N.05
Settembre/Ottobre 2004

Il contributo alla pastorale vocazionale dal Congresso Continentale europeo

Vorrei mantenere fede alla consegna: questo contributo alla pastorale vocazionale, a partire dal Congresso Europeo celebrato a Roma nel maggio 1997 (7-10 maggio 1997), viene riproposto nella forma della testimonianza; senza la pretesa dunque di riesprimerne tutti i contenuti, che pure furono straordinariamente doviziosi. Per questi si rimanda agli Atti, e soprattutto al Documento Conclusivo, che peraltro ebbero singolare fortuna in tutte le Chiese del vecchio Continente. Tuttavia, pur dentro il percorso della testimonianza vissuta, due angolature mi sembrano plausibili: la prima è quella di rileggere quell’evento di pastorale europea facendo memoria di alcune attese che hanno attraversato la gioiosa fatica del Congresso; e poi, non meno importante, mi sembra non inutile rileggere le prospettive pastorali maturate, per cogliervi dopo sette anni, l’attualità per la prassi delle nostre Chiese.

La ricchezza degli interventi, il numero dei delegati (253 provenienti da 37 nazioni d’Europa), l’intensità dell’ascolto e del dialogo, il clima di preghiera, la coralità carismatica e ministeriale provenienti dalle diverse Chiese, le rappresentanze ecumeniche dell’Europa cristiana hanno subito creato uno straordinario orizzonte di grazia. Non è mancata l’umile percezione, anche se non sempre dichiarata, di un’altra Europa, diversa da quella dell’economia o delle grandi assise politiche sempre puntuali sulla ribalta dei media. Nell’intenzione del Santo Padre i Congressi continentali sulle vocazioni hanno lo scopo di verificare e di rilanciare le grandi prospettive della profezia conciliare; ma il Congresso Europeo si è innestato su una seconda onda profetica: che è il comune pensare pastorale dentro un orizzonte “Europa”. Al Congresso si è imparato a pensare i problemi in termini europei.

Lo stesso titolo ha anticipato la dinamica ariosa ed impegnativa del Congresso: “Nuove vocazioni per una nuova Europa”. Per dire subito che l’Europa delle vocazioni deve prendere il largo uscendo dagli anfratti da piccolo cabotaggio per guardare al futuro. Pertanto il Congresso non si confronta solo con la profezia del Vaticano II, ma si misura coraggiosamente ed umilmente con le sfide provenienti dal futuro: e ciò sospinti dai comuni problemi, dai percorsi della memoria storica, dall’urgenza di affrontare la comune impresa della nuova evangelizzazione nel Continente dalle antiche comuni radici cristiane, ma attraversato dai venti impietosi del secolarismo gaio.

 

“Abbiamo faticato tutta la notte” (Lc 5, 5)

Il sottotitolo del Congresso ha preso a prestito le parole di Luca in greco e in latino: “In verbo tuo” (Lc 5,5). E così ci siamo subito sentiti interpretati dalle parole di Simone sul lago di Genezaret: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5). Ciò ha significato un’immersione totale nel “realismo dei numeri” e nel “realismo della speranza”. La notte insonne, delusa dalle reti vuote, racconta un segmento non poco significativo della pastorale vocazionale a partire soprattutto dal Concilio Vaticano II. Nelle Chiese d’Occidente furono molti a sperimentare la scoraggiante sproporzione tra fatica profusa e pochezza dei risultati. Così la notte insonne, nelle Chiese d’Oriente, ha portato un’alba smaniosa di prendere il largo, ma ancora incerta sulla direzione da prendere. Insomma la fatica senza incoraggianti risultati, sta sotto gli occhi di tutti: le Chiese d’Occidente e in particolare quella italiana hanno vissuto la fase esperienzialistica della pastorale vocazionale, con una creatività straordinaria, legata alla fantasia e alla generosità di tanti animatori, sacerdoti e consacrati/e.

