N.03
Maggio/Giugno 2004

Vita di gruppo e guida spirituale: conflitto o collaborazione?

Al caso che vi ho sottoposto1 mancavano molti dati e non si poteva dire di più di quanto era lì riportato. Eppure, se avete letto la situazione presentata e avevate in mente i pur brevi profili biografici dei tre adolescenti in questione non vi sarà sfuggito un aspetto che mi pare oltremodo interessante e che costituisce un po’ la chiave d’accesso al tema sul quale intendiamo riflettere. La questione che merita di essere indagata è quella che, in modo sintetico, potremmo etichettare così: il mutamento di identità nel passaggio dall’individuo al gruppo.

È indubbio che vi siano aspetti di continuità nella personalità dei nostri tre adolescenti quando si è presa in considerazione la loro singola biografia e quando si è descritto il loro comportamento in quel veloce sketch di gruppo. Eppure, sembrerebbe assai meno logico il fatto che molti aspetti della personalità appaiano abbastanza diversi nel passaggio dalla descrizione dei tre adolescenti considerati singolarmente, all’immagine che si può ricavare di loro a partire dalla dinamica di gruppo.

Ipotizzando che in realtà non vi sia nulla di illogico, potremmo dire che obiettivo delle nostre riflessioni è precisamente quello di provare ad indagare la logica di quel mutamento.

 

 

Capisaldi dell’adolescenza

Prima di procedere vorrei fissare alcuni capisaldi in prospettiva psicologico-evolutiva. Probabilmente molte delle cose che dirò qui, brevemente, saranno per voi note. Ugualmente mi pare opportuno raccoglierle, perché ci offrono almeno la cornice teorica entro cui collocare i dati che andrò a focalizzare. Non seguire questo approccio e utilizzare i dati alla stregua di un materiale irrelato o disperso temo possa compromettere un po’ la comprensibilità dell’insieme.

 

La questione della ricerca dell’identità

Parliamo dunque di identità. Il tema dell’identità è estremamente affascinante e può essere accostato secondo prospettive assai diverse. Nel nostro caso ci occupiamo dell’identità psicologica della persona. Prima di procedere dobbiamo considerare dunque ciò che intendiamo con identità psicologica. In senso generale si fa corrispondere al termine identità quell’insieme di attribuzioni che rende una persona riconoscibile, specifica, unica e originale. Il termine così presentato nella sua accezione più generale assume in psicologia un significato più specifico.

In senso psicologico quando parliamo di identità intendiamo riferirci soprattutto ad un’esperienza. L’identità come esperienza può essere ricondotta a due caratteristiche fondamentali: la continuità e la distinguibilità2. Può essere parte della propria identità psicologica ogni attribuzione che abbia la caratteristica di una certa stabilità temporale. Se oggi mi chiamo Stefano è realistico presumere che anche ieri mi chiamassi Stefano; e pure l’altro ieri e auspicabilmente anche domani. Effettivamente sa un po’ di demenziale pensare che ad un soggetto possano dare un nome diverso ogni giorno che passa. Di certo sarebbe assai difficile per quella persona riconoscere nel proprio nome un elemento della propria identità. Così è immediato cogliere come fra le attribuzioni continue della propria personalità, che in ciò possono entrare a far parte dell’identità, si trovi ad esempio il genere sessuale: se oggi sono maschio è assai probabile che lo fossi anche ieri e, presumibilmente, anche una ventina d’anni fa.

Quali altri elementi possono essere fatti rientrare nell’identità? La “scelta” (ma sarebbe meglio dire la “selezione”, giacché non si tratta di un processo necessariamente consapevole) è operata dal soggetto in interazione con il suo ambiente, intendendo con ambiente sia le altre persone, sia il proprio contesto culturale. Il genere sessuale, ma pure la famiglia di appartenenza, l’intelligenza, la bellezza, la statura, la simpatia, la nazionalità, il colore della pelle, la professione… sono tutti tratti fisici, o psichici, o psicofisici, o psicosociali, che possono rientrare nell’identità perché, a torto o a ragione, il soggetto o l’ambiente vi riconoscono una qualche continuità nel tempo. In ciò si vede subito la potenziale problematicità iscritta nella scelta delle attribuzioni. Qualcuno potrebbe rendere parte della propria identità un elemento che, in realtà, si rivela discontinuo; ad esempio: la bellezza fisica, oppure la professione. Se uno riconoscesse nel fatto di essere bello o di svolgere un determinato lavoro un elemento della propria identità, la perdita di quella caratteristica o di entrambe le caratteristiche potrebbe condurre ad un deterioramento anche psicologico che non sarebbe improprio denominare crisi di identità.

La continuità, però, non è sufficiente. La mia mano sinistra attualmente ha cinque dita. Le cose stanno così da quando sono nato; e spero che rimangano così anche per i prossimi anni. Sembra evidente, perciò, che quello di avere una mano con cinque dita sia un tratto fisico caratterizzato dalla continuità. Tuttavia è fortemente improbabile che io lo associ agli altri elementi della mia identità: io non sento di definire me stesso a partire dal fatto di avere cinque dita alla mano sinistra, giacché tutti gli esseri umani hanno o dovrebbero avere cinque dita. Sarebbe come se mi chiamassi Carlo in un mondo in cui tutti si chiamano Carlo. Il fatto di chiamarmi Carlo, in quel caso, quale tipo di originalità o specificità potrebbe mai segnalare?

Ecco dunque entrare in gioco la seconda caratteristica che deve essere necessariamente presente all’interno degli elementi dell’identità: la distinguibilità. In una famiglia, infatti, ogni volta che nasce un bambino, una delle prime cose che i genitori fanno è di trovargli un nome. E certamente sarà un nome diverso da quello degli altri fratelli. Non mi è mai capitato di incontrare due genitori che dicessero: “Il nome Beatrice ci piaceva talmente tanto che abbiamo chiamato così tutte e tre le nostre figlie!”.

 

L’identità come processo

Dalle considerazioni fatte dovrebbe apparire sufficientemente chiaro ciò che nella realtà, in maniera magari non tematizzata, probabilmente non lo è: l’identità non è una struttura, ma un processo. Se dicessimo che è una struttura dovremmo dire che una volta che c’è… c’è; punto e basta. E ritengo che, appunto, nel senso comune questa sia una persuasione abbastanza diffusa.

