N.04
Luglio/Agosto 2005

Spunti per una prima riflessione sul moltiplicarsi di preti giovani in difficoltà nella diocesi di Verona

Traccia di una relazione presentata e discussa al Consiglio presbiterale diocesano

Una premessa 

Presento, con molta semplicità e senza presumere di aver capito tutti i termini del problema, alcune convinzioni personali frutto dell’ascolto e dell’amicizia con tanti preti che in questi anni hanno attraversato momenti di fatica. Sono anche frutto d’alcuni incontri fatti tra educatori del seminario e con il vescovo, intorno a questo problema. Chiedo, perciò, di prendere questa relazione per quel che è: un contributo personale che ha bisogno di essere integrato e che ha lo scopo di innescare una riflessione comune su una situazione che c’interpella tutti. È d’obbligo, naturalmente, la massima discrezione e riservatezza su ciò che vado dicendo per un rispetto alle persone e alla libertà delle loro decisioni. 

Le fonti cui attingo sono: i 5/6 preti giovani che negli ultimi tre anni hanno lasciato il ministero; altri preti che hanno lasciato in passato; una relazione di Mons. Gian Pietro Mazzoni, Vicario Giudiziale della nostra diocesi, che segue le cause di dispensa dei preti dal ministero; una lettera scritta dai preti giovani al Consiglio presbiterale; una lettera di ex preti al Sinodo diocesano, la discussione che su questo argomento si è affrontata nel Consiglio presbiterale di Verona. La traccia base di questa relazione era stata discussa due anni or sono con gli educatori del seminario, quando ero ancora rettore, ed è stata rivista dall’attuale rettore. Non si tratta di statistiche, d’inchieste o d’interviste; la relazione non ha nessuna pretesa scientifica. È servita a noi per riflettere e discutere sul problema. 

Il testo contiene notevoli ripetizioni e affermazioni scontate. 

Lo presento ugualmente per fedeltà agli stimoli ricevuti. 

 

 

Alcuni dati per la riflessione 

Gli abbandoni 

Nell’immediato post-Concilio, abbiamo vissuto in diocesi una stagione d’abbandoni (una quarantina dagli anni 70 al 97). Ora il problema sembra riapparire, con forme e motivazioni diverse, coinvolgendo anche alcuni preti giovani. Solo negli ultimi 7 anni: 

– 5 preti hanno lasciato il ministero e ottenuto la dispensa dagli ordini sacri;

– 4 hanno lasciato il ministero e sono in attesa della dispensa;

– 7 hanno lasciato il ministero ma non hanno ancora chiesto la dispensa;

– 1 o 2, almeno, sono in fase di ripensamento. Il totale dei preti che hanno lasciato il ministero in questi sette anni è di diciassette; ma il fatto che più impensierisce è l’abbandono avvenuto quasi contemporaneamente di 5/6 preti giovani (un anno o due di Messa) negli ultimi tre anni. Tra le cause degli abbandoni dei preti vi sono: 

– disorientamento d’identità, di ruolo e di ministero;

– situazioni di grave disagio spirituale, umano e sociale;

– disturbi psichici, depressione, omosessualità;

            * situazioni caratteriali d’isolamento, di rottura con la popolazione e con i confratelli; 

            * situazioni d’insoddisfazione a livello pastorale e personale (vi è spesso un senso di solitudine pastorale e di lontananza dei Superiori). 

Questi dati vanno letti nel contesto del presbiterio veronese, 692 preti che vivono in maggioranza con gioia, anche se con fatica, la loro consacrazione e il loro ministero, alcuni anche con traballanti situazioni di salute e d’età. 

17 preti in 7 anni su 700 preti attuali (oltre 800 nel corso dei 7 anni) sono poco più del 2%, ma trattandosi di fratelli preti in sofferenza, sono sempre tantissimi.  Ogni prete che fa la scelta di lasciare il ministero ha una sua storia diversa dalle altre, anche se qualche aspetto risulta piuttosto ricorrente; anche le motivazioni della decisione non sono genericamente riconducibili ad un’unica matrice. Per questo non è facile individuare delle linee interpretative universalmente valide. 

La “fase conclusiva” di una crisi assume generalmente – ma non sempre – la fisionomia di una relazione affettiva con una donna. È l’aspetto di maggiore visibilità e impatto comunitario, ma sarebbe semplicistico ridurre tutto il problema ad un fatto d’innamoramento. Come sarebbe, d’altronde, semplicistico attribuire la responsabilità agli atteggiamenti più disinibiti della donna rispetto al passato anche nel rapporto con il prete. C’è sempre un “prima”, che di solito va colto sia nella fase della formazione seminaristica (e talvolta prima ancora), sia nella fase del ministero vero e proprio. È chiaro che un cuore vuoto va in cerca d’affetto. 