Pure la teologia delle vocazioni ha fatto passi considerevoli. In molte Chiese si è già andati oltre la frammentarietà delle esperienze per fare dei percorsi più precisi con i giovani attenti al progetto di Dio. Lo stesso magistero episcopale si è non poco concentrato su tale tema così vitale per il futuro delle comunità ecclesiali. E tuttavia sta sotto gli occhi di tutti la scoraggiante oggettività dei numeri, che tratteggia impietosamente la sproporzione tra lavoro e risultato, quale non si verifica in altri ambiti della pastorale della Chiesa.

Tutti i partecipanti avevano sottocchio i diagrammi del recente decennio 1985-1995. A fronte della crescita della popolazione europea del 4,27% il numero dei sacerdoti diocesani e religiosi ha registrato una decrescita del 13%. Il calo numerico delle vocazioni costituiva un fenomeno che attraversava ogni Chiesa, sia sul versante maschile che femminile. Il misurato incremento dei seminaristi maggiori non era tale da pareggiare il venir meno dei presbiteri a causa della morte o delle defezioni. Ancora più preoccupante era il calo numerico delle congregazioni femminili (-25%), soprattutto nei paesi di cultura occidentale. Così l’evidente distanza tra fatiche e risultati, tra impegno pastorale e calo numerico dei chiamati ha provocato nelle Chiese la diffusa patologia della stanchezza e della rassegnazione, soprattutto nei diretti responsabili dell’animazione vocazionale. Tale stato d’animo non ha mancato di affiorare più volte nello stesso Congresso. Insomma l’amara constatazione di Simone sul lago di Galilea – “abbiamo faticato tutta la notte …” – non ha mancato di trovare eco in non pochi partecipanti, soprattutto provenienti da certi paesi del Continente.

 

“In verbo tuo” (Lc 5,5)

Tuttavia, già in fase di preparazione, si è cercato di interpretare l’impeto di Simone: “Ma sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5). Pertanto la domanda che ha subito attraversato la fase vigilare ha riguardato gli obiettivi del Congresso: “Come e dove prendere il largo per gettare le reti?”. Anzitutto nella direzione veritativa della vocazione, nella prospettiva ecclesiologica del Concilio Vaticano II. Le vocazioni non sono periferiche o pleonastiche nella Chiesa-mistero, ma ne esprimono il volto entro l’orizzonte della comunione, della ministerialità e della missione.

Il secondo obiettivo fu subito identificato nel clima di grazia del Congresso stesso: le Chiese sorelle erano chiamate a vivere la ricchezza irripetibile dello scambio dei doni o comunque delle diverse esperienze pastorali in rapporto a questo delicato capitolo delle vocazioni. E naturalmente oltre lo scambio si è avvertito subito l’esigenza di motivare per le Chiese il passaggio dalle esperienze straordinarie in campo vocazionale ai cammini ordinari. La pastorale vocazionale non è marginale né occasionale, ma urge a diventare cammino nei solchi della pastorale ordinaria delle comunità cristiane.

Ma soprattutto si è ravvisato nella speranza non solo il clima che avrebbe dovuto connotare la celebrazione del Congresso, ma l’obiettivo dello stesso convenire. Si trattava di rigenerare la speranza per ripartire come Simone: la notte è andata male, “ma sulla tua parola …” ritorna l’aurora, la voglia di futuro. E così la speranza, durante il Congresso, è uscita fortemente rimotivata; soprattutto guardando realisticamente dentro l’orizzonte del mondo interiore dei giovani pure attraversati dal vento del secolarismo e da forti folate di nichilismo. La speranza dunque non è miope: essa sa bene di essere chiamata a vivere in una cultura – soprattutto quella occidentale – dell’“uomo senza vocazione” (Nuove vocazioni per una nuova Europa 11); sa bene che “la complessità e il soggettivismo possono rendere arduo l’orientamento della libertà dei giovani verso Gesù Cristo” (Messaggio per le comunità ecclesiali 3).

