N.05
Settembre/Ottobre 2005

Vocazioni in università? Mondo universitario e pastorale vocazionale

Non è semplice individuare alcune linee di tangenza tra mondo universitario e vocazioni di speciale consacrazione. Potrebbe essere più semplice prendere coscienza del fatto che concretamente anche dal mondo universitario vengono delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata. Tuttavia, quella della ricerca di alcuni elementi pastorali e comuni di fondo è una pista che merita d’essere almeno avviata, senza pretendere forzature e semplificazioni del dato in oggetto. La stessa prospettiva pastorale, fattasi più dialogica che pedagogica e paternalistica, induce a un atteggiamento ecclesiale improntato a un ascolto continuo, capace di uno stile profondamente discreto e attento. 

 

La realtà universitaria interpella la Chiesa italiana 

Intanto non è affatto scontata l’individuazione di alcune linee precise da catalogare sotto il titolo di una possibile pastorale universitaria. Anche se da una quindicina d’anni la Chiesa italiana ha prodotto alcuni documenti in merito, è chiaro che si tratta ancora di riflessioni iniziali, che dovranno tener conto di una realtà universitaria in continuo cambiamento. Per certi aspetti ci si trova davanti a dei cambiamenti epocali che ancora stanno avvenendo e che non hanno trovato un preciso assestamento culturale e didattico nel mondo che tradizionalmente era ed è deputato alla trasmissione del sapere. 

A questo riguardo non è neppure un problema descrivere la possibilità di una presenza pastorale all’interno di un ateneo. In Italia sono già molte le azioni ecclesiali avviate in questo senso. Più complesso è cercare, piuttosto, di configurare in modo adeguato alcune costanti strutturali che giustifichino e sostengano oggi, per una Chiesa diocesana, il valore di un raccordo pastorale con il mondo universitario in quanto tale. 

 

Primato della relazione culturale con il mondo universitario 

Certamente, il fatto che anche la Chiesa italiana abbia costituito e mantenuto in proprio delle istituzioni di carattere universitario – si pensi alla stessa Università Cattolica del S. Cuore e le molte Facoltà teologiche sparse nel Paese – dimostra, per un verso, che la realtà ecclesiale intende mantenere vivo un proprio modo di pensare, elaborando e affrontando, anche ad intra, le questioni che di volta in volta il dispiegarsi della cultura pensante richiede e sollecita; ma, per un altro, tutto questo dimostra anche quanto sia decisivo per la Chiesa, e quindi anche per la Chiesa italiana, il desiderio sincero di restare continuamente in dialogo con le vaste prospettive aperte dalla riflessione culturale in genere, dalle scienze e dalla ricerca accademica in quanto tale, su tutti i fronti del sapere critico. 

In questo senso la categoria di fondo che giustifica e stimola una qualsiasi relazione o azione della Chiesa italiana nei confronti del mondo universitario è propriamente di carattere culturale, accedendo in senso forte al significato di questo termine. Naturalmente, senza voler disattendere la cura propriamente spirituale di tutti quei credenti, giovani e già adulti, presenti a vario titolo nel mondo universitario. 

Per questo, la categoria pastorale primaria dalla quale partire per individuare seriamente le linee di una possibile pastorale universitaria non è quella della pastorale (o del servizio) giovanile, ma piuttosto quella di una corretta e sempre più articolata pastorale della cultura

L’esigenza, infatti, di entrare in relazione con il mondo universitario, da parte di un’azione ecclesiastica propria, attiene anzitutto all’esigenza stessa dell’inculturazione dell’Evangelo. A questa poi potrebbero giustamente seguire attenzioni più funzionali, quali quelle derivanti dal mondo professionale del lavoro (pastorale del lavoro), o più pedagogiche, quali appunto la pastorale della scuola o propriamente giovanile.[1] 

 