 

 

Segnali di malessere nel presbiterio: una “qualità di vita” percepita come scadente 

Forse il fenomeno degli abbandoni è solo la punta di un disagio più profondo e di una fatica diffusa; ci sono situazioni ripetute di disimpegno pastorale e di stanchezza, di demotivazione e di fughe; in altre parole: ci sono preti che vivono un’insoddisfazione molto pericolosa, pur non arrivando a lasciare il ministero. Alcuni segnali di queste situazioni d’insoddisfazione possono essere: 

– le fughe in gruppi o in atteggiamenti “spiritualisti” e “securizzanti” che offrono appoggio e gratificazione, un “nido caldo”. Queste fughe sono certamente indotte da un bisogno soggettivo ma talvolta anche da una scarsa o inesistente offerta di fraternità da parte del presbiterio… 

               * La tentazione di una fuga dalla pastorale diretta (e ricerca di soluzioni alternative) per la situazione deludente del servizio pastorale, particolarmente da parte dei preti giovani e di mezza età. 

                * La tendenza a vivere la crisi in maniera soggettiva. I preti in crisi, giovani e non, sono riluttanti a farsi aiutare: perché non parlano? A chi si rivolgono? Perché tanta diffidenza verso il Vescovo e i “superiori”? 

 

– Il distacco dall’autorità nella Chiesa, voci critiche e disagio con il vescovo e con “i Superiori”: manca secondo molti un dialogo effettivo e profondo tra vescovo, superiori e singoli preti. Questi preti sentono le indicazioni dei superiori come proposte di un estraneo, calate dall’alto, da chi non li conosce o non vive e discute con loro prima di dare un’indicazione. 

                 * Le indicazioni per un cambio di destinazione, per un servizio diverso alla comunità cristiana, trova spesso fatiche nel prevalere d’inclinazioni o preferenze personali, nella ricerca del proprio benessere, rispetto al servizio, nella ricerca di una sistemazione piuttosto che la disponibilità ad andare là dove il servizio ministeriale richiederebbe, dove il Vescovo propone. Si cerca talvolta più la realizzazione di se stessi o dei propri sogni, più che vivere una piena disponibilità al servizio. 

                 * Le divisioni ideologiche (progressisti e conservatori, fedeli e fantasiosi), i gruppi contrapposti, critici e giudicanti i confratelli, creano divisioni e incomprensioni, difese e pregiudizi, di conseguenza solitudini e ferite.

                * Ecc.

 

 

Alcune notazioni diverse 

– Sempre più grande è la consapevolezza che i preti giovani sono un“prodotto semilavorato” e vanno perciò accompagnati e formati soprattutto durante i primi anni di ministero. I primi parroci devono essere dei veri e propri formatori, dei “tutor” che lavorando direttamente sul campo, sono molto spesso più incisivi degli educatori del seminario. 

– Qualcuno sottolinea la mancanza di uno spazio di tempo adeguato tra il diaconato (e la scelta celibataria connessa) ed il presbiterato; qualche candidato, inoltre, sarebbe ancor troppo giovane per l’ordinazione presbiterale (che talvolta cade a 24 anni, mentre oggi ci si sposa in genere attorno ai 30 anni!). 

– Talvolta manca una verifica approfondita del cammino di fede personale del candidato con conseguente facile perdita di significato (non si capirebbero certe schizofrenie tra vita spirituale, vita morale e comportamento). 

– A livello regionale ed europeo si parla di un 5% dei preti giovani che lasciano per motivi affettivi o d’altro genere, nei primi cinque anni di sacerdozio. 

Anche altre diocesi del Veneto e della Lombardia hanno vissuto e vivono momenti difficili. 

 

 

Cosa dicono di se stessi i preti in difficoltà 

Le note seguenti sono reazioni soggettive e a caldo di persone interessate da situazioni di crisi, di abbandono o di fatica pastorale. Vanno quindi valutate con le attenzioni del caso, tenendo presente che molto spesso i criteri di valutazione della realtà sono radicati più sulla tranquillità psicologica, sulla spontaneità o sul riverbero interiore sentimentale-affettivo-emotivo, che su criteri oggettivi di verità e di autenticità; i giudizi che seguono, inoltre, provengono da preti che in qualche modo hanno necessità di giustificarsi e di giustificare un certo tipo di scelta. 

– Alcuni preti in fatica accusano la mancanza di consapevolezza delle loro scelte durante tutta la vita del seminario: “Non ho mai preso coscienza dei miei sentimenti e non li ho espressi, non sono mai entrato in dialogo profondo con gli educatori e con il Padre Spirituale”. 

– Altri lamentano la giovane età: “Sono stato ordinato troppo giovane, non sapevo che cosa vuol dire celibato, o lo sapevo solo intellettualmente; alcune simpatie non mi avevano permesso di “sperimentare veramente l’amore”. “Ora sono sereno”… 

– Qualcuno è stato bloccato dalle responsabilità, dalle tensioni, da un senso d’inadeguatezza, che in parte era già emerso prima. 