Ma la speranza è pure consapevole che i giovani d’Europa sono “portatori di grandi valori” e “non mancano serie nostalgie di Dio e chiari segni dell’azione dello Spirito”; la stessa “struttura antropologica aperta alla trascendenza può essere disturbata ma non distrutta”. E soprattutto la speranza “si fonda sulla certezza che in ogni vocazione c’è un primato assoluto e efficace di Dio, il quale è all’opera anche in tempi difficili e resta il Signore della vita e della storia” (Messaggio per le comunità ecclesiali 3). Insomma la speranza si fonda sul realismo della notte, ma anche sul realismo di un nuovo giorno che prende l’abbrivo su una parola forte, creativa e rigeneratrice: “In verbo tuo” (Lc 5,5).

 

Consapevolezze condivise: nelle vocazioni il destino futuro delle Chiese

Pure alcune consapevolezze condivise hanno attraversato la riflessione e le esperienze dei partecipanti. La pastorale vocazionale non figura come un capitolo tra gli altri, ma una sorta di cartina di tornasole della bontà dell’impianto pastorale di una comunità. Certamente è l’impegno più arduo che chiama in causa tutte le componenti di una Chiesa e la motivazione è riemersa continuamente: fare pastorale vocazionale non significa coinvolgere le persone “ad tempus” per fare qualcosa in ambito ecclesiale (come nella esperienza di catechesi, di animazione o di volontariato). Si tratta invece di coinvolgere la vita nella prospettiva di scelte che durano per sempre .

Le chiamate di Dio coinvolgono alla radice la libertà delle persone e dei giovani in particolare; e si scontrano con la cultura gravemente allergica con tutto ciò che ha il sapore del definitivo, del sempre, del “dare tutto”. Entrare nel rapporto tra “chiamata di Dio e risposta libera” con l’arte del discernimento paziente ed oculato non è prassi diffusa né facile. Il triangolo tra Dio chiamante, persona chiamata e presenza educativa non è facilmente componibile: è in gioco la libertà dell’uomo in una decisione che scrive il destino di una esistenza per sempre. Forse sta qui soprattutto la fatica della pastorale vocazionale: essa impegna l’essere delle persone, non il suo fare contingente e provvisorio. E così troppo spesso la pastorale vocazionale passa ai margini della comunità attraverso perduranti meccanismi di delega o di rimozione, perché è l’ambito più difficile della prassi pastorale, e forse il meno gratificante perché il più povero di risultati.

D’altra parte il Congresso ha identificato nella pastorale vocazionale la prospettiva unificante, il DNA di tutta la pastorale. Fare pastorale significa “fare” dei cristiani e cristiani si diventa non attraverso l’adesione ad un codice etico, bensì attraverso un incontro, l’unico che fa “essere di più”. Pensare la pastorale, in prospettiva vocazionale, significa che il binomio “vocazione e missione” è strutturale alla formazione della vita teologale dei credenti in Cristo. Pertanto la pastorale vocazionale non è un ambito accanto agli altri; bensì una dimensione trasversale di ogni settore pastorale. Ogni ministero educativo nella comunità è nativamente vocazionale perché, in definitiva l’arte del fare pastorale consiste nel creare tutte le mediazioni utili per fare incontrare i giovani con il Signore Gesù, il modello dell’obbedienza al Padre.

Anche per questo fu palpabile la consapevolezza che il lavorare per le vocazioni significa, più che in altri ambiti della vita ecclesiale, accompagnare una svolta culturale che porta a immaginare il volto futuro delle nostre comunità: certamente meno clericale e più ministeriale, in cui i doni vocazionali, più densi di carismaticità, saranno chiamati ad essere segni più nitidi del mistero di Dio. La pedagogia delle vocazioni non deve solo provocare le Chiese a riorganizzarsi sul territorio. Non ci sono dubbi al riguardo: la storia sta a ricordare la singolare duttilità delle comunità ecclesiali nel riorganizzarsi a seconda delle esigenze indotte dalle svolte storico-culturali. Si pensi ad esempio la bimillenaria evoluzione della comunità parrocchiale attraverso le diverse stagioni della storia. La pedagogia dei doni che disegneranno il volto delle Chiese deve mirare alla trasparenza dicente dei segni, in modo che la vita sia testimonianza di un preciso progetto di Dio. E la stessa comunità cristiana, al di là della sua risistemazione organizzativa, dovrà essere una vera “comunità dei volti”, perché “ci sono molti doni, ma uno solo è lo Spirito” (1Cor 12,4).