La differenza fra processo e struttura può essere resa efficacemente dalla differenza sussistente fra gli occhi e la vista. Gli occhi sono una struttura, mentre la vista è un processo. Evidentemente il processo ha bisogno della struttura. Allo stesso tempo, però, è importante che non si confondano i due, anche ad un livello pedagogico. Perché se considero l’identità, come la vista, un processo, appunto, e non una struttura, significa che anche in condizioni strutturali ottimali, io posso anche non vedere se alcune condizioni al contorno, o di contesto, non sono date. Ad esempio: se è buio pesto!

Pensiamo a cosa significhi questo, anche nella vita religiosa, ma anche nel transito adolescenziale, se consideriamo che il genere sessuale, come attributo dell’identità, è un processo e non una struttura. Anche in questo caso ritengo che, in molti contesti e in modo non tematizzato (e, aggiungerei pure, in perfetta buona fede), si faccia coincidere l’identità di genere con una struttura, sovrapponendola in ciò al sesso biologico, che invece è una realtà del tutto diversa.

Affermare che l’identità è un processo, significa riconoscere che questo è sempre attivo, e non invece dato, una volta per tutte. Come ogni processo, anche l’identità deve imparare a perfezionarsi. Come ogni processo, anche l’identità necessita di una tecnica. Il processo del camminare, da un punto di vista senso motorio, non è un dinamismo semplice. Eppure riusciamo a scendere le scale, magari abbastanza in fretta, e contemporaneamente riusciamo anche a fare altro, come parlare, ridere, o pensare ai fatti nostri. Per realizzare quanto il processo sia complicato, però, provate a scolarvi un litro di Brunello di Montalcino, e poi vi accorgerete che, quasi quasi, dovrete ricordare perfino quale sia la gamba che avete mandato avanti per ultima, che non accada di muovere la stessa, con risultati prevedibilmente catastrofici per la vostra discesa.

Pensate allora quanto in realtà siano possibilmente fluttuanti i tratti della nostra identità se intesi come processi. Nella maggioranza delle circostanze non sarà un problema, ma in alcune situazioni… che cosa potrà accadere?

 

Identità e integrazione nell’adolescenza

All’adolescenza è riconosciuto questo compito evolutivo: la stabilizzazione, il perfezionamento dell’identità. Le ragioni sono diverse e sono fondamentalmente legate al fatto che dalla pubertà in avanti si affacciano nuovi elementi, fisici e psichici, che si presentano inizialmente in modo disperso, ma con la pretesa di essere parte della sola personalità che abbiamo.

Ad esempio: il bambino un po’ misogino, detesta le bambine e può anche permetterselo, finché è bambino. Dalla pubertà in poi continua a detestarle, ma… accidenti, c’è qualcosa dentro di lui che invece gli dice tutt’altro. E quell’emozione non se ne vuole stare troppo quieta, nonostante i suoi tentativi volontaristici di affermare a se stesso e agli altri che non si sposerà, mai e poi mai. Ecco: c’è una parte di lui che non vuole sentire ragioni. Egli non può negare che ci sia. Dunque non sa realmente ciò che vuole, perché in definitiva non sa che cosa sia quella roba che si è affacciata in lui.

L’esperienza precedente è la semplice narrazione di ciò che in modo un pizzico altisonante identificheremmo come “mancanza di integrazione”. Ecco perché in anni passati si riconosceva nel matrimonio la conclusione dell’adolescenza. La cosa non era priva di senso: se quell’energia affettiva, all’inizio possibilmente scissa (cioè attraente e disturbante allo stesso tempo) poteva entrare a far parte di un progetto di vita, “separato” anche dal proprio contesto di provenienza, ecco che si poteva parlare di una qualche integrazione.

Dunque l’adolescenza si presenta come un grande cantiere aperto. Da un punto di vista di psicologia dello sviluppo la definizione stessa di adolescenza ha in sé una piccola mostruosità epistemologica che, a mio parere, aiuta anche a comprendere come mai sia tanto difficile parlarne e collocarla nel tempo. Quella che scherzosamente chiamo “mostruosità” è semplicemente la constatazione del fatto che se l’inizio dell’adolescenza viene fatto coincidere con un fatto fisico (che ne traina uno psichico), la fine non ha se non un insieme di riferimenti psicosociali, che fisici non sono più e che sono talmente fluttuanti da rendere improbabile la loro individuazione. Voglio dire: se l’adolescenza inizia con la pubertà, c’è da aspettarsi che, più o meno attorno agli undici, dodici o tredici anni, qualcosa “succeda” al nostro ragazzo che sta crescendo. Che lo voglia o no, quel ragazzo prima o poi, in modi più o meno riusciti, adolescente dovrà diventare. Il guaio è che per tirarlo fuori dall’adolescenza non esiste un fatto altrettanto significativo quale, appunto, la pubertà. Il trabocchetto epistemologico è stato quello di individuare gli stadi dello sviluppo trattando come se fossero omologhi parametri somatopsichici e parametri socioculturali.

Un semplice esempio tanto per capire l’inghippo. Un quotidiano nazionale, in un articolo pubblicato lo scorso anno 2003, stabiliva che attualmente non si può più parlare di conclusione dell’adolescenza a diciott’anni (come in effetti recitavano i vecchi manuali di psicologia dello sviluppo), ma a trentacinque. Tesi: ci si sposa più in là negli anni, perché in effetti si diventa adulti più tardi. Ecco il “mostro” epistemologico. Uno dei criteri che sanciscono la fine dell’adolescenza è la conquista dell’autonomia affettiva. Tipicamente il matrimonio o il fatto di metter su casa per conto proprio sono segni di una tale autonomia. Dunque l’adolescenza ritarda perché ci si sposa più tardi. Come posso utilizzare ciò che è causa per dire ciò che è effetto? Si diventa adulti più tardi, perché ci si sposa più tardi… Come si fa a dire, dunque, che ci si sposa più tardi perché si diventa adulti più tardi! Come la mettiamo?

A mio parere la messa a fuoco dei processi di costruzione dell’identità si rivela fruttuosa perché ci consente di lasciar perdere la questione di una definizione, ancorché descrittiva, di che cosa sia adolescenza e di che cosa non lo sia più. Possiamo parlare di adolescenza come di quel periodo in cui il processo dell’identità giunge ad una sua stabilizzazione. Dire che si stabilizza, però, non significa affermare che da processo si trasforma in struttura. Significa che, salvo in condizioni di regressione, il soggetto, da lì in poi, è in grado di funzionare secondo una modalità tendenzialmente stabile, dal punto di vista fisico, intellettuale e affettivo-sessuale.