– Qualcuno lamenta la mancanza di spazio e d’attenzione per lo sviluppo di una “umanità normale”, cioè spazio lasciato al singolo per i suoi tempi di ricreazione, di riposo, d’amicizia, per gli hobbies. È, positivamente, la richiesta di un’attenzione maggiore alla persona, al suo “benessere”, alla sua umanità. È, negativamente, una centratura prevalente sulla propria persona rispetto al ministero. 

Altri apporti possono essere attinti dalle riflessioni di mons. Mazzoni, che individua fatiche relative al periodo formativo e difficoltà legate più al momento ministeriale e pastorale. Anche qui vale l’osservazione posta all’inizio del presente paragrafo. 

 

 

Difficoltà riscontrate nel percorso formativo secondo i preti che hanno lasciato 

1 – È sostanzialmente un rilievo condiviso quello di aver dovuto percorrere un itinerario formativo standardizzato e collettivo, con scadenze comuni non sempre coincidenti col cammino di ciascuno. Afferma uno di loro: “Non c’erano motivi plausibili per rinviare le scadenze dei ministeri o la stessa ordinazione diaconale… questo rinvio era sentito come una specie di “bocciatura”, una punizione, un esame mancato, e non come il segno della diversità e originalità per ciascuno del cammino di preparazione al presbiterato”. Un altro ricorda in proposito un episodio: avendo scritto nella lettera al vescovo per l’ammissione al diaconato che non si sentiva ancora del tutto pronto per un passo così importante, gli educatori lo invitarono a cambiare il testo, attribuendo la sua titubanza al panico della vigilia. 

 

2 – Tendenza a sublimare, senza affrontare, i vari problemi e dubbi: “Mesi prima e nelle settimane precedenti l’ordinazione avevo detto ai miei educatori che davanti a me vedevo buio, ma don x. mi ripeteva che davanti a me c’era soltanto Cristo”. Nessuno di noi dubita che ciò sia vero, ma non esiste un automatismo della grazia che possa prescindere da una progressiva e faticosa maturazione umana. 

 

3 – Un terzo aspetto riguarda in modo specifico la formazione all’affettività. Quasi sempre si rileva come questo aspetto avrebbe avuto bisogno di una considerazione ben più approfondita, anche in termini di dinamiche psicologiche, di quanto effettivamente sia avvenuto. Per “affettività” intendo sia l’accettazione di se stessi, la propria identità sessuale e relazionale, la capacità di gestire i propri sentimenti e le proprie reazioni, ecc. Porre questo problema riguarda da un lato la competenza degli educatori nel saper discernere e nel saper orientare queste dinamiche, dall’altro anche la tendenza conseguente ad un certo tipo di spiritualità, orientata a trasferire sul piano ascetico e volontaristico i problemi che invece riguardano la struttura della personalità e le dinamiche dell’affettività. Dice uno di loro: “Al momento di decidere per il diaconato la scelta più impegnativa da fare riguardava il celibato, ero certo consapevole del significato e degli obblighi conseguenti, ma ero troppo innamorato di Cristo e mai ero stato innamorato di una donna; la scelta era quindi tra Qualcuno che conoscevo e una realtà ancora teorica, dato che mi era sconosciuta, pur attirandomi umanamente. Le difficoltà che pur c’erano pensavo che le avrei superate dedicandomi totalmente al Signore e ai fratelli. Guardando le cose retrospettivamente, mi rendo conto che, assorbito com’ero da problemi di fede e di vocazione, avevo lasciato ai margini della mia vita una riflessione seria e una maturazione adeguata circa i problemi affettivi e sessuali, che invece si fecero sentire in modo estremamente intenso successivamente”. 

Quest’ultimo aspetto pone anche in evidenza che, soprattutto chi ha vissuto tutta l’età evolutiva dall’infanzia alla maturità in seminario, sente la mancanza di un incontro col mondo degli affetti così come si vive nella vita reale dei ragazzi e dei giovani, e non solo filtrato da un ambiente più aperto di quello di ieri, ma comunque diverso dalla vita reale dei coetanei. 

“Quegli anni li vivevo nell’ottica del gruppetto che non voleva farsi conoscere da parte dei superiori, in un clima diffuso di sospetto”. E un altro: “I problemi affettivi erano tutt’altro che risolti ma, per l’impostazione della formazione seminaristica (e ritengo che questo non riguardi e non abbia riguardato solo il sottoscritto) erano come accantonati o sublimati. Ognuno era portato a collocare questi problemi nella sfera del proprio mondo privato, da risolvere con l’impegno e con la preghiera”. 

