N.01
Gennaio/Febbraio 2005

“Lo riconobbero…”. Dal tempo di Dio al tempo degli uomini

L’episodio dell’apparizione[1] di Gesù Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), per la sua elevata qualità letteraria e la sua densità teologica, appare aperto ad una serie infinita di approfondimenti e di riletture. Esso si presenta come un complesso processo narrativo[2] attivato da Luca, come cercherò di dimostrare in seguito, in funzione catechetica per il suo lettore.

L’incontro è narrato solo in Lc, anche se nella conclusione si accenna ad un’apparizione a Pietro (v. 34, che si ritrova anche in 1Cor 15,5) e una sintesi, presumibilmente posteriore, si ritrova nella cosiddetta finale lunga di Mc (16,12s). Circa l’origine del racconto gli studiosi del metodo storico-critico vedono una forte attività redazionale da parte dell’evangelista sulla base di pochi elementi tradizionali[3]

Entriamo dunque nel racconto, lasciandoci guidare dall’autore nel tracciato[4] che ha sapientemente predisposto per noi.

 

 

 

Un tempo e un luogo

La prima notazione che l’autore ci offre è relativa al tempo dell’evento: “In quel medesimo giorno” (v. 13a). È lo stesso giorno degli avvenimenti sconvolgenti narrati nel contesto antecedente, la visita delle donne al sepolcro (Lc 24,1-12), e seguente (vv. 36-53), ossia l’apparizione agli undici e addirittura l’ascensione (vv. 50-53). L’apparizione ai due si pone dunque al centro degli avvenimenti di una stessa giornata. Quasi una sorta di intermezzo più pacato in mezzo alla tumultuosa sequenza delle vicende di quel giorno fuori dall’ordinario. È il primo giorno dopo il sabato (v. 24,1a), il giorno del pellegrinaggio delle donne alla tomba vuota, della visita di Pietro, “lo stesso giorno”, nella seconda parte della giornata, nel pomeriggio.

L’evento raccontato si colloca dentro un itinerario (“…Erano in cammino verso un villaggio che dista settanta stadi da Gerusalemme di nome Emmaus”, v. 13a; sottolineato dalla forma perifrastica êsan poreuomenoi). 

Gerusalemme è il luogo da cui partono e arrivano i personaggi; ma è anche il punto di arrivo di Gesù, in tutto il vangelo di Lc (a partire da 9,51 l’intera narrazione è scandita da questa direzione di marcia sino al compimento di quella che è definita analêmpsis, “assunzione”, il compimento di tutta l’azione di Gesù. Gerusalemme è, insieme, punto di partenza dell’esperienza del Risorto, ma anche dell’annuncio pasquale.

Emmaus è un villaggio, dice il racconto, distante settanta stadi da Gerusalemme, ossia circa 11 km. Per l’identificazione del luogo sono state avanzate tre ipotesi: Ammaous, l’antica Nicopolis di Eusebio di Cesarea, l’odierna Amwâs, che però si trova a 32 km da Gerusalemme; Ammaous, l’odierna Kolonieh a circa 6,5 km; e Qubeibe a 11 km, in direzione di Lidda (anche se nel nome non vi è traccia dell’etimologia).

Nel mezzo del cammino si svolge l’azione.

 

 

 

Un incontro e un dialogo

Essa consiste in un incontro e dialogo tra due viandanti e Gesù, che resta volutamente in incognito durante il vivace scambio di battute. Luca si rivela abile nel presentarci la trasformazione degli stati d’animo dei due discepoli. Si possono identificare tre tappe di questo processo: prima dell’incontro con lo sconosciuto (vv. 13-14), durante l’incontro (vv. 15-30), dopo l’incontro (vv. 32-35).

