nel Direttorio – che quest’anno compie dieci anni – al n. 12 (Il matrimonio come grazia e vocazione) affermano: “Il matrimonio, che pure si identifica con l’amore coniugale di un uomo e di una donna legittimamente manifestato, affonda nello stesso tempo le sue radici più profonde nel mistero di Dio, della sua alleanza… Esso ci appare, perché realmente lo è, come ‘grazia’ e ‘vocazione’, che specificano e sviluppano il dono e il compito ricevuti nel Battesimo. (…) L’amore coniugale tra un uomo e una donna può sgorgare e può consolidarsi perché trova nell’amore di Gesù in croce la sua sorgente ultima, la sua forza plasmatrice, il suo costante alimento; e così ogni matrimonio può e deve dirsi una eco del sì di Cristo in croce”.

Può sembrare un linguaggio strano… io credo che qui, allora, c’è bisogno di un cambio di mentalità. Quando si parla di vocazioni nella Chiesa, di vocazioni indispensabili alla stessa costruzione della Chiesa, il mio sogno è che non ci si limiti alle vocazioni chiamate “di speciale consacrazione”, ma si abbia il coraggio di parlare anche di vocazioni al matrimonio cristiano e alla famiglia, sullo stesso piano e con la stessa dignità. Qual è la mentalità corrente? Cosa dice? Dice che uno per entrare in seminario, per entrare nella vita religiosa deve fare una scelta coraggiosa, deve andare controcorrente, e si pensa invece che per sposarsi basta lasciarsi portare dalla natura: ci si innamora senza averlo scelto, quando meno ci si aspetta e questo porta quasi inevitabilmente al matrimonio, generalmente dopo alcune esperienze. E non sempre al matrimonio! Però la mentalità è questa: al matrimonio si arriva in modo naturale. C’è un binario ben definito: è assecondando la natura che si arriva al matrimonio. Io vorrei dire, invece, che oggi va controcorrente anche sposarsi in Cristo e nella Chiesa. Non dico semplicemente sposarsi, ma sposarsi in Cristo e nella Chiesa. Il matrimonio cristiano è una chiamata a vivere l’amore in modo radicale. Quindi è una chiamata che esige coraggio e fede. È una chiamata che deve mettere in cantiere l’esperienza della croce. È una strada che incontra difficoltà come le incontra ogni strada dei consacrati, ma che incontra difficoltà anche più gravi di quelle che incontriamo noi consacrati. A un certo momento, quando non ce la facciamo più, noi ci tiriamo in disparte. Un papà, una mamma, anche quando non ce la fanno più, non riescono a tirarsi in disparte, non possono. Non ci si può sposare in Chiesa per istinto. Ormai il romanticismo dell’organo o dell’incenso o delle belle foto non è più in grado di sostenere l’impresa di un matrimonio cristiano. Diciamolo pure francamente. E non basta nemmeno quel po’ di fede che fa sentire la sicurezza di sentirsi Dio vicino.

Io credo che molti matrimoni – forse sto per dire un’eresia – non sono matrimoni cristiani, sono matrimoni soltanto vagamente religiosi. Magari anche dopo un po’ di preparazione che abbiamo fatto. […Mi suggeriscono che non è un’eresia: l’ha detto il cardinale Ratzinger… meno male!] Io penso che non basta, per fare un sacramento, sentire che Dio ha a che fare con l’incontro, con l’innamoramento, con il futuro di una coppia di sposi. Il matrimonio cristiano è sacramento perché è segno e strumento dell’amore di Dio, segno e strumento della fedeltà di Dio. E qual è la caratteristica della fedeltà di Dio? È che, quando io me ne vado lontano, gli volto le spalle, Dio continua a volermi bene. Anche di fronte alla mia infedeltà. Due sposi cristiani sono segno e strumento di questa fedeltà, che è capace di sopportare e di leggere come storia di salvezza anche una storia in cui uno se ne va da un’altra parte e ti volta le spalle. È qui che si fonda l’indissolubilità. Che non è soltanto una legge. O, è legge perché prima è una caratteristica fondamentale di un amore radicale che sa amare sino alla fine. E forse vale la pena che per un po’ di tempo smettiamo di parlare dell’indissolubilità come una legge per illustrare e per evangelizzare una indissolubilità che è un dato irrinunciabile di ogni amore umano. Ma la Chiesa sente il compito di custodire la radicalità di questa identità dell’amore umano, risposta a una chiamata di Dio, attraverso il dono dell’indissolubilità. Mi domando se queste cose le diciamo sempre ai fidanzati. Io credo di no! L’altro ieri don Sergio Lanza diceva che da una famiglia instabile non possono nascere vocazioni stabili e definitive a testimoniare un amore radicale di Dio per l’uomo. Allora, educare i giovani e gli sposi allo spirito della indissolubilità del matrimonio – prima allo spirito, poi alla legge – significa seminare capacità di rispondere che sfidano il futuro anche quando questo non da garanzie.

In sintesi, allora, questa prima scoperta è: sposarsi in Cristo e nella Chiesa è una chiamata radicale a un amore che costruisce Chiesa. Non per niente nel Catechismo degli adulti la vocazione al matrimonio e la vocazione al sacerdozio sono poste nello stesso capitolo, come sacramenti che costruiscono la Chiesa.