 

 

Difficoltà nell’esercizio del ministero 

In riferimento al tempo più o meno lungo di attività pastorale dopo l’ordinazione (per alcuni brevissimo) il ministero è generalmente vissuto ed è stato vissuto con impegno e dedizione, anche eccessiva. Anche i laici chiamati ad esprimere un parere riferiscono di un impegno pastorale assiduo e intelligente. Parlo naturalmente in termini generali. I preti che lasciano non sono quasi mai degli arrabbiati che se ne vanno sbattendo la porta o rinnegando il ministero che hanno svolto, di cui anzi conservano un buon ricordo e anche profonda nostalgia. 

Che cosa allora fa scattare la molla dell’abbandono del ministero? Non prima di tutto l’innamoramento, che caso mai viene dopo. Prima c’è un senso di disagio rispetto ad una vita, quella sacerdotale, sentita come lontana dalla vita vera, reale, nella quale ovviamente ha uno spazio fondamentale la relazione affettiva, i sentimenti, i figli, il calore di una famiglia, la possibilità, finito il lavoro, di stare con chi si sceglie di stare. Pur nel riconoscimento della bellezza del ministero, che praticamente nessuno rinnega e che anzi rimpiange, si fa molto viva questa nostalgia di “umanità normale” che invece non viene sperimentata dentro le mura un po’ fredde delle strutture e delle relazioni ecclesiali e pastorali: un correre continuo e stressante per attività di cui spesso non si coglie il senso, ma che comunque bisogna fare, e senza poter sperimentare quel calore d’umanità, di amicizia, di calore che le strutture e le relazioni ecclesiali e pastorali non sembrano in grado di dare. 

È a questo punto o in parallelo a questo clima di disagio che entra in gioco il rapporto concreto con una persona concreta. All’origine non si tratta di “fame di sesso”: c’è la gratificazione di un’amicizia che permette di recuperare quel calore umano, quell’ascolto che non si è riusciti a trovare negli ambienti stressanti della pastorale. Poi viene il resto e la necessità di una scelta. 

Chi decide di lasciare il ministero non sono le personalità più fragili e inconsistenti, bensì persone di solito intelligenti, che si sono impegnate seriamente nel ministero e che hanno avuto bisogno di una buona dose di coraggio. 

La lettera di un gruppo di ex in occasione del Sinodo così si esprimeva: “In questo contesto abbiamo costatato personalmente che, quando un sacerdote “entra in crisi”, si è avvicinati in modo premuroso dai confratelli i quali sono ricchi di consigli e di ragionamenti a volte anche utili, ma che la maggior parte delle volte sono proposti esclusivamente con l’intento di convincere ad essere coerenti con la precedente scelta di vita celibataria e non sempre dettati anche dal desiderio di comprendere ed essere di sostegno in un momento delicato e difficile. Passato questo momento, una volta diventata chiara e pubblica la scelta di lasciare il ministero, si assiste ad una graduale messa ai margini, … non si è banditi ma l’atteggiamento è di silenzio tollerante. Il sacerdote sposato diventa soprattutto un problema”. L’altro aspetto che sottolineano è il desiderio d’essere più “utilizzati” nella vita ecclesiale, valorizzando le loro competenze che non vengono meno sposandosi. Chiedono in altre parole di essere considerati non solo un problema ma anche una risorsa per la Chiesa. 

 

 

Due rischi da evitare 

1 – Quando la psicologia si occupa della gestione delle situazioni di conflitto, segnala come via sbagliata la ricerca del capro espiatorio, fallimentare perché nella ricerca semplicistica di un colpevole, di fatto non affronta il problema.  Un primo rischio, dunque, si colloca proprio qui: tranquillizzare o colpevolizzare la Chiesa veronese, il Vescovo, i superiori o il seminario, serve a poco. Anche perché l’azione formativa, che non è circoscritta a quella del periodo seminaristico ma si estende anche ai primi anni di sacerdozio, ed è influenzata anche dai modelli di vita presbiterale assorbiti nella parrocchia di origine durante l’infanzia e la giovinezza, deve fare i conti con contesti, storie personali e cammini formativi variegati, che qualche volta generano risposte letteralmente imprevedibili. 

 

2 – Un secondo rischio in cui facilmente si incorre, è quello di affogare dentro un orizzonte troppo stretto: il problema degli abbandoni va collocato in un quadro più vasto che investe non solo i preti, ma la Chiesa e la società d’oggi, i suoi aspetti culturali, pastorali, la frammentazione sociale, la cultura dell’immediato, il tutto e subito, il soggettivismo, l’attenzione ai sentimenti e alle emozioni, spesso diventate criterio di vita e di scelte… Tutti questi aspetti toccano i matrimoni (a Verona il 50% delle coppie si divede entro i primi 5 anni di matrimonio), le famiglie, i gruppi giovanili, la vita spirituale personale e comunitaria… e anche i preti. Il problema, allora, si aggancia a quello della formazione permanente, dell’organizzazione della pastorale parrocchiale, di quelle risorse che possono sostenerci nel nostro cammino di presbiteri, come le comunità presbiterali, ecc.