 

Prima dell’incontro: Due di loro

Il narratore ci presenta i due personaggi, fornendoci numerose informazioni a loro riguardo:

– la loro identità di discepoli (“due di loro”, v. 13);

– l’essere in cammino, che è metafora per eccellenza in Lc della sequela (cfr. 9,51-19,29);

– il nome di uno dei due, Cleopa[5] (che dovrebbe essere un diminutivo forse del nome greco Kleopatros); è il viandante che risponde alla domanda dello sconosciuto; l’altro, l’anonimo[6], resta difficile da identificare;

– l’attività in cui sono impegnati (al v. 15): una conversazione (alla lettera “si facevano l’omelia l’un l’altro”, va notato che il verbo omileô, si ritrova solo nell’opera lucana: cfr. At 20,11; 24,26) che si fa investigazione (suzetein), tentativo di esaminare per capire;

– il contenuto della loro conversazione (“tutto quello che era successo”), i fatti ultimi.

La caratterizzazione di Luca è chiara. Essi parlano delle loro cose, sono immersi nella discussione sulla tragica fine del loro Maestro. È il ripensare fatti avvenuti da poco (il verbo symbaino indica alla lettera “venire insieme”, ossia accadere: cfr. At 3,10; 20,19; 21,35) e riesaminare la sequenza degli eventi. Essi sono accecati dalle tenebre della cronaca e non riescono a cogliere il senso della storia. Nella morte di Gesù non riesco a vedere che una fine prematura, una sciagura e una battuta di arresto, la fine di progetti umani, troppo umani.

 

Durante l’incontro: la Parola e il gesto

La parte centrale dell’evento è l’incontro tra i due e il terzo pellegrino. Il narratore ci dice subito che si tratta di Gesù in persona (v. 15) che si accosta e si mette a camminare con loro (anche questo verbo symporeumai è carico di una profonda densità simbolica). Ci riesce difficile comprendere perché Gesù non

si faccia riconoscere subito, in modo da dissipare ogni dubbio e mettere in fuga la tristezza dei due. Il mancato riconoscimento del Maestro ha qualcosa di paradossale. Il narratore commenta: “I loro occhi erano impediti dal riconoscerlo” (v. 16). Il lettore si chiede: “Com’è possibile che non lo riconoscano? Dove sta la difficoltà?”.

La finale canonica del vangelo di Mc ci dà forse, nella sua rilettura del presente testo, una spiegazione plausibile quando dice che “apparve sotto altro aspetto” (Mc 16,12). Del resto in tutte le apparizioni la difficoltà del riconoscimento è un topos: per Maria Maddalena, che scambia Gesù con il giardiniere (Gv 20,14s), e per i discepoli sul lago di Tiberiade (Gv 21,4).

Tale motivo si ritrova del resto in alcuni testi della cultura greco-romana[7], ma ha anche nell’AT un suo celebre modello (cfr. Gen 18). L’autore sembra oscillare tra due chiavi di lettura: la difficoltà insita nei discepoli, ma anche, a partire dallo svolgimento del racconto, la volontà del Risorto di restare nascosto. Sembra si tratti di un’ennesima azione educativa del Maestro, una sorta di “parabola in azione”, con la quale provoca i discepoli e li spinge ad uscire allo scoperto, a sciogliere le durezze del proprio cuore. Se Gesù si fosse fatto conoscere subito sarebbe stata un’apparizione gloriosa e fondante la testimonianza dei due, ma non avrebbe sortito altro effetto sul lettore. Egli che vede Gesù agire in modo tale da ritardare il suo riconoscimento, comprende che non è in gioco solo la sua manifestazione, evidente nei racconti che incorniciano la storia di Emmaus, ma la questione della sua presenza viva.

L’incontro si fa dialogo.

I discepoli, incalzati dalla richiesta dello sconosciuto, prima si fermano (cfr. Lc 8,44) con il “volto triste” (v. 17, skytropos: cfr. Gen 40,7; Ne 2,1; Sir 25,23). Luca, come fanno i grandi narratori della tradizione letteraria classica, fa trapelare dall’esterno la loro condizione interiore.