 

 

I quattro punti cardinali della pastorale vocazionale

Lo sguardo costante sul mondo giovanile

Tra il realismo dei numeri che sembra favorire il disarmo e il realismo della fede che giustifica la speranza, il Congresso ha vissuto il “realismo del discernimento” sulla geografia vocazionale dell’Europa. Ciò ha significato una lettura perspicace della cultura egemone nel mondo giovanile in rapporto alla progettualità della vita. È parso subito difficile definire “in modo univoco e statico la situazione europea sul piano della condizione giovanile e degli inevitabili riflessi vocazionali” (NVNE 11). È un’Europa diversificata quella che si staglia alla vigilia del III millennio, non solo dal punto di vista storico-politico (Est-Ovest), non solo per le diverse tradizioni e culture (greco-latina, anglosassone e slava), ma per le risultanze culturali sul piano giovanile; nonché per le persistenti e drammatiche crisi sul piano vocazionale in molte Chiese dell’Occidente; ma insieme anche per i segnali incoraggianti di fioritura nelle Chiese d’Oriente o per la timida ripresa in talune Chiese di Occidente ostinatamente fedeli ad un lavoro intelligente avviato nella immediata stagione post-conciliare.

Lo sguardo del discernimento si è rivolto ai giovani di Europa, perché questo è un punto cardinale da non perdere mai di vista: sia da parte delle comunità cristiane e sia da parte degli educatori. Soprattutto oggi in cui la metamorfosi del mondo giovanile è rapida. Ci vuole poco infatti per trovarsi a-sintonizzati rispetto alle generazioni che si susseguono. Tra “rivendicazione della soggettività e il desiderio di libertà” (NVNE 11), nel pantheon creato dal secolarismo gaio, sembra egemone il modello antropologico dell’uomo “senza vocazione” e pertanto privo di un senso trascendente per la vita. È fuori dubbio che l’Europa attraversata dalla cultura antivocazionale pone soprattutto due istanze: da una parte l’urgenza di una nuova evangelizzazione e dall’altra l’urgenza del “discernimento” come atteggiamento positivo di fronte alla storia. Sulla necessità di un nuovo annuncio del Vangelo il Congresso è stato esplicito, sino a dichiarare che “la vocazione è il cuore stesso della nuova evangelizzazione alla soglia del terzo millennio” (NVNE 12). Annunciare la vita come vocazione significa affrancare l’uomo dalla cultura dell’immanenza e liberare i giovani da una condizione di orfanezza, per aiutarli a scoprire che la vita ritrova il senso più alto in una esperienza responsoriale ed irripetibile. Il Vangelo della vita come vocazione passa naturalmente attraverso la strada maestra della santità come vocazione universale, radicata nella identità battesimale.

Non meno, la fenomenologia complessa e diversificata dalla cultura europea pone l’esigenza del discernimento come atteggiamento critico-evangelico sulla storia e sulla geografia d’Europa. In verità il Congresso è stato ampiamente perspicace nel disegnare l’orizzonte oggettivo della cultura giovanile europea; un po’ sfumato nell’indicare uno sguardo positivo di fronte alle patologie inquietanti e ai segnali di novità del vecchio Continente. Pertanto la speranza non viene incoraggiata soltanto dai segnali positivi e dalla certezza che Dio è all’opera anche nella storia salvifica del terzo millennio; la speranza è un dono, ma insieme vita teologale, sguardo positivo sulla storia. Forse la messa a fuoco dei criteri di giudizio sull’oggi dell’Europa, oltre la puntuale fenomenologia della cultura antivocazionale, avrebbe più efficacemente tonificato l’atteggiamento di tanti operatori pastorali. Senza dimenticare la diffusa tendenza delle comunità cristiane ad una certa fatica a riconoscere i segnali positivi della storia e a una certa esasperazione del negativo, che di solito ingenera pessimismo, scetticismo e persino depressione. Il problema “speranza” oggi chiede uno sguardo positivo, teologale, per saper vedere alla luce della parola di Dio, illuminato dallo Spirito, il nuovo che germoglia sotto il cascame del bosco.