 

 

Alcune possibili cause 

Individuare le cause del malessere accusato da alcuni giovani preti non è semplice e, d’altra parte, non vorrebbe essere semplicistica la sintesi qui di seguito proposta. Sembra comunque che le cause siano da ricercare principalmente su quattro fronti: 

a) una maggior fragilità del “materiale umano” su cui si esercita l’opera formativa, particolarmente nell’area affettiva: senso di inferiorità, dubbio sulle proprie reali competenze, insicurezza e incertezza (vedi alcuni aspetti nei ritardi con cui ci si assumono responsabilità familiari), bisogno di conferma, di sostegno, debole capacità di rinuncia alla gratificazione immediata, estraneità al proprio mondo sentimentale (più “semplicemente” vissuto che conosciuto), sostituzione del criterio di verità con quello di sincerità (scarto tra il reale e la sua percezione soggettiva), paura del futuro, paura della solitudine, ricerca di figure “forti” cui identificarsi (ruolo, posizioni intransigenti, dogmatismo), fatica nel confronto quando questo è percepito come destabilizzante (manca una “sana” curiosità nella ricerca, l’apertura a idee nuove, la capacità di farsi raggiungere da ciò che non rientra negli schemi), forte investimento affettivo sulle proprie convinzioni (nel senso che talvolta l’attaccamento affettivo funziona come fondamento legittimante le proprie convinzioni teologiche che rimangono perciò acriticamente assunte). Sovente i preti giovani si danno un ordine di vita piuttosto improvvisato, senza una regola. 

 

b) Complessità crescente della vita ministeriale e pastorale: moltiplicazione degli impegni pastorali, specializzazione dei percorsi formativi (la gestione di un gruppo giovani è oggi molto più complessa ed esigente – in termini di tempo, creatività e proposte – di qualche anno fa) e diminuzione dei preti giovani, che si trovano ad essere così spinti sul versante dell’attivismo e dell’efficientismo (attese della gente e dei parroci) e si sentono spesso soli e incompresi nell’ambito del presbiterio, molto più vecchio di loro. Il successo pastorale diventa criterio decisivo nella percezione di sé; la preghiera, una delle molte cose da fare… 

La prima nomina rischia di essere determinata più dall’urgenza e dai bisogni pastorali che non da esigenze ancora di tipo formativo (il prete giovane è un “prodotto semi-lavorato”). 

 

c) Difficoltà ad intravedere un modello formativo che sappia tener conto in maniera soddisfacente di tutte le dimensioni in gioco: l’attenzione alla formazione intellettuale suppone necessariamente tempi d’appropriazione personale che penalizzano l’incontro con la pastorale e la vita della gente; la necessità di un prolungamento dell’opera educativa, talvolta inderogabile, dilaziona pericolosamente l’inizio della formazione vera e propria; la permanenza in seminario rischia di spegnere gli interessi dei giovani (monotonia degli orari e delle attività) e d’altra parte l’apertura ad attività ed ad iniziative “sul campo” sfasa i ritmi comunitari creando un clima d’incertezza, confusione e improvvisazione; l’attenzione ad una disciplina e ad un ordine comunitario abbastanza oggettivi che il soggetto è invitato a fare propri, si connette troppo seccamente con la necessità di un progresso nella responsabilità personale che, necessariamente, passa attraverso un processo di crescita e di inevitabili sfilacciature e ritardi… 

 

d) Difficoltà legate alla riflessione teologica intorno all’identità presbiterale: è probabilmente una delle cause minori, ma forse non del tutto estranea ai problemi che ci affliggono… I giovani che giungono in Seminario portano con loro idee variegate intorno al ministero e all’identità presbiterali e non mancano concezioni caratterizzate da tratti preconciliari o da una grande diversità di immagini concrete di prete che vedono attorno a loro. Di fronte al modello chiaro e distinto che fa leva sulla contrapposizione chierici-laici, la riflessione teologica non è forse ancora riuscita a proporre un modello sufficientemente suggestivo che aiuti e guidi i giovani ordinati a “diventare” preti durante gli anni del primo incarico pastorale in questo nostro contesto culturale. La debolezza della formazione può trovare una sua radice anche in una meta non chiara. Senza entrare nel vivo dei problemi, mi chiedo: è chiaro il duplice contemporaneo riferimento a Cristo e alla Chiesa per essere preti oggi? È chiara per il loro ministero la priorità storica dell’evangelizzazione in questo nostro tempo? È chiara la necessità assoluta di una capacità relazionale per svolgere il ministero oggi? Sono capaci di amore e ottimismo verso il mondo di oggi? 

Hanno maturato una capacità di oblatività comprendente il dono di sé e anche la croce? Ecc. 

 

 

Che fare? 