Riforma universitaria e domanda ecclesiale 

Quale situazione sta davanti alla coscienza della Chiesa italiana oggi, da un punto di vista propriamente universitario? Il dato complesso che stimola ancora una volta la realtà ecclesiale italiana a riflettere sempre più seriamente sulle linee di un’azione specifica in ordine al mondo universitario potrebbe andare in una duplice direzione. Se, per un verso, la Riforma dell’università in Italia[2], ha certamente favorito, nella logica dell’autonomia didattica degli atenei, il sorgere di nuovi corsi e di innumerevoli altre sedi universitarie, per un altro, questo stesso fenomeno ha investito, in senso propriamente territoriale, tantissimi centri urbani, anche di media e piccola grandezza. Cosicché, alle città che già accoglievano la tradizione di grandi e significative università, si sono aggiunte, nel giro di pochi anni, tantissime città e cittadine che si sono dotate di un loro ateneo. Stare a questo fenomeno socioculturale, ascoltandolo nelle modalità con le quali oggi s’impone, significa prendere atto di alcuni elementi che potrebbero poi rientrare nella prospettazione delle linee di un’azione specifica della Chiesa nei suoi confronti. 

Si pensi, ad esempio, che la realtà ecclesiale, oltre a prendere atto delle concrete modalità di applicazione della Riforma universitaria nel nostro Paese, potrebbe prendere coscienza delle ragioni profonde che hanno richiesto e sostenuto le dinamiche di questa stessa Riforma in Italia. Se, da una parte, sta l’esigenza di recepire nuovi linguaggi del sapere, dall’altra c’è pure l’allargamento e la diffusione di questi ad un numero sempre maggiore di studenti. Una coscienza ecclesiale, guidata da autentico senso del discernimento, anche vocazionale, potrebbe cercare di meglio individuare gli elementi strutturali e permanenti della Riforma stessa. Il grande tema dell’orientamento all’università non è tematica irrilevante da un punto di vista pastorale. Potrebbe determinare e incidere profondamente nella vita e nella coscienza di un giovane o di una ragazza. 

Non si tratta di indirizzare funzionalmente e rigidamente dei giovani adolescenti nella scelta di una facoltà piuttosto che un’altra, ma di introdurre le famiglie credenti e le stesse comunità cristiane ad un maggior senso critico, che renda ancora capace un giovane di inoltrarsi nei percorsi di una libertà che rende autenticamente responsabile, più che nella spensieratezza possibilistica di chi magari si illude, un po’ all’italiana, di restare ancora per qualche anno in area di parcheggio, rinviando le scelte fondamentali della vita. 

 

Diffusione territoriale del dinamismo universitario 

Ma si potrebbe anche considerare, in vista di un’azione ecclesiale appropriata, il livello propriamente territoriale, diocesano e/o regionale, più adatto ad affrontare la complessità del fenomeno universitario. Soprattutto se si tiene conto dello spostamento di significative masse di giovani e di docenti da una città ad un’altra, per frequentare e operare in uno o più atenei. La stessa distinzione del corso universitario in un triennio e in un successivo biennio specialistico favorirà la frequentazione del triennio in un’università e del biennio in un’altra. 

Partecipare ai dinamismi del sapere universitario, per molti in Italia oggi, significa ormai mettere in conto uno sradicamento dal proprio territorio comunitario di origine, per confluire inevitabilmente in un altro, portandosi dentro persino la consapevolezza, dopo questo primo grande passaggio esistenziale, di essere ancora in una situazione provvisoria e instabile dal punto di vista delle grandi scelte che contano nella vita, quali quelle affettive e professionali. Senza dimenticare il fatto che, se per un verso il fenomeno della presenza di studenti e di docenti stranieri si sta allargando nel nostro Paese, dall’altro sono pure molti gli studenti e i docenti che vanno in altri paesi, per motivi di studio e di insegnamento, usufruendo delle molte modalità di scambio e di specifica consulenza. 

In questo senso non è retorico cercare di tradurre il titolo del programma pastorale della Chiesa italiana di questi anni: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia[3], anche in questi termini: comunicare il Vangelo in un’università che cambia. Rimane, infatti, intatta la passione della Chiesa per l’annuncio del Vangelo, ma questa stessa tensione all’annuncio andrebbe poi continuamente inscritta, con intelligenza e forte senso progettuale, nella complessità dei cambiamenti ai quali è soggetto oggi il mondo universitario italiano. 