 

 

I dilemmi dell’identità

Per comprendere meglio che cosa accada ai processi dell’identità dobbiamo allargare lo sguardo assumendo una prospettiva psicologico-sociale. Proviamo a ragionare in astratto: un soggetto qualsiasi accosta un gruppo e, nel modo più generico possibile, vi entra. Per un tempo che può essere più o meno prolungato quel soggetto sarà parte del gruppo.

Rimango sul generico perché l’esperienza dell’ingresso di un soggetto in un gruppo assume realmente una molteplicità di situazione differenti. In un articolo che ho scritto sul tema3 ho addirittura utilizzato come paradigmi di questo genere di situazioni che pongono una sfida, piccola o grande che sia, ai processi dell’identità, addirittura l’esperienza del “viaggio” di due persone in un ascensore o quella del viaggio di un gruppo di passeggeri sulla carrozza della metropolitana. Chiunque sarebbe in grado di cogliere che fra queste esperienze e, ad esempio, quella dell’ingresso di una novizia o di una recluta in un monastero o in una caserma, rispettivamente, sono esperienze differenti. Eppure, per molti aspetti, almeno da un punto di vista formale, e in particolare proprio per ciò che finisce per coinvolgere i processi dell’identità, le diverse esperienze si assomigliano molto o perlomeno possiedono molti aspetti in comune. E così accade ogni volta che un individuo entra a far parte di un gruppo, più o meno stabile e più o meno definito nei suoi obiettivi e nella natura dei suoi legami.

Ciò che formalmente si ripete trova le proprie radici precisamente nella natura di processo e non di struttura dell’identità individuale. Riprendo l’esempio della vista: dicevo che per vedere (processo), gli occhi (struttura) sono condizione necessaria, ma non sufficiente. In una stanza al buio neppure due “occhi buoni” potrebbero un gran che. Ecco: l’identità è qualcosa di simile. Ma, potremmo dire, non è un semplice processo accessorio, che ci può essere così come ci può non essere, quasi a piacimento. Seppure con sollecitazioni differenti, a seconda delle diverse circostanze, l’identità è un compito che deve essere costantemente eseguito. E che a seconda di come viene eseguito, può far stare più o meno bene colui che lo esegue, cioè io in ogni circostanza della vita.

Il compito potrebbe essere verbalizzato così: in ogni circostanza ogni persona sente di dover affermare la propria identità. Esperienzialmente, proprio a partire dai tratti con i quali abbiamo inteso qualificare che cosa sia identità, questo non significa evidentemente che la persona mentre entra in un gruppo domanda a se stessa “Chi sono io? Chi sono io? Chi sono io?”. Evidentemente non è così. Identità significa che in ogni momento sento la domanda (il desiderio, il bisogno) di conservare la mia separatezza e la mia individualità, o la mia continuità e la mia distinguibilità.

Pensate all’esperienza semplicissima di essere in chiesa, o a teatro, o al cinema, ed essere vittima di un attacco di tosse convulsa, o di una sequenza di starnuti, che ad un certo punto sembra fuori controllo. La separatezza è in crisi, perché sento lo sguardo degli altri su di me, perfino come invasivo. L’individualità è in crisi, perché non importa che io sia un professionista affermato o addirittura il regista dello spettacolo che va in scena. In quel momento è assai probabile che di tutti i miei titoli e di tutte le mie eventuali capacità non sappia proprio cosa farmene; ed è invece assai probabile che mi senta stupido o perlomeno goffo, sicuramente in forte disagio. Infatti, se la cosa non va a concludersi, è probabile che decida di uscire, forse più per l’imbarazzo che provo, che per il disturbo che mi sembra di arrecare. Ecco: tutto questo è un processo che coinvolge l’identità, hi quel momento sono “uno stupido guardato dagli altri”. La cosa non viene necessariamente tematizzata, ma ciò che viene sperimentato potrebbe essere verbalizzato così. Quando un soggetto entra in un gruppo (e vi rimane per un tempo più o meno prolungato) ci troviamo di fronte ad un dilemma che coinvolge l’identità. Perché? Perché ciascuno di noi si accosta ad un gruppo con un insieme di processi dell’identità pronti ad entrare in funzione in maniera abbastanza stabile, e che per questo motivo si comportano quasi come strutture, anche se, appunto, strutture realmente non sono. Nel gruppo, però, quei processi potrebbero non riuscire a funzionare; anzi: il gruppo potrebbe esigere il funzionamento di altri processi, di cui il singolo neppure dispone.

Vediamo un esempio. Come si è già detto, un processo relativamente stabile, almeno in un soggetto adulto, è quello che coinvolge il genere sessuale. Il genere sessuale riguarda la percezione della propria identità sessuale. Nella maggior parte delle circostanze è un processo sufficientemente stabilizzato. Proviamo però a mettere un gruppo di soli maschi su un’isola deserta e, senza aspettarci nulla di turpe, andiamo dopo un mese a verificare se quella percezione della propria identità è rimasta al riparo da fluttuazioni. E badate bene: non perché mancando le donne… si salvi chi può! Ma perché, mancando le donne, ci si percepisce realmente meno uomini. Non dimentichiamo, a conferma di quanto sto dicendo, che l’etimo probabile del termine “sesso” è da secare, cioè, guarda caso, “separare”. Dunque la perdita o l’attenuazione della propria identità di genere maschile non è soprattutto conseguente alla mancanza dell’oggetto di attrazione (quella che taluni chiamano scelta oggettuale dominante), ma alla mancanza dell’altro che, essendo differente, mi consentirebbe di definirmi meglio (di identificarmi, appunto), perché “io mi sento maschio (o femmina) anche perché non sono come te, cioè femmina (o maschio)”. Se volete: accade qualcosa di analogo alla dinamica del nome. Io sento che il mio nome, Carlo, è parte della mia identità (cioè esperienzialmente mi identifica) perché tu non ti chiami Carlo, ma Michele. Soltanto in ciò che mi separa da te io posso identificarmi.