Poi Cleopa manifesta con le parole stupore per il fatto che l’uomo sia all’oscuro degli avvenimenti degli ultimi giorni di cui tanto si parla a Gerusalemme (v. 18); e ne confeziona una sintesi dalla quale emerge la sua comprensione del Maestro: “Ciò che riguarda Gesù di Nazaret” (v. 19): un “Profeta potente in parole e in opere, davanti a Dio e davanti a tutto il popolo” (cfr. 4,36; 6,19; 7,16).

Cleopa, in tal modo, si fa portavoce dell’autore e mostra la sua visione della personalità di Gesù[8]: “profeta” (è un titolo cristologico frequente in Lc), “potente” (dynatos, termine ripreso anche in At 2,22). La definizione richiama quella di Mosè[9]: “parole e opere” stanno a “segni e prodigi”, associati a Mosè (cfr. Dt 34,11); “davanti a Dio” vuol dire in relazione a Lui (come Mosè) e “davanti al popolo” vorrebbe dire agli occhi di Israele (cfr. Dt 34,10-12). Per loro Gesù è il profeta escatologico, il profeta grande suscitato in mezzo al popolo (cfr. Dt 18,15s ripreso anche in At 3,22-33). Ma naturalmente vi aggiunge anche gli avvenimenti della consegna per la condanna a morte da parte dei capi del popolo e dei sommi sacerdoti.

Dopo il resoconto dei fatti, vi è la considerazione personale: “Noi speravamo che fosse lui a liberare[10] Israele …con tutto ciò …son passati tre giorni…”, che lascia trasparire tutta la delusione, cui seguono anche le sconvolgenti notizie recate dalle donne, la visione degli angeli che dicono che egli è vivo; e la verifica fatta da altri discepoli che hanno constato l’assenza del corpo e il sepolcro vuoto. I discepoli nel dialogo con lo sconosciuto manifestano di essere, dunque, privi di speranza, delusi dagli eventi negativi abbattutisi su Gesù, ed increduli, di fronte alle esperienze mattutine delle donne e alla visita dei discepoli al sepolcro vuoto. Il loro cammino da Gerusalemme a Emmaus si palesa anche come un cammino all’indietro: dalla speranza al disancoramento; dalla sequela all’anti-sequela; dalla fede alla incredulità.

Lo sconosciuto da parte sua, comincia già a rivelarsi attraverso le sue parole. Con un attacco deciso rimprovera i discepoli. Li apostrofa come “stolti” (anoetai, termine usato dai filosofi per indicare l’assenza della giusta prospettiva delle cose[11]) e “tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti…” (v. 25). I fatti sono incomprensibili in quanto i discepoli, secondo Gesù, non si lasciano illuminare dalla parola dei profeti. Egli solleva in tal modo gli eventi della cronaca, nel loro crudo e cieco svolgimento, alla luce della rivelazione divina anticipata nei profeti.

Lo sconosciuto che sembrava non conoscere i dettagli della cronaca recente può ben aiutare i due discepoli a comprenderli alla luce del piano divino: “Non bisognava (edei) che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”.

La formula dei si ritrova spesso in Luca per indicare il piano di Dio (2,49; 4,43; 13,14.33; 21,9; 22,37). L’evangelista presenta in tal modo sulla bocca di Gesù l’affermazione che il Messia doveva soffrire, secondo quanto previsto nella Scrittura, con probabile riferimento alla figura del servo sofferente di Is 52-53 e del giusto sofferente[12], riportata nei testi sapienziali e nei Salmi.

Se per i due discepoli Gesù è un profeta come Mosè, per Gesù, sia pure in incognito, è il Cristo, Messia sofferente e glorioso. Gesù si presenta, dunque, come il Cristo e, a sostegno di questa auto-rivelazione nascosta interpreta (diermeneuô) le Scritture, “cominciando da Mosè e da tutti i Profeti[13], che si riferiscono a Lui (v. 27). Gesù-Risorto offre lo schema di matrice biblica (rifiuto/accettazione) con cui interpretare il suo mistero, consegna idealmente alla sua Chiesa la chiave cristologica per aprire il senso delle Scritture.