Nessuno possiede la ricetta capace di risolvere la crisi dei preti giovani. Tuttavia, il rilievo di alcune difficoltà ricorrenti, individuate dall’esperienza dei preti che lasciano il ministero, provoca degli stimoli e delle domande, che potrebbero essere le seguenti: 

1 – Sembra da prendere in seria considerazione l’istanza di un itinerario formativo fluido, che dia meno rilievo alle scadenze cronologiche nel conferimento dei ministeri istituiti e ordinati, e più attenzione all’effettivo percorso dei singoli candidati, in modo che il rinvio di un ministero o dell’ordinazione non appaia come una bocciatura, ma come una normale esigenza del singolo. 

 

2 – La formazione ad una solida maturità psicologica e affettiva sembra richiedere la presenza d’educatori idonei non solo sulla base di un’intensa testimonianza di fede e neppure soltanto sulla base di un sano buon senso, ma anche forniti di una competenza adeguata a discernere e ad orientare i processi umani di maturazione. L’affiancamento di un accompagnamento psicologico al percorso formativo appare molto utile. 

 

3 – La maturità affettiva richiesta dalla scelta celibataria introduce la necessità di una integrazione del normale iter seminaristico con esperienze diverse nelle quali il celibato possa essere accolto non solo nel suo significato di dono, ma anche sulla base di un confronto con la propria reale capacità di affrontarne le esigenze e le fatiche. 

 

4 – Per quanto riguarda poi le difficoltà relative all’esercizio del ministero, se da un lato non vanno sottovalutate le motivazioni che nascono da personalità ancora fragili e acerbe (la stessa età dell’impatto con la pastorale sembra oggi piuttosto inadeguata; oggi ci si sposa verso i 30 anni!), dall’altro non vanno neppure sottovalutate le difficoltà strutturali di una pastorale e di un tipo di ministero che forse sono tarati su personalità solide come la roccia sia caratterialmente che sul piano della fede, personalità che forse non sono quelle reali dei nostri giovani preti. 

 

5 – Attivare tutte le risorse formative che ruotano attorno ai giovani preti: accompagnatori pastorali, parroci, superiori, padre spirituale… Prevedere momenti di confronto e di verifica dei formatori (fatta salva la distinzione dei ruoli), allo scopo di monitorare continuamente il cammino formativo del giovane prete, per usare appieno delle possibilità formative offerte dalla pastorale ed individuare il più possibilmente in anticipo eventuali segnali di malessere. Aiutare il giovane prete a far interagire pastorale, teologia e spiritualità. 

 

 

Osservazioni personali conclusive 

Il contesto culturale 

– La perdita di ruolo sociale del presbitero nel nostro mondo incide profondamente, anche se inconsapevolmente, nella situazione psicologica e culturale dei nostri preti giovani: molti giovani sono entrati in seminario con un ideale grande di prete (i due terzi sono vocazioni giovanili!), ma di un prete posto al centro dell’attenzione, che lavora e si sacrifica, ma il cui ministero è riconosciuto e apprezzato. Il prete conosciuto in passato era al centro della vita giovanile, sempre circondato da giovani (e ragazze), pulito, con un lavoro dignitoso, culturalmente stimato, … era insomma importante. Forse si tratta di un immaginario del prete risalente al passato ma ancora impresso nel cuore di tanti fedeli e giovani seminaristi. 

Da un punto di vista sociale, invece, il prete si ritrova ora ad essere dimenticato, messo in disparte, con gravi frustrazioni pastorali, accolto da situazioni d’indifferenza, estraneità, o rifiuto; in lui e attorno a lui nascono tensioni e incomprensioni anche con gli altri preti della parrocchia. Tutto questo fa sentire meno “caldo” il nido, l’ambiente di vita e di lavoro; fa sentire i giovani preti soli, isolati e inutili, ed espone alla crisi. Si cercano allora gli sbocchi nel super lavoro, nelle amicizie laicali, nei gruppi intimistici, nei movimenti rassicuranti. Le confidenze d’alcune ragazze o donne si accolgono come un segno di stima e d’affetto; nasce un rapporto più interessato e meno libero. C’è spesso un desiderio forte di essere amati e una fatica ad amare senza risposta gratuitamente. Non sempre i nostri preti giovani hanno maturato il senso dell’amore gratuito, del servizio fedele senza risposta per Gesù Cristo e la sua Chiesa. 

 

– Il contesto culturale ed esistenziale (vedi fallimenti dei matrimoni di giovani sposi con motivazioni analoghe) spinge i giovani a porre l’accento maggiormente sulla soggettività, sul riverbero interiore, sul “sentirsi bene”. È il proprio sentire che viene posto al centro della propria attenzione e diventa criterio di verità e di vita. L’affettività rischia di diventare il criterio base, quando non unico, di verità e di autenticità: aumentano la fragilità e l’incapacità di sopportare le situazioni di crisi e il sacrificio. Parallelamente, l’adolescenza si distende oltre i diciotto anni. Ne deriva una frantumazione personale e di vita, un’appartenenza molteplice, un relativismo soggettivo. 