 

 

Aspetti dell’identità che creano tensione e aspetti che non la creano

Entriamo in ogni situazione con alcuni processi dell’identità sufficientemente stabili e quindi non troppo influenzabili dalle circostanze; altri invece lo sono assai di più. In ogni caso, anche quei processi che mi garantiscono un’identità sufficientemente stabile, non è detto che in una determinata situazione siano significativi. Se sono a teatro e tossisco in modo convulso, realmente importa poco che io sia maschio o sia femmina. Voglio dire: è probabile che in quel teatro il mio genere sessuale non sia sfidato e che, dunque, io non provi alcun disagio riguardo al mio genere sessuale; allo stesso tempo, però, in quell’esperienza non è il genere sessuale ad aiutarmi a stare meglio, meno a disagio, se mi viene di tossire ripetutamente. Cosa vuoi dire questo? Che i tratti dell’identità, magari quelli su cui faccio leva più frequentemente, possono, o entrare in conflitto con la parte che il gruppo mi assegna in quel preciso momento, oppure non essere per nulla significativi rispetto alla parte che il gruppo mi assegna in quel preciso momento.

In altre parole: anche il gruppo, che lo si voglia o meno, assegna un’identità a tutti i suoi membri, più o meno definita, più o meno specifica, a seconda di quello che è il fine, l’obiettivo, del gruppo. L’obiettivo di un gruppo di spettatori a teatro si declina secondo pochissimi contenuti: deve tacere e non disturbare. Rispetto al fine del gruppo, essere maschio o essere astronauta di professione sono tratti di un’identità assolutamente non significativa. Essere ammalati ai bronchi, per quanto anche solo in modo contingente, invece rappresenta un tratto conflittuale rispetto all’identità che il gruppo assegna ai singoli.

Nel caso dello spettacolo teatrale si vede bene come l’identità assegnata dal gruppo ad ogni singolo sia evidente e omogenea. Ma le cose non vanno sempre così. I gruppi sono diversi, e si specificano secondo obiettivi diversi, dichiarati e non. E le identità che un gruppo assegna ai suoi membri possono essere diversificate, uno per uno, dichiarate e non.

Vediamo un altro esempio: immaginiamo un gruppo di scienziati che lavora ad un progetto comune. Se vengo richiesto di far parte di un tale gruppo, che fra i tratti della mia identità ci sia anche il fatto che sono stato campione italiano di scherma probabilmente non mi serve relativamente all’identità che il gruppo mi assegnerà. Può darsi che all’inizio io giochi simpaticamente su questo tratto: come ultimo arrivato cercherò di farmi accettare dal gruppo ricordando loro, magari facendo finta di niente, che io sono stato campione italiano di scherma. A lungo andare, però, se lo scopo del gruppo è quello di progettare sistemi di controllo per l’industria aerospaziale… i miei trofei non serviranno un gran che. Supponiamo che, invece, io di scherma non sappia proprio un bel niente, ma che realmente sia un mostro di conoscenza in Teoria dei Sistemi, con laurea al MIT di Boston, e via dicendo. A ragionare in termini puramente logici verrebbe da dire che il gruppo, a quel punto, non potrebbe che darmi il benvenuto, giacché in vista dei suoi obiettivi (progettare sistemi di controllo) la mia presenza non potrà che essere di grande aiuto.

Già: peccato che con il mio arrivo, quello del gruppo che, fino a quel momento, era stato considerato come il più esperto, dovrà passare almeno in seconda posizione. Oltre a dover modificare l’eventuale narcisismo (perché un po’ ce n’è sempre) del singolo, il gruppo dovrà provvedere a riorganizzare la sua rete di relazioni. Perché? Perché a quel punto, nei passaggi difficili, o quando più semplicemente sarà opportuno un consiglio o un parere risolutivo, le domande verranno rivolte a me e non più a quello che prima del mio arrivo fungeva da esperto. Il gruppo assegnerà al “vecchio” esperto una nuova identità. Però è possibile che al “vecchio” esperto questa nuova identità non stia bene per niente. Così, egli, pur riconoscendo la mia competenza e ringraziando magari anche il Signore per il mio arrivo, nella realtà e magari in modo inconsapevole, farà di tutto per neutralizzarmi o per svalutarmi.

Tutto questo svela quelli che potremmo visualizzare in mille situazioni diverse e che vengono denominati, appunto, i dilemmi dell’identità. Ciò che io sono e ciò che il gruppo “vuole” che io sia non è detto che vadano d’accordo. E la lotta che ne può risultare può realmente essere spietata. Anche nelle comunità religiose, anche con un sorriso stampato sulle labbra.

 

 

Assunti di base

La presenza dei dilemmi dell’identità evidenzia un aspetto interessante e perfino suggestivo della psicologia dei gruppi, messo in luce in modo particolare da alcuni autori di matrice psicoanalitica4. È la questione dei cosiddetti assunti di base. La sostanza del tema, semplificando un po’, potrebbe essere resa così: le dinamiche all’interno delle quali un gruppo si organizza non dipendono esclusivamente da quello che è il fine proprio (dichiarato o esplicito) di quel gruppo. Esistono delle “regole” di cui il gruppo spontaneamente tende a dotarsi che procedono con una certa indipendenza dagli obiettivi dichiarati del gruppo e che possono perfino entrare in conflitto con quelli. Funzione dell’assunto di base è ancora il gruppo, la sua compattezza, la sua continuità nel tempo. Il guaio è che, talora, il modo attraverso cui l’assunto di base giunge ai propri obiettivi può essere in contrasto con l’obiettivo dichiarato, quello cioè per cui il gruppo esiste.

Riporto un semplice esempio5. Una comunità parrocchiale può convocare un consiglio pastorale per discutere di un insieme di iniziative da mettere in atto, per il sostegno e la sensibilizzazione, sul tema della pace nel mondo. Quel consiglio pastorale, però, magari è dilaniato da lotte intestine. Così, alla fine, il consiglio si conclude oltre che con un nulla di fatto, anche con un allargamento ulteriore della divisione o del conflitto interno. Però può accadere anche che quello stesso consiglio pastorale profondamente diviso giunga ad un risultato ottimale “grazie” alla propria conflittualità interna. Il consiglio, magari, si è diviso in piccoli sottogruppi. La proposta concreta del parroco, di una raccolta di fondi per il sostegno di alcuni progetti mirati, viene “usata” dai sottogruppi come sfida, per competere gli uni contro gli altri. Il risultato è che la proposta, dal punto di vista del risultato finale, si rivela concretamente un successo. Il parroco ringrazierà il consiglio pastorale per la sua sensibilità nei confronti di un tema così importante, come quello della pace. In realtà le cose non sono andate del tutto così.