Il viaggio giunge alla meta. Il pellegrino mostra di voler proseguire il cammino, ma con gesto ordinario di ospitalità, i due discepoli lo invitano a restare perché la notte è vicina (v. 29). Camminare in una strada della Palestina nella stagione in cui fa subito notte è rischioso. L’invocazione dei due è rivolta ad uno sconosciuto, ma il lettore coglie in trasparenza la supplica della comunità dei discepoli che chiede al suo Signore di non abbandonarla nella notte del mondo.

Gesù, non ancora riconosciuto, accoglie l’invito e il narratore commenta con evidente allusione: “Egli entrò per rimanere con loro” (v. 29c) e si mette a tavola (il verbo è kataklinô, v. 30, alla lettera “mentre era adagiato con loro”). Come nella tradizione ebraica introduce il pranzo: “…prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo dava loro”. La successione delle parole è stilizzata eucaristicamente, si ritrova infatti sia nella moltiplicazione dei pani (cfr. 9,16); che nell’ultima cena (Lc 2,19); l’unica differenza è nel fatto che mentre in 9,16 il termine usato è eulogeo, in 11,19 abbiamo appunto eucharisteo. Per la consegna varia anche il termine dall’imperfetto all’aoristo nei primi due racconti, qui invece si riscontra una forma composta epididomi, col significato di “consegnare” al tempo imperfetto (4,17; 11,11s), che indica un’azione che si prolunga nel tempo.

Il narratore lavora su due piani: quello interno alla storia e quello del dialogo con il lettore. Il gesto dello spezzare il pane (di per sé ordinario), l’accuratezza dei termini usati e il ritmo scandito delle azioni, infine l’espressione klasis tou artou tipica della descrizione della celebrazione eucaristica anche (cfr. At 2,42 per il pasto rituale, e in 2,46; 20,7.11; 27,35), la collocazione al termine del giorno (come in At 20,8 “alla luce delle lampade”) riescono a trasmettere la natura eucaristica dell’evento. Luca vuole comunicare, senza ombra di dubbio, al lettore che si tratta di una presenza del Risorto connessa con il pasto eucaristico. Non a caso in concomitanza con il gesto dello spezzare il pane si aprono gli occhi di Cleopa e dell’altro discepolo (dienoichtesan, alla lettera “furono aperti a loro gli occhi”, è chiaramente un passivo teologico), per indicare che viene da Dio[14] questa possibilità di riconoscimento del Risorto, così come quella della rivelazione ai piccoli del mistero di Dio di cui si parla altrove nel vangelo di Luca (cfr. 8,10; 10,21).

E l’evangelista aggiunge: “…lo riconobbero”. Non si tratta solo di vedere, ma di riconoscere (epiginosko). Non è il gesto eucaristico che ha reso possibile il riconoscimento per i due discepoli di Gesù Risorto: è un intervento divino. Ma il Risorto, caratterizzato dalla condizione propria di un essere celeste, “divenne invisibile per loro” (v. 31b). Non viene detto, in tal modo, che scompare come un fantasma, ma da presente visibile, anche se nascosto, si trasforma in in-visibile.

 

Dopo l’incontro: l’apertura dei testi e degli occhi

L’atteggiamento dei discepoli, dopo l’esperienza singolare dell’apparizione, è espresso attraverso le loro stesse parole nella forma della domanda retorica: “Non ardeva (kaiomene) forse il nostro cuore dentro di noi quando ci spiegava le Scritture?” (v. 32).

Il termine “ardere”, nonostante alcuni manoscritti latini preferiscano versioni diverse, vuole indicare, come nella tradizione greca[15], un’emozione forte come quella connessa con l’amore. Il verbo usato per la spiegazione (dianoigo) esplicita proprio l’apertura dei testi, che fa da pendant a quella degli occhi del v. 31. Il messaggio è chiaro: le Scritture si aprono, si comprendono quando si leggono messianicamente in relazione con Gesù, gli occhi si aprono quando, illuminati dalla parola, possono riconoscerlo nello spezzare del Pane.