 

Raccordo storico-pastorale tra Chiesa e mondo universitario 

Certo, se solo ci si rifà agli ultimi cinquant’anni della storia del nostro Paese, volendo meglio contestualizzare il rapporto tra Chiesa e Università in Italia, questo legame potrebbe essere descritto, con sequenza quasi cronologica, attraverso tre possibili momenti. Consapevoli naturalmente che le tre fasi descritte in sequenza per sé non si sostituiscono necessariamente l’una all’altra. In alcuni casi – cioè in alcuni atenei – restano ancora compresenti o totalmente o parzialmente. A testimonianza, comunque, di una sensibilità e di un approccio spesso molto diverso e complesso da parte della sensibilità ecclesiale stessa nei confronti del mondo universitario. 

Una prima fase potrebbe essere rappresentata dai tempi della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana, Fiesole 1886) e del Movimento Laureati (Cagliari 1932), confluito poi nel 1980 nel Meic (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale). Un insieme di associazioni che hanno rappresentato, in rapporto all’università italiana, tutta la sensibilità laicale e la capacità di approccio culturale proprio dell’Azione Cattolica Italiana. Ripercorrere la ricchezza culturale rappresentata da queste associazioni significherebbe percepire lo spessore di un pensiero e di una modalità di approccio al sapere universitario, significativo per l’intera realtà della Chiesa italiana, non solo dal punto di visto di quanto è avvenuto in tempi non così lontani, ma anche della possibilità di riproposizione di metodologie di relazione tra fede cristiana e cultura ancora piene di saggezza e per questo anche riproponibili e ritraducibili. 

Negli anni ’70 seguirà, subito dopo e in concomitanza con l’esperienza del ’68 studentesco, quella del movimento cattolico di Comunione e Liberazione. Nell’intento di realizzare una vera e propria presenza cristiana prima all’interno del complesso e problematico mondo della scuola e, a seguire, in quello specificamente universitario, questo movimento ecclesiale, a partire anzitutto da una presenza che si avvia all’interno di alcuni atenei milanesi, sarà concretamente, anche se non ufficialmente, una sorta di tramite, volutamente visibile, tra la realtà della Chiesa italiana e un mondo universitario che proprio allora stava cominciando a dare inevitabilmente alcuni segni di cambiamento e di riforma. Tale prospettiva ecclesiale movimentistica si è sviluppata e innervata in molti atenei italiani e non solo. Comunione e Liberazione ha rappresentato innegabilmente una presenza cristiana tangibile e diretta nel mondo universitario italiano degli ultimi trent’anni. 

È solo a partire dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso che nella Chiesa italiana è iniziata a risuonare l’espressione pastorale universitaria[4], nell’intento, per un verso, di prendere coscienza di un mondo universitario in continua evoluzione, quasi volendo, per un altro, avocare a sé il compito di poter avviare con le sedi universitarie già presenti nel contesto del proprio territorio diocesano legami sempre più intensi e precisi[5]. Si tenga presente che l’azione più immediata – comprensibile in senso pastorale – è stata quasi sempre di nominare, da parte del vescovo, un incaricato o un delegato (cappellano) per la pastorale universitaria. Talvolta rivisitando una preesistente cappella universitaria, magari tenuta più tradizionalmente da alcuni religiosi, oppure stabilendo una relazione con il mondo accademico, che finisce per sortire una presenza ecclesiastica in università che va sotto il titolo di incaricato per la pastorale universitaria, rettore di una rettoria, cappellano di una cappella universitaria, quando addirittura non si tratta di parroco di una parrocchia universitaria

Ma non credo, comunque, siano questi solchi pastorali, inevitabilmente clericali – anche nel caso della nomina di una religiosa o di una consacrata per la cura pastorale del mondo universitario –, che necessariamente sostengono, in senso proprio, l’esprimersi di una qualsiasi vocazione di speciale consacrazione, anche negli anni dell’università. 

 

 

Provocazioni di pastorale vocazionale 

Lasciandomi guidare dai quattro punti precedentemente affrontati, potremmo evincere alcune provocazioni iniziali di carattere vocazionale, anche solo rimanendo propriamente nell’orizzonte della cosiddetta speciale consacrazione, cioè della vocazione al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata in tutte le sue variegate espressioni. 