In un caso come questo, l’assunto di base si è fatto complice dell’obiettivo del gruppo. Qualcuno potrebbe rimanere scandalizzato, ma andando dal parroco a reclamare per il clima davvero poco evangelico, potrebbe sentirsi rispondere che il problema non esiste: “Basta guardare l’iniziativa sulla pace: un successo!”. L’assunto di base è utile a comprendere come mai, ad esempio, un gruppo quale quello degli scienziati che lavoravano al progetto comune dei sistemi di controllo gestisse male l’arrivo di un nuovo collaboratore e questo, almeno apparentemente, contro la logica del buon senso che porterebbe a dire che se c’è uno che ci può aiutare, tanto meglio. Non è così: ci può aiutare, ma il suo arrivo attenta alla compattezza del gruppo. La chiarezza dei ruoli mantiene il gruppo compatto; la continua fluttuazione o la continua intercambiabilità molto meno. Il gruppo si sentirà meno definito. La sua identità di gruppo ne farà le spese.

Un gruppo fatica ad avere due leader che si alternano nel ruolo. È più probabile che uno dei due si sottometta e rinunci, oppure che esca dal gruppo. Altrimenti sarà conflitto e perciò il gruppo perderà la propria compattezza. Un ambito in cui questo tema è altrettanto visibile è quello familiare. Il processo del cosiddetto capro espiatorio può essere utilmente riletto sia in chiave psicologico-sistemica, sia nella prospettiva degli assunti di base.

Gli studi condotti sugli assunti di base sono interessanti perché mostrano quello che, da altra via, anche l’approccio sistemico segnala: esiste in ogni gruppo una personalità del sistema che non può essere “dedotta” dalla semplice personalità dei singoli. Bion e Kernberg, infatti, individuano alcune tipologie degli assunti base. E queste sono in numero discreto. In altre parole: ci sono dei dinamismi di personalità del gruppo che tendono a stabilirsi secondo modalità ricorrenti. E siccome invece, le personalità dei singoli sono tante, perché siamo tutti diversi su questo pianeta, affermare che la personalità dell’intero è tutto sommato riconducibile a poche tipologie, conferma che effettivamente c’è almeno una certa indipendenza fra singoli e sistema.

I tipi di assunto di base sono tre, o forse quattro. Per non uscire troppo dal nostro tema mi limiterò a segnalarne due, perché mi sembra che più frequentemente coinvolgano lo sviluppo dell’adolescenza. Si tratta del cosiddetto assunto di base attacco-fuga, e del cosiddetto assunto base di dipendenza.

L’assunto attacco-fuga, sostanzialmente funziona così: il gruppo riconosce o addirittura “si inventa” un nemico esterno o interno (che a quel punto viene però espulso, diventando in ciò esterno). La difesa dal nemico o l’attacco contro il nemico consentono al gruppo di salvare la propria compattezza, perché in qualche misura lo definiscono. È il caso della parrocchia che programmava iniziative per la pace: in questo caso il nemico esterno era l’altro gruppo. È il caso, appunto, del cosiddetto capro espiatorio. In questa situazione il nemico è interno, ma addebitando a lui l’origine di un problema (ad esempio familiare) diventa qualcuno di interno da cui ci si deve difendere o che si deve attaccare. In ciò è come se fosse esterno. Eppure è importante che rimanga “relativo” al gruppo, perché il suo allontanamento definitivo toglierebbe al gruppo una ragione di unità. Per il nostro tema appare con sufficiente evidenza come il gruppo adolescente (e con maggiore evidenza il gruppo adolescente deviante) corrisponda bene a questo assunto: l’attacco e/o la fuga avvengono verso il mondo adulto e i suoi simboli.

L’assunto di dipendenza, invece, funziona così: il gruppo si inventa un leader, o se lo ritrova assegnato, e definisce la propria identità idealizzando lui. Quando il leader non riesce più a corrispondere a quell’investimento idealizzato su di sé, ecco che viene semplicemente avvicendato. Qui gli esempi sono frequenti, anche nei nostri ambiti, nelle esperienze di quei gruppi che fanno riferimento al carisma di un “capo”.

Nel caso dei gruppi di adolescenti si coglie bene come possano presentarsi in modo concomitante entrambi gli assunti: la banda adolescenziale, ad esempio, può realizzarsi a partire dall’assunto attacco-fuga, ma trovare un’identità di gruppo nell’assunto di dipendenza, ove il leader idealizzato, in questo caso, potrebbe essere semplicemente un personaggio (perfino immaginario), del mondo dello spettacolo o dello sport, oppure il suo progetto di vita che ruota attorno ad una particolare professione o ad una particolare disciplina.

 

 

Ripresa del caso

Prendiamo ora in considerazione il caso proposto per il lavoro a gruppi. Da qui mi pare si possano trarre alcune conseguenze importanti. Giovanni mostra in atto, dal suo punto di vista, il bisogno di un assunto attacco-fuga. Nel suo caso, potremmo dire, prevale l’aspetto della fuga. Per lui, che pure è persona dotata di sensibilità fine e anche di una positiva attenzione verso le altre persone, il gruppo in realtà svolge una qualche funzione. Si può rilevare bene il suo atteggiamento, teso alla conservazione di un’identità di gruppo che possa distinguersi dai lontani. Ciò potrebbe apparire almeno “curioso”, anche limitandoci alla sola considerazione del suo brevissimo sketch biografico: “Non è assente […] uno sguardo attento al mondo e alle altre persone”.

Assai più complesso appare, invece, il gioco psicodinamico di Claudio. Dallo sketch biografico emerge una personalità che sembra non collimare un gran che con quella che sembrerebbe emergere dall’interazione nel gruppo. Di lui si dice che “nel confronto individuale si presenta come una persona che sfugge. Non ha mai accolto l’invito ad intraprendere un itinerario di direzione spirituale”. Notiamo invece il doppio registro assunto da Claudio con don Marco, da un lato, e con gli altri, dall’altro. Dovremmo dire che qui, in qualche misura, sembra che Claudio voglia far leva su entrambi gli assunti di base.

In primo luogo, quello di attacco-fuga, in questo caso da don Marco, che rappresenta probabilmente per lui, che ha diciannove anni, il mondo adulto. Notiamo, però, che lo fa solo nel gruppo. È interessante questo. Quando infatti il sacerdote presenta la proposta agli altri, dice di averla trattata previamente proprio con Claudio. Notiamo, ancora una volta, come il gruppo scombini le regole e ne crei di nuove, perfino contraddittorie con le precedenti.