La reazione a questa esperienza da parte dei due viandanti è la corsa verso la comunicazione della medesima alla comunità tutta radunata con Pietro (vv. 33-35). Essi arrivano trafelati a Gerusalemme e confessano che “Davvero il Signore è risorto!” (v. 37). La risurrezione, che era stata dai due messa in dubbio, considerata un vaneggiamento delle donne (24,11) o una semplice diceria (24,23), viene ora attestata come vera da parte della comunità ecclesiale (24,34) e si fa racconto testimoniale (il verbo exegeomai: cfr. At 10,8; 15,12.14; 21,19 è complementare di diegeomai: 1,1; 8,39; 9,10; At 12,17).

 

 

 

Il percorso dei personaggi e del lettore

I tre personaggi ed infine anche il lettore, attraverso la lettura del testo, compiono un percorso di trasformazione.

 

Il percorso dei personaggi nel racconto

Il protagonista del racconto è Gesù che è l’oggetto e, insieme, il soggetto del riconoscimento, colui che lo provoca e lo rende possibile, guidando i discepoli nella comprensione del suo mistero. I discepoli sono chiamati a porre in atto tale riconoscimento di Gesù Risorto. Ma anche il lettore è chiamato ad operare il riconoscimento della fondatezza della sua fede in Gesù, in particolare della fede nella risurrezione, che nei precedenti due episodi era stata solo annunciata, ma non ancora confermata dalla presenza viva del Risorto.

I personaggi del racconto non a caso sono tutti in cammino, metafora del percorso e della gradualità dello stesso riconoscimento. 

Il cammino di Gesù è “rivelativo”: da assente nella persona, ma presente nei discorsi dei due, si fa presente di persona, poi assente fisicamente, infine presente nella Parola e nel Pane spezzato. Il cammino dei discepoli è un itinerario di maturazione nella fede: da increduli a testimoni della risurrezione. È un percorso che va dalla chiusura degli occhi all’apertura. La trasformazione è evidente sul piano visivo: al v. 16 Luca commenta: “I loro occhi erano trattenuti dal riconoscerlo (ekratounto)”; al v. 31: “I loro occhi furono aperti e lo riconobbero”. Si tratta di due passivi teologici che chiamano in causa l’opera divina. Per effetto di essa Cleopa e compagno passano dalla cecità, per la quale forse non hanno riconosciuto nel viandante Gesù, ad una chiara visione cristologica. Per realizzare tale maturazione nella comprensione del mistero del Crocifisso è intervenuto lo stesso Gesù attraverso due azioni di spiegazione delle Scritture e di apertura delle menti all’intelligenza di esse[16]. Le Scritture in sé non sono a prima vista intelligibili, hanno bisogno di essere esplicitate. Interessante è notare da questo punto di vista che il Risorto non spiega le Scritture con riferimento a qualche passo in particolare, ma attraverso il ricorso alla Scrittura nel suo insieme. Da questo punto di vista non appare scontato ipotizzare come alcuni studiosi hanno fatto che sia la fede nella risurrezione, evocata già nell’espressione “lenti a credere alla parola dei profeti”, il requisito previo ed imprescindibile alla comprensione delle Scritture. Gesù, del resto, non ha offerto prove particolari, non ha fornito dimostrazioni, ha soltanto richiamato la capacità di affidarsi alle profezie e credere alla loro effettiva possibilità di realizzazione.

All’evangelista del resto non sta a cuore dare delle precise indicazioni sulla modalità di questa operazione da parte del Risorto, quanto sulla fede donata per poter cogliere le connessioni tra la profezia e il compimento di essa[17]. L’apertura degli occhi di fatto si concretizza nel momento dello spezzare del pane. Viene da chiedersi: cosa vedono i discepoli nel pane spezzato? Un rito familiare, un rito che ha conservato il simbolismo della morte evidente nel frangere il pane (momento negativo) ed anche quello della risurrezione nell’aspetto della riunione dei frammenti[18] (momento positivo)?

Ma è anche un percorso ecclesiale in quanto va dalla disgiunzione da Gerusalemme, dal raduno della comunità ecclesiale, alla comunione ritrovata[19], nel cui seno scaturisce la confessione pasquale.