 

Vocazioni più preparate culturalmente 

Il fatto che la categoria pastorale fondamentale che dovrebbe descrivere l’approccio tra Chiesa italiana e realtà universitaria è propriamente quella culturale (pastorale della cultura), prima ancora che scolastica (pastorale scolastica), giovanile (servizio di pastorale giovanile) o professionale (pastorale del lavoro), induce già a riflettere sul fatto che una qualsiasi preoccupazione vocazionale non può essere certo quella della scoperta di un nuovo territorio di raccolta (o reclutamento, come si diceva un tempo) vocazionale

Qualcosa del genere si era piuttosto già percepito nel raccordo recente avvenuto, per conto di alcune iniziative ecclesiali, tra pastorale giovanile e mondo universitario. È innegabile, certo, il valore di un reale incontro tra attenzione pedagogica di una Chiesa diocesana al mondo giovanile e la constatazione che ormai molti giovani frequentino, in termini quantitativi sempre maggiori, più gli ambienti universitari che non alcuni ambienti ecclesiastico-formativi tradizionali, quali gli oratori, i gruppi giovanili parrocchiali. Se poi si tiene conto del fatto che l’università ha la pretesa di essere, a suo modo, un ambiente educativo integrale – almeno dal punto di vista dell’occupazione del tempo –, non resta molto altro tempo per la frequentazione di altri ambienti. 

Se, dunque, la categoria che qualifica la reciproca attenzione tra Chiesa e università oggi in Italia è – e deve essere – quella propriamente culturale – consapevoli che questo termine abbisognerebbe di ulteriori e più precise articolazioni –  allora è in questo senso che va eventualmente rilevata la possibilità che si evidenzino delle vocazioni anche al ministero ordinato e alla vita consacrata. Per quanto l’università possa ancora sembrare una sorta di grande parcheggio giovanile, tuttavia non si aiuta chi frequenta l’università, insinuando il sospetto di fare cosa buona allentandone la frequenza, per attendere a qualche urgente servizio di carattere liturgico o catechetico-formativo. Semplificando il valore formativo del momento universitario, semplicemente si creano delle alternative e delle schizofrenie che non favoriscono affatto scelte di vita qualitativamente alte e vocazionalmente singolari. 

L’università, nei migliori dei casi, va percorsa culturalmente in toto, più che ritagliata in modo funzionale. 

 

Tempi universitari e maturazione vocazionale 

È bene che si tenga presente anche il peso – che proprio da questo punto di vista – può rappresentare in Italia la stessa recente Riforma universitaria. Con la cosiddetta Riforma, il titolo universitario di base diventa la laurea, che si consegue al termine di un corso di studio di durata triennale, con alcune eccezioni, come per i corsi di laurea in Medicina. Successivamente, lo studente potrà scegliere di entrare subito nel mondo del lavoro, oppure continuare gli studi universitari attraverso lauree specialistiche, i cosiddetti master di I livello. Chi ha conseguito una laurea specialistica e vuole poi perfezionare la propria formazione, può optare per master di II livello o dottorato di ricerca. Per alcune professioni previste dalla legge (quali quella dell’insegnante, del medico, dell’avvocato, ecc.), l’abilitazione all’esercizio della professione si conseguirà frequentando dopo la laurea di primo o di secondo livello, le relative scuole di specializzazione. 

Ho volutamente descritto questi passaggi perché non è difficile convincersi che il tempo dell’università – contrariamente a quanto si è anche detto in occasione dell’introduzione della Riforma stessa qualche anno fa, e cioè che il tempo di frequenza dell’università si sarebbe accorciato – questo è stato piuttosto ridisteso, ridistribuito, e, per certi aspetti, persino allungato. È vero che, rispetto all’impostazione quadriennale precedente, è stata certamente superata la dispersione, molto alta nelle università italiane, dei cosiddetti fuoricorso; tuttavia, se da una parte il solo corso triennale – percorso in modo più compatto e unitario da uno studente oggi – non raggiunge, al di là del titolo di dottore acquisito, un soddisfacente livello universitario in vista di una buona immissione nel mondo del lavoro, di fatto, dall’altra, il biennio di specializzazione successivo e l’opportunità sempre più consigliata di frequentare uno o più master, hanno allungato di molto l’arco di effettiva presenza in università. Tutto questo poi andrebbe ulteriormente coniugato con la non coerenza tra domanda e offerta, propria del mondo del lavoro in Italia oggi. 