In secondo luogo, quello di dipendenza: il dato non è clamoroso, eppure osserviamo come la parte “pretesa” da Claudio nel gruppo si avvicini a quella dell’opinion leader. Anche questo è interessante: il nostro Claudio sfugge al confronto personale e qui, invece, nel gruppo, lo vediamo a gestire la parte di uno che, per certi versi, sembra riportare il dibattito precisamente sulle scelte pratiche, ma anche su quelle di fondo, di contenuto.

Ancora diverso appare il processo psicosociale che coinvolge Matteo. Per molti aspetti il suo atteggiamento appare irritante e quanto meno enigmatico. Si noti, però, nel suo caso la minore discontinuità con ciò che emerge dallo sketch biografico, individuale. Nel suo caso non sembra in evidenza un assunto del tipo attacco-fuga, ma neppure uno di dipendenza. Si potrebbe pensare che lui tenti di giocare (e perciò di contrastare) la parte di Claudio, ma la cosa non convince troppo: il suo modo di fare sembra in realtà poco costruttivo e propositivo, e invece quasi contrappositivo, rispetto a tutto il gruppo.

Vorrei fare allora due brevi riflessioni. La prima. Prendendo spunto dalle considerazioni relative al comportamento di Giovanni e Claudio, notiamo come gli assunti di base si sovrappongano all’identità dei singoli, dando loro, in un certo qual modo, una nuova forma. La tensione che viene a crearsi fra la forma “individuale” e quella “sociale” crea ciò che abbiamo inteso con l’espressione dilemma dell’identità. Tuttavia (e nel caso di Claudio con maggiore evidenza), ragionando con personalità di adolescenti, la questione del dilemma non si pone in modo analogo a quella che si porrebbe se il soggetto coinvolto fosse un adulto. Perché? Perché nel caso del soggetto adolescente la forma individuale dell’identità può essere estremamente labile. E alla fine può accadere che il soggetto ami strutturarsi attorno alla sola identità sociale. Non essendoci tensione con l’altra identità (che è troppo labile) non c’è neppure dilemma. In ciò il gruppo si propone come risorsa per lo sviluppo del singolo, ma anche con il rischio che il singolo “nidifichi” nel gruppo e non colga invece il processo di identificazione dal gruppo come pedagogico per un consolidamento anche della propria identità individuale.

Il caso di Giovanni è per molti aspetti, formalmente, identico, ma i poli sono invertiti. La sua identità individuale potrebbe sembrare perfino più stabilizzata di quella di Claudio. La dimensione sociale, però, appare idealizzata, o irrealistica, o perlomeno più desiderata che concretamente realizzata. Come dire: il suo interesse per gli altri, che è parte della sua identità individuale, è consistente a patto che gli altri… non ci siano. Per lui, dunque, il gruppo giunge a creare tensione, e quindi dilemma, quando si apre ad un’alterità concreta e non solo proclamata. Al contrario il gruppo dei simili lo rafforza nell’identificazione con coloro che si ritrovano perché credono all’importanza di annunciare il Vangelo “sino agli estremi confini della terra”, ma… a patto che non si esca da quella stanza!

In altre parole: nel caso di Claudio e in quello di Giovanni il gruppo è a servizio delle loro identità, anche se per dinamismi differenti, ma formalmente simili. Per questa ragione entrambi sono “complici” di alcuni assunti di base che, come tali, hanno l’obiettivo di mantenere il gruppo nella propria compattezza. Si vede bene la causalità circolare, o la complicità: quanto più il gruppo è compatto, tanto più può essere a servizio di un processo di identificazione dei singoli.

La seconda. Prendendo spunto dalle riflessioni che facevo attorno al comportamento di Matteo, possiamo notare come il dilemma dell’identità, nel suo caso, appaia con maggiore evidenza. È come se, infatti, Matteo mostrasse di resistere ad un’identificazione con il gruppo, del tipo: “Sono con voi, ma non sono con voi…”. Il suo comportamento irrita, ma probabilmente la sua personalità è quella che viaggia verso una maggiore strutturazione, rispetto a quella degli altri due, Giovanni e Claudio. Il suo carattere contrappositivo, però, svela che quella strutturazione è tutt’altro che completata.

 

 

Questioni pedagogiche generali

Questo genere di riflessioni ci mostra la straordinaria complessità di questa stagione. È banale richiamare a se stessi che non c’è un adolescente uguale ad un altro, eppure bisogna tenerne conto. I processi di costruzione dell’identità sono in ciascuno ad uno stadio inedito ed è davvero difficile se non impossibile generalizzare anche solo un pochino. Proviamo comunque a ricondurre, quasi in forma di enunciati generali, gli obiettivi almeno ideali di una pedagogia che volesse mettere a tema questa questione complessa del rapporto fra l’individuo ed il gruppo.

Da un lato è importante che l’adolescente sperimenti il gruppo come spazio autentico di socializzazione, ma occorre che il gruppo sappia anche non cristallizzare le identità relative al gruppo stesso. Per alcuni adolescenti, infatti, può non esserci alcun dilemma e l’identità che il gruppo assegna loro può finire per diventare la sola identità che hanno. Con il rischio di giungere ad alcune personalità che sembrano fatte apposta per non uscire mai dalla dinamica di una vita parrocchiale o di oratorio o di movimento. E con alcune simpatiche derive: penso al giovane che magari non si sposa e non si sposerà mai, che in parrocchia fa tutto (al punto che lo chiamano “vice-parroco”), ma proprio tutto, dall’oratorio alla sacrestia, ma che di fronte alla proposta: “Ma perché non diventi prete?”, risponde, quasi sorpreso, che non se ne parla nemmeno. E da un certo punto di vista ha ragione lui. Sarebbe come se dicesse (ma non lo dice perché non lo sa): “Appena esco di qui non so più chi sono. E se non so più chi sono, come faccio a scegliere qualsiasi cosa, compreso di fare il prete?”.

Da un altro, è importante che l’adolescente senta di non doversi identificare troppo con la propria appartenenza al gruppo, ma andrà resa esplicita ogni presa di distanza eccessiva, ogni forma contrappositiva, perché svela, in realtà, un’identità ancora in cantiere e, perciò, come timorosa di perdersi. Il rischio è che la modalità contrappositiva si cristallizzi, anticipando la chiusura dell’adolescenza in questo modo, con l’esito di personalità che poi “si servono” del gruppo per affermare se stessi nel modo seguente: “Mi oppongo, dunque esisto”. Anche di questa simpatica tipologia le nostre comunità sono esperte: esigendo condizioni di accesso che sono, tutto sommato, alla portata di tutti, esse possono riempirsi di personaggi che amano essere eletti nei consigli pastorali e non si capisce bene perché, giacché la sola parte che sanno gestire è quella di coloro che sono in perenne conflitto e che uno straccio di proposta concreta non riescono proprio a farla.