 

Il percorso del lettore attraverso il racconto

Il lettore, informato di tanti elementi dal narratore-Luca, ma anche tenuto con il fiato sospeso (suspence)[20], per poter comprendere se e come il Risorto si farà riconoscere dai suoi interlocutori, viene naturalmente condotto ad identificarsi con i due discepoli. È chiamato a passare anche lui dal dubbio alla confessione di fede. La formula che si ritrova al termine del racconto è veridizionale (somiglia anche dal punto di vista strutturale a quella del centurione sotto la croce: cfr. Lc 23,47; il termine ontos ricorre in questi due soli casi in Lc).

Il lettore è chiamato a portare alle estreme conseguenze, in questo testo quasi alla fine del vangelo, il riconoscimento programmaticamente indicato dal narratore nel prologo. Per Luca, infatti, la funzione del racconto di Luca (diegesis) è quella di aiutare Teofilo, il suo reale o immaginario destinatario, in cui tutti i lettori di ieri e di oggi possono immedesimarsi, a riconoscere (epignos v. 1,4) la solidità degli insegnamenti ricevuti. Il racconto lucano è, per l’appunto, gnoseologico[21], nel senso che i personaggi e il lettore sono impegnati in un riconoscimento di Gesù, determinato dalla sua rivelazione progressiva di profeta e messia, rafforzata dalle analessi bibliche, e culminante nel racconto della passione e morte. Non solo dunque i discepoli, dentro il racconto, ma ancor più il lettore, che sin dall’inizio dell’episodio sa che lo sconosciuto è Gesù, riconosce il Risorto nell’evento testimoniale del passato a partire dal presente della sua dimensione ecclesiale.

Anche a lui brucia il cuore e si aprono gli occhi nell’incontro con la Parola e il Pane spezzato. Il riconoscimento avviene attraverso il confronto con i due motivi della storia: la spiegazione delle Scritture (24,32; 24,25-27) e lo spezzare il pane (24,35). Nella stessa opera lucana[22], non a caso una descrizione della cena, a Troade (cfr. At 20,7-11) ripropone tutti gli elementi eucaristici presenti nel nostro racconto: il giorno (il primo della settimana); l’ora (al termine della giornata); i gesti di Gesù (in particolare lo spezzare del pane anche per Paolo) ed anche la connessione con il simbolismo di morte e risurrezione (nel risuscitamento di Eutico).

Il pasto consumato quella sera dai discepoli del Signore, per quanto sobrio di vivande, nonostante le riletture pittoriche abbondanti (penso alle mense caravaggesche) è di fatto un pasto con il Risorto, che, da una parte per i destinatari giudeo-cristiani sottolinea la corporeità della risurrezione, dall’altra la realtà stessa del corpo risorto, condiviso dai suoi. Il racconto di un pasto con il Risorto esprime in modo eziologico la natura dell’Eucaristia: “La presenza del Risorto attraversa questo pane, e il pasto cristiano resta eminentemente nello sviluppo e nella discendenza di questi pasti di risurrezione”[23].

Il lettore comprende che ogni volta che si celebra l’Eucaristia (Parola e pane spezzato), in modo tale che l’ordine dei gesti corrisponda alla sequenza di quella sera (lo stesso ordine della Didaché 14,1), si rinnova la presenza viva del Risorto. Alla conferma interna alla storia dell’identità di Gesù, come Messia sofferente e risorto glorioso, avvenuta il primo giorno dopo il sabato e il terzo giorno dalla morte, si associa quella “sacramentale” ed ecclesiologica del Risorto presente, attraverso la Parola e il Pane, nella comunità radunata nel giorno del Signore.