 

– Cresce, dunque, l’incapacità di fare scelte definitive (cultura dell’immediato) e sembra spuntare un modus vivendi legato a scelte che rispondono più al susseguirsi di stagioni esistenziali che, per così dire, ad un’esistenza che si stagiona progressivamente. Mi ha impressionato costatare da parte di preti che hanno lasciato la poca coscienza del proprio ruolo sociale, delle conseguenze delle proprie scelte: “Se io adesso mi sento bene con questa ragazza, perché non devo essere autentico e libero?”. 

 

– Il celibato rischia di finire dentro quest’orizzonte fluido e cangiante ed essere legato all’emotività. Sul versante formativo è necessario riscoprire e distinguere la vocazione al celibato da quella al ministero ordinato. Il celibato è dono e carisma a prescindere dal presbiterato! 

Non deve essere accolto come condizione per accedere al presbiterato, ma come dono di gioia e amore. 

 

 

Il clima critico del presbiterio veronese 

(la relazione è stata tenuta al Consiglio presbiterale di Verona!) 

– Ci sono talvolta nella nostra Chiesa e nel nostro presbiterio divisioni e incomprensioni, sfiducia reciproca, pregiudizi e classificazioni, un mondo di pettegolezzo, di critica negativa, di divisioni tra i diversi gruppi o persone, tra progressisti e conservatori, tra movimenti e parrocchie, tra preti di sensibilità e impostazione teologica diversa che scoraggia e avvilisce. 

 

– Talvolta  le critiche di alcuni preti sul Seminario, sulla qualità della formazione, sulle scelte formative, sui superiori, ecc…. (opinioni di cui vengono puntualmente fatti parte anche i seminaristi) ostacolano la proposta formativa. 

 

– La sottolineatura troppo accentuata del bisogno di rinnovamento, rischia spesso di diventare denigrazione per la pastorale ordinaria e parrocchiale, con conseguente disimpegno dei preti giovani. 

 

– Si coglie nel nostro presbiterio una certa povertà culturale, una notevole fatica a vivere e operare in un tempo di trapasso culturale, un conseguente affievolimento nella stima di sé (insuccessi), scoraggiamento e tristezza: queste situazioni pesano sull’entusiasmo dei giovani preti e dei seminaristi. 

 

– Come presbiterio, fatichiamo a vivere una vita con stile e dimensioni umane e con ritmi accettabili. Rischiamo di finire per prenderci poco cura della nostra umanità, pur nel lodevole scopo di aiutare gli altri. I nostri preti sono in genere “troppo” zelanti e generosi, faticano di più a riflettere e vivere dentro il cambiamento. Dobbiamo prestare maggiore attenzione alla “qualità della vita”, anche nei suoi aspetti soggettivi, se vogliamo camminare con i giovani preti d’oggi e non bruciarsi. 

 

– I preti in crisi, ma anche gli altri, sono poco abituati a lasciarsi aiutare, a “camminare insieme”. Siamo, tendenzialmente, dei “navigatori solitari”. 

Manca spesso l’amicizia sincera tra preti e/o con alcune famiglie di laici maturi e credenti. 

 

 

I primi anni di ministero 

– In alcuni casi c’è mancanza o superficialità nella preghiera e nella vita spirituale profonda: c’è la pratica, l’abitudine, e non un’esperienza vera di Dio, un innamoramento profondo per Cristo Gesù. Ci si affanna e ci si svuota completamente su un piano psicologico, di fede, di pastorale, di rabbia, di solitudine, ecc. e si perde la forza di guardare a Gesù Cristo come all’unico che mi ha scelto e per cui vale la spesa fare il prete. 

 

– Forse si potrebbe rilevare nei preti giovani una certa mancanza d’educazione alla responsabilità ecclesiale e pubblica, al ruolo pubblico di “ministro”, d’uomo di Chiesa. C’è mancanza di “senso ecclesiale”, delle responsabilità del prete verso la comunità. Si passa dal “don Rossi” al sig. Rossi con la massima facilità, senza rendersi pienamente conto della risonanza delle scelte sui fedeli. Talvolta nei giovani preti ci sono una certa ingenuità e mancanza di prudenza, un’eccessiva sicurezza nei rapporti con le ragazze. 

 

– È patita la mancanza di sostegno da parte dei parroci, che non instaurano con i giovani preti un dialogo e un confronto effettivo. Talvolta il “prete anziano” si accontenta di un atteggiamento protettivo, o di una “convivenza”, o della collaborazione settoriale, più che di fraternità, condivisione e corresponsabilità. Talvolta noi preti siamo, nei riguardi dei più giovani, più nonni che fratelli. Ai preti giovani è in genere affidato il settore meno gratificante e maggiormente in crisi e che mette maggiormente in discussione: quello giovanile. Talvolta i parroci, rimembrando le numerose riunioni dei loro tempi, si aspettano soluzioni magiche del problema giovanile: se i giovani non vengono è colpa del curato! 