E c’è una seconda scoperta che la Chiesa sta facendo in questi anni. La scoperta che verginità e matrimonio sono due doni diversi e complementari. Complementari vuol dire che uno non può sussistere senza l’altro, uno non può andare avanti da solo senza essere in ascolto dell’altro. E anche qui voglio leggere un brano del Direttorio (n. 25) che parla appunto di questa complementarità di matrimonio e verginità. “Per parte sua, la verginità, in quanto dice l’assoluto di Gesù Cristo e del suo Regno al quale ci si dona e ci si dedica in modo totale e con cuore indiviso, ‘tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento’. L’esistenza stessa di persone vergini per il Regno dice e ricorda continuamente a chi è sposato nel Signore che il suo matrimonio continua a rimanere grande e si qualifica come evento di salvezza perché e se rimane relativo al Regno e alla sequela di Cristo. D’altra parte, anche chi vive nella verginità per il Regno riceve dal confronto con la vocazione matrimoniale e dalla testimonianza che da essa deriva un aiuto e uno stimolo a fare della propria vita verginale un autentico luogo di donazione, di amore e di fedeltà. (…) Ne deriva che un’autentica pastorale familiare deve promuovere nella comunità cristiana una stima grande e continua per la verginità”. Una pastorale vocazionale fatta solo da preti e consacrati è una pastorale limitata e forse condannata alla sterilità. Una pastorale vocazionale fatta, invece, con le parole e con la testimonianza, da tutti coloro che rispondono con gioia a una vocazione all’amore e alla relazione, può risultare feconda, perché persuade, soprattutto i giovani. 

 

Come lavorare insieme?

Il “come” lavorare dobbiamo scoprirlo insieme. Però faccio alcune ipotesi. Come favorire un maggiore coordinamento tra la pastorale giovanile, familiare e quella vocazionale? Credo, prima di tutto, aiutando i giovani, prima che siano fidanzati, mentre si stanno formando a delle relazioni mature, aiutando i giovani a vedere il matrimonio cristiano come una scelta coraggiosa e radicale, una scelta bella ma impegnativa. Questo si può farlo nella fase conclusiva, prima del matrimonio, in itinerari di preparazione al matrimonio che siano seri e prolungati; ma si deve farlo ancora prima, con gruppi e percorsi di formazione all’amore, dove si presenta la vocazione cristiana come vocazione all’amore, che poi prende strade diverse, a seconda di come si specifica nel disegno di Dio.

 

Secondo, si può favorire il coordinamento sostenendo le famiglie e accompagnandole perché prendano sul serio la responsabilità di educare alla fede i propri figli, senza delegare alla comunità; facendosi aiutare dalla comunità, ma senza delegare. Quando si sono sposati abbiamo chiesto agli sposi: “Siete disposti ad accogliere responsabilmente e con amore… e a educarli secondo…?”. Hanno risposto: “Sì!”. Sempre si risponde di sì, non c’è altra risposta sul Rituale!… Quando hanno presentato i loro figli per battezzarli, abbiamo chiesto: “Voi presentando vostro figlio vi impegnate ad educarlo nella fede. Siete consapevoli di questa responsabilità?”. “Sì!”. Non c’è altra risposta, neanche lì. Dobbiamo aiutarli, mano a mano che crescono i loro figli, dobbiamo aiutare questi genitori a rendersi conto di cosa hanno promesso. Aiutarli prima anche a renderli consapevoli di cosa prometteranno. Ma a rendersi conto di cosa hanno promesso. È una loro primaria responsabilità l’educazione alla fede. Non è compito della Chiesa, non basta mandarli alla catechesi. E mi pare un segno dei tempi il fatto che in molte diocesi si sta svegliando quella che chiamiamo la catechesi familiare, nelle sue diversissime forme,… ma questo bisogno di coinvolgere di più i genitori, magari investirli di più di questo ministero che è loro primario dovere, prima ancora che essere un dovere della comunità. Questo mi pare un segno dei tempi.

 

Terzo. Possiamo favorire il coordinamento aiutando sacerdoti e religiosi a vedere le famiglie non solo come bacino di utenza di vocazioni consacrate, ma come la risorsa principale della pastorale vocazionale. Io credo che lavorando insieme sposi e preti, sposi e persone consacrate, entrando in amicizia profonda, stimandosi, aiutandosi vicendevolmente, insieme si può fare pastorale vocazionale. Si può fare insieme pastorale vocazionale, familiare e giovanile.

 

Alcune modalità: per esempio la presenza… C’è quasi la presenza esclusiva dei sacerdoti in molte diocesi, la presenza anche di religiosi, oltre che di sposi – che è una presenza irrinunciabile – nei corsi di preparazione al matrimonio. E presentare concretamente, dal vivo, delle vocazioni e delle possibilità di risposta in maniera radicale. Un’altra modalità: la presenza di sposi nella pastorale giovanile. Perché si educa più per quello che si è che non per quello che si dice. La presenza di coppie di sposi (oltre che di sacerdoti, di religiosi e di religiose) diventerebbe altamente educativa e orientante anche in senso vocazionale.

 

Altra modalità: la presenza di sposi e genitori nella formazione dei sacerdoti e dei religiosi e religiose. Non abbiamo paura a far entrare gli sposi nei seminari o nei conventi. Da ultimo, si può favorire questo coordinamento facendo delle iniziative comuni. Questa è una splendida iniziativa (quella di questi giorni…). Io penso che questo è solo un primo passo verso un evento nel quale insieme sposi e consacrati ci si interroga sulla sterilità della Chiesa in questo settore e ci si interroga sul cosa fare insieme. Ecco: persone consacrate e sposi che si interroghino sui problemi dei giovani e cerchino di essere per loro testimoni gioiosi di amore.