Il tema del movimento, del cammino, da cui siamo partiti, che attraversa tutta la storia, è una modalità simbolica con cui il narratore guida anche il lettore in una sorta di viaggio che è anche interiore, che lo coinvolge nella sua profonda struttura antropologica, gioca sulle due metafore conoscitive della vista (simbolismo che ritorna del resto in tutta l’opera lucana[24]), che pone l’accento sull’immediatezza; e del cuore che brucia (v. 24,31) all’ascolto della Scrittura spiegata dal Risorto, evidenziante l’aspetto complementare della gradualità nella medesima esperienza di relazione con il Vivente.

 

 

 

Il tempo della storia e il tempo del racconto: Nel giorno del Signore i tuoi giorni

A conclusione un’ultima sottolineatura, che rende ragione anche della scelta del testo come icona biblica di riferimento della 42ª GMPV e dello slogan che l’accompagna. Le molteplici connessioni temporali presenti nel racconto enfatizzano il ruolo del tempo. Il termine giorno, come si è visto, ricorre:

– una prima volta per dire il giorno dell’episodio (“nello stesso giorno”, 24,13);

– una seconda volta per dire la collocazione degli avvenimenti (“in questi giorni”, 24,18);

– una terza volta con un segnale teologico più marcato (“il terzo giorno”, 24,21) per indicare il tempo trascorso dalla morte di Gesù;

– la quarta volta, infine per dire che “il giorno è già declinato” (24,23).

Il primo dopo il sabato, il terzo giorno, il giorno della Risurrezione di Gesù, diventa sempre più il giorno dell’Eucaristia (At 20,7), il giorno del Signore (cfr. Ap 1,10). È un tempo cronologico, tempo delle attese di Cleopa e dell’altro discepolo, tempo delle aspirazioni umane di riscatto, che diventa tempo, nell’ermeneutica di Gesù, per la manifestazione del piano di Dio nella storia attraverso la persona del Messia crocifisso e risorto.

Il giorno del Signore, ci dice il racconto di Emmaus, è giorno in cui ascoltare la Parola e contemplare il Pane con cui Egli, vivo, apre all’incontro con la speranza la vita di un giovane alla ricerca del compimento delle sue attese. A differenza dei racconti, precedente e seguente, cui si è già fatto cenno, ove tutto è raccontato con una cifra sintetica e in un certo senso il tempo del racconto era in equilibrio con quello della storia, qui invece tutto è descritto nei particolari, con molte pause in cui il narratore commenta circa i personaggi. Il tempo è rallentato. Tutti gli altri eventi “pasquali” sono come sospesi da quest’episodio posto nel bel mezzo come una sorta di passaggio all’interno del cap. 24. Si tratta come di una sosta temporale per riflettere, per ripensare l’annuncio della risurrezione, per riflettere, per “aprire gli occhi”. Il ritmo, dolce e pacato, quantunque pervaso da una sottile trepidazione, aiuta la contemplazione, l’esperienza con la quale ognuno di noi può percepire che il suo tempo, i suoi giorni, entrano nel giorno del Signore e la nostra notte è gradualmente invasa dalla luce della sua Presenza.

 

 

 

Note

[1] B. PRETE, Il racconto dei discepoli di Emmaus e le sue prospettive eucaristiche (Lc 24,13-45), in IDEM, L’opera di Luca. Contenuti e prospettive, Elle Di Ci, Leumann – Torino 1986, 307-327, lo considera tra i diversi tipi di apparizioni del Risorto (di riconoscimento, di mandato, d’insegnamento o didattiche), dell’ultimo tipo ossia didattica.

[2] Cfr. J.-N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991, 151-169; L. T. JOHNSON, Il Vangelo di Luca, Elledici, Torino 2004, 351s.

[3] Per una ricognizione delle diverse interpretazioni: rimando al testo, anche se datato, ben documentato: J. DUPONT, Disciples d’Emmaüs (Lc 24,13-35), in La Pâque du Christ, Mystère du salut. Mélanges offerts au Père François-Xavier Durrwell pour son soixante-dixième anniversaire avec un témoignage du jubilaire, Cerf, Paris 1982, 167-195.