 

Cristo progetto dell’uomo

Il secondo punto cardinale per orientare e incoraggiare la crescita di una cultura vocazionale nel vecchio Continente è il kerigma, l’annuncio di Cristo come l’unico vero uomo nuovo, “il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). C’è infatti un’idea strategica sotto l’impianto teologico della pastorale delle vocazioni: dire soprattutto ai giovani la necessità assoluta di Dio perché l’uomo sia veramente e pienamente uomo. Perdura infatti un pregiudizio culturale nel secolo XX, il secolo dell’uomo, che costituisce l’onda lunga delle filosofie dominanti nel secolo XIX: dire di sì a Dio significherebbe dire di no all’uomo; Dio sarebbe la negazione, il limite della progettualità antropologica.

Al contrario, la teologia focalizza la vocazione come vero orizzonte antropologico per arrivare ad affermare la “cristologia a fondamento di ogni antropologia ed ecclesiologia” perché “Cristo è progetto dell’uomo” (NVNE 15). La chiave cristologica apre l’orizzonte dell’uomo sul mistero trinitario: sul Padre, che chiama alla vita evocando l’amore gratuito come vocazione di ogni uomo; sul Figlio, che chiama alla sequela evocando l’amore come dono della vita; sullo Spirito Santo, che chiama alla testimonianza evocando la santità come vocazione universale. Ma insieme, la chiave cristologica apre sullo stesso mistero della comunità ecclesiale; in essa la vita di ogni uomo assume una struttura vocazionale in cui i molti doni si configurano come “chiamata e risposta”. La Chiesa diventa così la madre delle vocazioni.

Di qui il necessario e corretto “rapporto” tra ministero ordinato, vocazione di speciale consacrazione e tutte le altre vocazioni”; “Di qui la traduzione pastorale: il ministero ordinato per tutte le vocazioni e tutte le vocazioni per il ministero ordinato nella reciprocità della comunione” (NVNE 22). L’attenzione di tutta la comunità al ministero ordinato non è pertanto giustificata dalla crisi contingente, ma dalla natura stessa del ministero come la “prima modalità” di annuncio del Vangelo e come ministero necessario all’esserci della comunità attraverso la celebrazione dell’Eucaristia. D’altra parte la cura delle vocazioni da parte del ministro ordinato è richiesta dalla natura stessa della comunità come comunità dei doni, con particolare attenzione a quei segni vocazionali (vocazione monastica e vocazioni consacrate nella vita apostolica) che incarnano la profezia della Chiesa nella storia.

Forse il Congresso non ha detto molto di inedito sul versante della teologia della vocazione: ma certamente ha focalizzato due sinergie. Una verticale: l’uomo realizza pienamente la propria esistenza aprendosi verso la chiamata con una risposta personale e indelegabile. Il dinamismo dell’inquietudine antropologica si placa solo in Dio. La seconda sinergia è quella orizzontale, nella comunità ecclesiale, in cui ogni vocazione è solo segno di un aspetto del mistero di Cristo e pertanto si apre agli altri in un rapporto di “relatività” e di “necessità” nella reciprocità della comunione. Ogni vocazione è relativa perché esprime solo un aspetto del mistero di Cristo; ma è anche necessaria, perché ciascuna con l’altra, dice la totalità del corpo di Cristo “imago Patris”.