 

 

Conclusioni

Partendo anche dal solo caso utilizzato per il lavoro a gruppi, mi pare si possano intuire le difficoltà del lavoro che dovrebbe essere svolto dall’educatore. Non dimentichiamo, poi, che ci siamo limitati al caso di soli tre protagonisti del gruppo. Quindi dobbiamo riconoscere che il compito che realmente possiamo eseguire non può avere pretese del tipo “facciamo direzione spirituale a tutti i giovani del quartiere”. D’altra parte il fatto che la sola relazione educativa sia quella nella quale il singolo è, o sempre “dentro il gruppo”, o sempre “fuori dal gruppo” può presentarci la personalità di un adolescente diverso.

A partire da ciò, mi sembra importante che nel lavoro pastorale si adotti una definizione operativa, estesa, di direzione spirituale che possa concretamente realizzarsi anche nelle situazioni informali, perfino casuali, non programmate né tanto meno istituzionali, in cui però, oltre all’amicizia e all’affetto, noi abbiamo anche alcuni obiettivi pedagogici da raggiungere. Dobbiamo fare in modo che, non appena l’adolescente che ci interessa “ci cade sotto tiro”, ecco che quegli obiettivi affiorano e si traducono in strategie e interventi concreti. Inutile dire che in ciò ogni tecnica può aiutarci ben poco se non coltiviamo, anche spiritualmente, una reale passione educativa.

Detto questo, ecco che allora vorrei fissare alcuni, pochi, punti da avere chiari in se stessi. In primo luogo, non possiamo utilizzare la categoria “adolescente” come se questa comportasse già un dato evolutivo. Un’indagine paziente e certo difficile ci è richiesta. È quella che ha come obiettivo di giungere ad una risposta per la seguente domanda: “A che punto è questo adolescente?”.

In secondo luogo, avendo chiaro il punto precedente, è logico concludere che l’osservazione dell’adolescente, di quell’adolescente, e nel rapporto individuale, e nel gruppo, diventa un luogo diagnostico per cogliere appunto “A che punto è questo adolescente?”.

In terzo luogo, mi pare che si specifichi e si chiarisca un aspetto forse inedito della funzione educativa. Mi piace utilizzare per l’educatore l’immagine del traghettatore, fra il dentro e il fuori: che l’educatore possa, nel rapporto individuale, aiutare l’adolescente a elaborare ciò che accade nel gruppo. Il percorso inverso non sarebbe possibile: lo spazio del gruppo non può essere utilizzato per confrontare nessuno sulle questioni individuali. Questo passaggio va curato. Mi verrebbe da dire che va curato più del “dentro” e del “fuori”, cioè più della cura che l’educatore mediamente riserva alla relazione con il singolo quando questo è nel gruppo, e più di quella che riserva alla relazione con il singolo quando questo è in un rapporto individuale con lui.

Infine, in quarto luogo, ritengo si debba giungere quasi a “istituzionalizzare” l’esistenza di un ciclo di vita nell’appartenenza al gruppo. Questo vale sia per l’appartenenza al gruppo in senso ampio (“nel gruppo si entra; ma dal gruppo pure si esce”), sia in senso più specifico, relativo cioè alla mansione o al ruolo che il singolo occupa nel gruppo (“questo servizio nel gruppo non è ‘a vita’”).

In senso ampio: perché l’adolescente o il giovane che è attivo in oratorio, ad un certo punto (quando magari non dovrebbe essere più adolescente e forse nemmeno giovane) è bene che scelga che cosa fare della sua vita; e se sceglie di mettere su famiglia, è bene che lasci il posto ad un altro e badi a sua moglie/ marito e ai suoi figli; e se un altro che prenda il suo posto non c’è… non c’è, punto e basta.

In senso più specifico: perché coinvolge un duplice obiettivo. Innanzitutto fa bene al singolo perché lo costringe a consolidare un’identità che prescinde non dalla relazione, ma da quella relazione, cioè da quella specifica appartenenza al gruppo. Secondariamente fa bene al gruppo, perché questo non viene requisito da pochi. Anche questa eventualità, infatti, può comportare qualche guaio. Tracciando brevemente la questione del dilemma dell’identità, mi sono limitato a focalizzarla nella prospettiva che va dal singolo al gruppo. C’è però anche una prospettiva inversa, che stabilisce un ulteriore dilemma: è quello del gruppo che deve mantenere la propria identità (di gruppo) anche di fronte all’intercambiabilità dei suoi membri. Certo è un dilemma; eppure si tratta di un dilemma fecondo, perché non appiattisce, ad esempio, un carisma sulla personalità di un singolo, con il rischio che il gruppo, alla scomparsa di quello, materialmente non si ritrovi più.

 

 

Note

[1] Cfr. l’allegato.

[2] Altri autori parlano di separatezza (separazione) e individualità (individuazione). Si tratta di una polarità differente, ma analoga a quella della continuità e della distinguibilità. Nel discorso le utilizzerò in modo intercambiabile anche se, propriamente, non sono identiche.

[3] S. Guarinelli, Conflitti e dilemmi dell’identità, “La Scuola Cattolica” 130 (2002) 751-805.

[4] Cfr. O.F. Kernberg, Mondo interno e realtà esterna, Bollati Boringhieri, Torino 1985; W. R. Bion, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971.

[5] Ripreso da S. Guarinelli, Conflitti e dilemmi dell’identità, cit, 757, 794-795.

 

 

Allegato

Caso per la discussione in gruppo

Il caso presenta alcune battute di una riunione programmata in parrocchia con l’obiettivo di organizzare un momento di preghiera per gli adolescenti e i giovani del quartiere. Sono presenti sette adolescenti/giovani e un sacerdote.

I presenti sono: Claudio, Matteo, Giovanni, don Marco (animatore), sono presenti altri quattro giovani, che non intervengono se non in una occasione.

Nella Prima parte è riportata la trascrizione di parte della riunione.

Nella Seconda parte sono riportate alcune indicazioni biografiche di coloro che sono intervenuti.