[4] Evito di proposito strutturazioni di tipo concentrico: cfr. F. ROSSEAU, Un phénomène particulier dans Luc 24,13-15, in SR 18 (1989) 67-79; V. M. WILSON, Divine Symmetries. The Art of Biblical Rethoric, University Press of America, Lanham 1997, 50s.

[5] Cleopa potrebbe essere lo zio di Gesù, fratello di Giuseppe, Cleopa secondo quanto riporta EUSEBIO, Historia Ecclesiastica 3,11.

[6] C’è chi ha avanzato l’ipotesi che sia la moglie: forse Maria di Cleofa (cfr. Gv 19,25) o una delle altre donne incluse in Lc 24,10.

[7] Cfr. OVIDIO, Metamorfosi 14,805-851; T. LIVIO, Storie 1,16; FILOSTRATO, Vita di Apollonio 8,11s.

[8] Analoga presentazione si ritrova in At 7,22.

[9] Cfr. R. O’ TOOLE, Luke’s Presentation of Jesus: A Christology (Subsidia Biblica 25), Pontificio Istituto Biblico, Roma 2004, 35-42.

[10] Il verbo lytromai descrive l’aspettativa di redenzione di Israele, forse in una linea nazionalistica e politica, come in At 1,6.

[11] Cfr. FILOSTRATO, Vita di Apollonio di Tiana 8,7; GIUSEPPE FLAVIO, Contro Apione 2,255; ma anche Rm 1,14; Gal 3,1.3; 1Tm 6,9; Tt 3,3.

[12] Cfr. P. DOBLE, The Paradox of Salvation. Luke’s Theology of the Cross, University Press, Cambridge 1996.

[13] Una formula ben nota: cfr. 1QS 1,3; 4QDib.Ham 3,12s; Lc 16,16.29.31; At 24,14; 26,22; 28,23.

[14] Cfr. I.H. MARSHALL, The Gospel of Luke, Paternoster – Eerdmans, Exeter – Grand Rapids 1978, 898.

[15] Cfr. PLATONE, Leggi 783a.

[16] Cfr. B. MAGGIONI, I due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35), in R. FABRIS (a cura di), Initium Sapientiae. Scritti in onore di Franco Festorazzi nel suo 70º compleanno, EDB, Bologna 2000, 263-270, in particolare 263.

[17] Cfr. B. PRETE, Aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture (Lc 24,45), in G. LEONARDI – F.G. B. TROLESE, San Luca evangelista testimone della fede che unisce, Istituto per la Storia Ecclesiastica Padovana, Padova 2002, 2, 461-475.

[18] Cfr. J. TAYLOR, La fraction du pain en Luc-Actes, in J. VERHEYDEN, The Unity of Luke-Acts, Leuven University Press and Peeters, Leuven 1999, 281-295.

[19] Cfr. C. GRAPPE, Au croisement des lectures et aux origines du repas communautaire. Le récit des pèlerins d’Emmaüs: Luc 24,13-35, in “ÉTR” 73 (1998) 491-501, in particolare 494; per il quale la disgiunzione e la comunione sarebbero le due categorie che caratterizzano rispettivamente la prima e la seconda parte del racconto.

[20] Per un’analisi delle tensioni del racconto: cfr. S. VAN TILBORG – P. J. E. CHATELION – COUNET, ‘Jesus’ Appearances and Disappearances in Luke 24, E. J. Brill, Leiden 2000, 59-87.

[21] Cfr. ALETTI, L’arte di raccontare, 52.

[22] Su At 20, 7- 11: cfr. E. SALVATORE, Narrare la Chiesa. Scene e Sommari nel libro degli Atti, in A. BARUFFO (a cura di), Sui problemi del metodo in ecclesiologia. In dialogo con Severino Dianich, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 115-138.

[23] Cfr. C. PERROT, L’Eucaristia nel Nuovo Testamento, in Eucaristia. Enciclopedia dell’Eucaristia, Ed. Dehoniane, Bologna 2004, 71-102, in particolare 78.

[24] Cfr. G. MARCONI, La comunicazione visiva nel Vangelo di Luca. Per cogliere il mistero con la vista, Paoline, Milano 1997.