 

Il primato della comunità cristiana

Due domande sembrano aver orientato l’affermazione del primato della comunità cristiana come “comunità dei volti”, come comunità vocazionale e ministeriale. Una di carattere teologico: “Dove si attua il mistero della Chiesa come mysterium vocationis?”; e l’altra di carattere pastorale: “Dove è pensabile immaginare quel salto di qualità tanto auspicato dall’inizio del Congresso?”. Il Congresso ha in qualche modo anticipato tutta la riflessione successiva sulla parrocchia, emersa sia a livello europeo e sia soprattutto a livello italiano.

È nella parrocchia che la pastorale vocazionale può diventare prospettiva originaria della pastorale in generale; è nella comunità cristiana che assume concretezza la sfida di “vocazionalizzare” tutta la pastorale, perché l’educazione alla fede sia educazione alla risposta al progetto di Dio su ogni persona; è sempre nella parrocchia che la pastorale vocazionale coinvolge tutti in modo permanente, graduale e progressivo nella costruzione della propria identità davanti a Dio e agli altri.

È soprattutto nella comunità cristiana che la pastorale vocazionale può diventare la prospettiva unificante della pastorale giovanile” (NVNE 26). È nella comunità che si possono disegnare gli “itinerari vocazionali” (parola, liturgia, carità, anno liturgico) capaci di rispettare e stimolare i ritmi di crescita verso una precisa identità cristiana senza stemperare la fede nel ventaglio dei valori.

È nella parrocchia infine, nei solchi vicini e periferici della Chiesa particolare, che si esprimono i “luoghi-segno” della vita-vocazione (le comunità monastiche, religiose, i seminari) e i luoghi pedagogici della fede (i gruppi, i movimenti e le associazioni).

Pensando così alla parrocchia comunità eucaristica e comunità dei battezzati è possibile immaginare in concreto la Chiesa madre che genera i nuovi credenti in Cristo e i chiamati per una nuova Europa. Anzi diventa possibile immaginare il superamento di una prassi vocazionale del reclutamento, della propaganda, per pensarla invece come vero servizio alle persone, come superamento della delega a qualche cireneo itinerante per diventare coscienza educativa di ogni pastore e di ogni formatore nella comunità cristiana.

 

La mediazione educativa

I quattro punti cardinali della pastorale vocazionale emersi con forza nel Congresso sono chiari: l’attenzione all’uomo che vive in un contesto europeo egemonizzato da una antropologia anti-vocazionale; l’attenzione kerigmatica e catechistica a Cristo “cuore” della nuova evangelizzazione; la focalizzazione della comunità cristiana come luogo concreto e icona del “mysterium Trinitatis et ecclesiae”; e finalmente la mediazione educativa.

Anche questa, forse, è una delle novità interpretate incisivamente dal Congresso. Oltre l’analisi e la riflessione teologica, un interrogativo ha attraversato l’incontro europeo: “Che fare, e soprattutto come operare accanto ai giovani per sollecitare maieuticamente in essi le domande cruciali di fronte alla vita? Come fare la proposta vocazionale?”. Di qui la diffusa attenzione al capitolo pedagogico della pastorale che sembra interpretare due esigenze: da una parte richiamare il ruolo decisivo degli educatori in una comunità cristiana che voglia essere una comunità di fede. Sempre nella prospettiva di una pastorale vocazionale ben innestata nel contesto della pastorale giovanile e nel vivo di un processo educativo alla fede matura. Dall’altra tradurre in termini precisi la “pedagogia discendente” di Gesù.