 

Prima parte

don Marco: “Parlavo l’altro ieri con Claudio e mi permetto di rilanciare l’idea che lui mi diceva… (rivolto a Claudio) posso, vero?”

Claudio: (tace)

don Marco: “Per questo incontro, visto che è una cosa un po’ nuova anche per noi, si pensava di fare un semplice volantino e poi di metterlo nelle cassette postali. Era così, Claudio, vero?”

Claudio: (tace)

Un altro giovane: “Però c’è il problema dei custodi. Quelli dei condomini, insomma. Per le villette non ci sono problemi; ma i condomini…”

Claudio: “È vero. Però gli stabili del quartiere in fondo sono cinque o sei. E tranne quello in fondo a Via Pertini, gli altri custodi vengono tutti in parrocchia. Te li corrompo io!” (ride)

Giovanni: “Un attimo, fatemi capire, hi che senso questo incontro deve essere diverso?”

don Marco: “Perché si era deciso di allargarlo a quelli che non frequentano o che frequentano poco”

Matteo: “Si era deciso…?”

don Marco: “Matteo rompiscatole! Allora: abbiamo deciso!”

Matteo: “No, don! Hai deciso!”

Claudio: “Vabbé, ma non eri d’accordo anche tu?”

Matteo: “Non ho detto che non sono d’accordo. Ma non l’ho deciso io. Volevo mettere solo i puntini sulle ‘i’” (ride) 

don Marco: “Ripeto: Matteo rompiscatole!”

Giovanni: “Ecco, io però vorrei dire che… la cosa mi lascia un po’ perplesso. Abbiamo detto che questi momenti dovrebbero servire soprattutto al nostro cammino spirituale. Caso mai possiamo farne altri che possiamo aprire anche agli esterni”

Matteo: “Ma se facciamo già fatica a trovarci noi! Cosa facciamo: raddoppiamo gli incontri?”

Giovanni: “Vabbé, ma magari si tratta di un incontro solo!” 

Claudio: “Secondo me non è solo una questione di quantità, di fare un incontro o farne due. È un problema di proposta. Se gli altri non li tiriamo dentro subito, anche la nostra crescita è un po’ come girare a vuoto, o guardarci in faccia e dirci ‘Guarda come siamo bravi!’”

Matteo: “Secondo me avete ragione tutti e due e avete torto tutti e due” (ride) 

Claudio: “Allora illuminaci!” (ride, ma seccato)

Matteo: “I nostri incontri, secondo me, non sono di crescita, ma di confronto. Vabbé… c’è anche crescita nel confronto, lo so… ma da come la mettete giù, sembra che siamo qui a far scuola. In ogni caso, certo che se invitiamo gente che non è mai venuta prima, le cose saranno un po’ diverse. In questo ha ragione Giovanni. Però, vabbé, se anche sono un po’ strani, mica ci attaccano l’AIDS!” 

Giovanni: “Va bene. Allora sono cavoli tuoi se…” (molto seccato) 

don Marco (interrompendo Giovanni): “Giovanni, dai!” 

Giovanni: “Eh no, don! Sono cavoli di tutti! Tu li conosci quelli di Via XX Settembre ! A loro basta far casino ! A quelli non frega niente, ma stai sicuro che te li trovi tutti qua!”

don Marco: “Va bene. Fermiamo per un attimo i motori!” 

Matteo (quasi sovrapponendosi): “Per me possiamo fare come volete. Non è che…”

Claudio: “Dai Matteo, non è che ‘possiamo fare come volete’! È che forse questa cosa dobbiamo pensarla un po’ meglio. Tutte ‘ste storie sulla evangelizzazione, e poi siamo qui a menarcela perché abbiamo deciso di allargare l’incontro!”

 

Seconda parte

Claudio è uno studente dell’ultimo anno di un ITIS (perito informatico), ha diciannove anni. Ha perso un anno di scuola essendo stato bocciato in IIIa superiore. È il terzo figlio di una famiglia che ha sempre frequentato la parrocchia. Nel confronto individuale si presenta come una persona che sfugge. Non ha mai accolto l’invito ad intraprendere un itinerario di direzione spirituale. E anche quando richiesto esplicitamente non ha dato spiegazioni, limitandosi ad un generico e più volte reiterato “Ci sto pensando…”. Nel confronto informale, a “tu per tu”, se interpellato su questioni spirituali tende a non rispondere; se incalzato tende a rispondere in modo generico, a riportare dati di processo (“prego alla sera”) più che di contenuto (“come prego?”).

Matteo è uno studente del secondo anno di università, ha vent’anni. È il secondo e ultimo figlio di una famiglia che non risiede in parrocchia, ma in un quartiere attiguo. La famiglia di Matteo è di condizioni economiche modeste, ma è riuscita a far studiare entrambi i figli. Il fratello di Matteo si trova al quinto anno di Medicina e Matteo al secondo di Economia e Commercio. 

La madre di Matteo frequenta la messa domenicale, nella parrocchia del proprio quartiere. Il padre e il fratello di Matteo, invece, frequentano la messa saltuariamente e, fondamentalmente, a Natale e a Pasqua. Matteo ha iniziato a frequentare la parrocchia in cui è vicario don Marco, perché un suo compagno delle superiori l’aveva riavvicinato alla fede. Dai tempi della Cresima, infatti, Matteo si era allontanato dalla vita cristiana.

Fin dai primi momenti Matteo ha molto “cercato” di incontrare don Marco in un rapporto individuale. Il confronto fra i due è serrato. Matteo fa molte domande, talora è provocatorio nelle sue osservazioni e nelle sue critiche alla Chiesa, ma accetta anche di buon grado i suggerimenti di don Marco.

Giovanni è uno studente dell’ultimo anno di liceo scientifico, ha diciott’anni. È figlio unico. I suoi genitori l’hanno avuto ad un’età abbastanza avanzata e ora hanno poco meno di sessantanni.

Giovanni si presenta come persona molto “affettiva”. Ha una vita spirituale molto ricca; ne parla e si confronta volentieri con don Marco, con il quale ha una relazione di direzione spirituale che procede con regolarità. Nei colloqui si presenta come persona dalla sensibilità raffinata, capace di cogliere le sfumature della vita, profonda e introspettiva. C’è un po’ di tendenza all’eccessiva rielaborazione e all’inquietudine. Non è assente, però, uno sguardo attento al mondo e alle altre persone.