 

– Tra i giovani preti si denuncia la mancanza di sostegno e di vicinanza da parte della struttura ecclesiastica, del Vescovo, degli educatori, dei responsabili diocesani (senso di solitudine pastorale e personale). Forse l’accompagnamento durante i primi anni di cammino presbiterale e pastorale non è personalizzato o è insufficiente, sia a livello spirituale, che pastorale e psicologico. Capita di sentire espressioni del tipo: durante i miei primi anni nessuno si è fatto vedere… bisogna aspettare quando entriamo in crisi?! Chi mi aiuta a dialogare con il mio parroco? E con i superiori? 

Accanto al Giberti (Scuola di formazione per i presbiteri dei primi 5 anni) si sente il bisogno di una maggiore amicizia sacerdotale tra i preti giovani, di un gruppo di “auto-aiuto” programmato, che li aiuti a rendersi conto di ciò che stanno vivendo. Mancano i “preti amici” con cui stare insieme e confrontarsi. Anche se ricordo che talvolta l’influenza di questi gruppi può essere anche negativa, vedi la chiusura e la ricerca di sostegno in certi gruppi chiusi. 

 

 

Suggerimenti raccolti da voci diverse e da affrontare nel futuro immediato 

a) Per la formazione in seminario 

– Ripensare alla maturità umana e affettiva in particolare, alla relazionalità, tenere presenti di più le radici familiari.

– Si è formulata l’ipotesi di un anno d’intervallo dopo il biennio filosofico, un anno abbastanza destrutturato in cui il seminarista possa gestire tempi e risorse con responsabilità e libertà… e con il necessario accompagnamento; o un anno pieno di servizio diaconale, lontano dalla protezione del seminario e inseriti a tempo pieno nelle strutture parrocchiali. 

– Portare l’età dell’ordinazione verso i 30 anni. 

– Aiutare a maturare una crescente “docibilitas”, un affidamento trasparente e totale agli educatori, nella convinzione che nessuno ha il diritto di diventare prete e che il discernimento non spetta solo al singolo, ma alla Chiesa. Attenzione ai “tunnel”. 

– Attenzione a costruire uomini di fede. 

– Attenzione alla formazione intellettuale e teologica: dovrebbero essere più capaci di incidere sulla vita, sulla preghiera (approfondire la ricerca d’unità tra formazione teologica, seminaristica e vita quotidiana). 

– Importanza della verifica che viene dalla carità vissuta in comunità e in esperienze di servizio prolungate (vedi Sarmeola, Cireneo, ecc.). 

– Aiutare a non vivere un cristianesimo fatto d’esperienze straordinarie (clima da campo scuola), ma nella fatica del quotidiano. Il seminario ha una “regola di vita”, perché non riusciamo a farla interiorizzare? A farla diventare abitudine (v. orari, gestione tempo, preghiera, riposo, ecc.)? 

– Prospettare, almeno a livello di riflessione, un ripensamento radicale della formazione al presbiterato… Se è cambiato il ruolo, la figura del prete, dovrà cambiare anche la sua formazione. 

 

 

b) Per la formazione in pastorale nei primi anni di ministero 

– Proporre un accompagnamento più personalizzato che preveda il coinvolgimento dei parroci: sono loro i nuovi educatori. 

– Ripensare al Giberti con incontri che partano dalle loro esperienze pastorali e dalla vita in comune con il loro parroco (con chi si confrontano spiritualmente e pastoralmente?). 

– Maggior attenzione al primo parroco. 

– Nominare i giovani curati dove c’è già un minimo di vita comunitaria, almeno un altro curato! Ma sembra impossibile, nelle attuali circostanze sono solo 40 i curati attualmente in diocesi invece dei 150 di 20 anni fa o dei 90 di quattro anni fa! 

– Intervenire il più possibile prima del problema o agli inizi dell’isolamento, delle fatiche. 

 

 

c) Per un accompagnamento durante i primi anni 

– Pensare ad un accompagnamento pluralista nelle forme e nelle persone. 

– Un gruppetto d’animazione. 

– Accompagnare i “parroci” perché siano loro gli accompagnatori dei preti giovani. 

– Sviluppare la vita comune dei preti (comunità presbiterali), le amicizie sacerdotali, la collaborazione e lo scambio tra confratelli, ecc. 

NB – Teniamo presente che purtroppo i termini del problema sono analoghi o simili (anzi forse ancor più problematici) anche per le vocazioni religiose, sia maschili sia femminili, come risulta da vari incontri con i formatori