La sequenza dei verbi che prefigurano una presenza educativa oculata accanto ai giovani in ricerca, sembra evocare la stessa pedagogia di Gesù, sempre primo nel chiamare e nel suscitare risposte generose. Non sono i discepoli a scegliere il maestro, ma è Gesù a chiamarli alla sua sequela (Gv 15,16). Anche nella dinamica del desiderio, di una iniziativa apparentemente umana, c’è l’espressione di una risposta. Pertanto la pedagogia della vocazione si scandisce in cinque verbi “seminare – accompagnare – educare – formare – discernere”, tutte espressioni che tratteggiano la dialettica di una pastorale personalizzata, attiva, puntuale, capace di motivare e di incoraggiare risposte autentiche, sintonizzate sulla volontà progettuale di Dio. I cinque verbi dicono che la pedagogia vocazionale non gioca di rimessa, non è lasciata all’iniziativa del desiderio umano; ma chiede di interpretare, attraverso gli educatori e in particolare i sacerdoti, la chiamata di Gesù. Soprattutto laddove emergono nel cuore dei giovani i segni oggettivi che rivelano il codice del mistero di Dio che opera nell’esistenza umana. Perché sta qui l’arte educativa di ogni formatore presente nella comunità cristiana: saper discernere i segni oggettivi nei giovani e saper indicare il Signore stando sullo sfondo. Come Giovanni che sa indicare Gesù ai propri amici: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,36).

 

Dove dunque il salto di qualità?

La domanda era costantemente presente al Congresso: “Quale il salto di qualità nella pastorale delle vocazioni?”. In verità l’interrogativo non è mai andato smarrito pure nell’ascolto di molte esperienze, che talora davano l’impressione di una sorta di collage più che disegnare prospettive concrete di novità pastorale.

La questione del salto di qualità ha trovato eco esplicita nel Messaggio conclusivo per le comunità ecclesiali e sembra riassumibile in tre caratteristiche qualificanti della pastorale stessa delle vocazioni. Indicando la parrocchia come il luogo più naturale e feriale della nuova pastorale delle vocazioni in Europa, si vuole evocare anzitutto la popolarità. L’animazione vocazionale in senso ampio non è un impegno di alcuni cirenei votati ad una fatica spesso deludente, bensì è testimonianza di una comunità viva. La gente deve sapere che le vocazioni non vengono dalla parrocchia accanto, ma sono generate dal proprio grembo attraverso il mistero dello Spirito sempre all’opera nella storia. Di qui la partecipazione non occasionale, da parte di sani e sofferenti, al monastero invisibile della preghiera. Perché la pastorale vocazionale è un problema che deve ritornare nei solchi di ogni parrocchia, ricuperando così la sua indole popolare.

In secondo luogo la pastorale vocazionale è opera corale; e la coralità dice che in una comunità parrocchiale l’apporto alla pastorale vocazionale non è generico e neppure identico in tutti. Se tutti e in particolare i presbiteri e i consacrati devono visibilizzare una testimonianza pasquale e bella della propria identità carismatica, ciascuno svolge in modo originale la propria funzione pedagogica: i genitori sono chiamati a garantire in famiglia un clima positivo di fede capace di favorire la libertà dei figli nelle loro scelte di fronte alla vita; i catechisti sono stimolati a presentare la visione globale della fede non in termini di valori astratti, ma come risposta concreta nel seguire il Signore; i pastori e i consacrati sono chiamati a dare testimonianza discreta e coraggiosa della proposta discendente di Gesù, interpretandone l’iniziativa nel chiamare.

Solo così la coralità della pastorale diventa dinamicamente speculare alla popolarità, sullo sfondo di una comunità orante e consapevole di essere lo specchio della Chiesa “mysterium vocationis”. Naturalmente non può essere taciuta una terza nota: la sua priorità nel cuore della comunità e dei pastori in particolare rispetto a tante cose da fare, pure importanti e utili. Ciò significa mettere al primo posto le persone e la loro formazione nella fede; vuol dire preparare il futuro di una comunità veramente vocazionale e ministeriale per essere missionaria. E il primato dell’intenzionalità vocazionale, quello che entra nei pensieri, nella preghiera e nella pedagogia quotidiana di ogni comunità, non è riservata a qualcuno; ma è impegno di tutti, soprattutto di coloro che hanno compiti o mansioni educative nella comunità parrocchiale; perché la speranza di nuove vocazioni nell’Europa del futuro è affidata alle mani di tutti.