Anche questo dato ha delle inevitabili implicanze sul fronte propriamente vocazionale. Non entro nel merito della vocazione matrimoniale in quanto tale. Non è chi non veda, infatti, che il rinvio ad una più seria considerazione della scelta matrimoniale a questo punto diventa molto complessa e, talvolta, persino preoccupante. Anche solo riferendoci poi alla possibilità che in questo contesto universitario, fattosi così articolato, si esprimano delle vocazioni di speciale consacrazione, potrebbe avere delle conseguenze importanti. Già si è detto dell’importanza di tenere conto del dinamismo culturale proprio che attraversa e avvolge l’evidenziarsi oggi di una vocazione al ministero ordinato o alla vita consacrata. Tuttavia, qui è soprattutto sulla categoria del tempo, e di un tempo disteso e articolato in questo modo, che meriterebbe porre la massima attenzione. Sono anni preziosi e decisivi dal punto di vista della ricerca del senso pieno della propria esistenza, nei confronti dei quali poco valgono le scorciatoie e le semplificazioni, ancora presenti talvolta nei cosiddetti itinerari vocazionali. 

Negli anni passati in università, come incaricato per la pastorale universitaria, ho avuto modo di accostare il caso di alcuni studenti e studentesse che, per ragioni molto diverse, sentivano l’esigenza di avviare un cammino vocazionale specifico. Tendenzialmente però ho sempre consigliato loro di concludere il corso universitario avviato. Gli anni dell’università sono ormai uno spazio decisivo, se percorsi con gradualità e interezza, per la maturazione di scelte vocazionali significative e singolari, anche in forza dell’approfondimento di alcune categorie psicologiche fondamentali, inerenti la conoscenza di sé, che vengono acquisite dal soggetto interessato. 

Non che un prete laureato o una consacrata laureata serva di più o meglio a una diocesi o a un istituto. Magari! Una laurea triennale, e la possibile specializzazione conseguente non è ad necessitatem per la realizzazione vocazionale. Ma il tempo dell’università è – e sta diventando di fatto – una opportunità sempre più decisiva per l’acquisizione di una reale maturità umana e culturale per dei giovani che sono chiamati, anche vocazionalmente in senso proprio, a inoltrarsi in un modo sempre più complesso e articolato. 

 

Nomadismo universitario e missionarietà vocazionale 

Va considerato anche un altro interessante fenomeno, che sopra descrivevo nei termini di un possibile nomadismo universitario. Per quanto si registri, per un verso, il fatto che il moltiplicarsi delle sedi universitarie porti spesso molti giovani ad avere la sede universitaria scelta proprio sotto casa e/o, comunque, nel raggio di qualche chilometro, tuttavia il fenomeno universitario odierno è, in quanto tale, strutturalmente in movimento. Per quanto anche si sia parlato di una sorta di liceizzazione dei corsi universitari – cioè di una vera e propria riduzione al modello scolastico liceale della didattica e dei contenuti universitari stessi –, tuttavia il tempo dell’università resta per un giovane – come per un giovane ricercatore, ma anche per un qualsiasi docente universitario che vuole essere all’altezza della situazione – una straordinaria e singolare occasione di mobilità e di nomadismo. 

Per un verso, c’è uno spostamento già abbastanza codificato di diverse migliaia di giovani studenti e ricercatori dalle regioni del sud verso alcune grandi città universitarie che si trovano più a nord, come Roma e Milano. Dove va registrato di fatto il non ritorno di una percentuale molto alta. Per un altro, a partire dallo stesso corso triennale, è previsto sempre più frequentemente – per i più meritevoli e i più desiderosi, in termini sempre più di massa – l’opportunità di fare dei periodi di scambio con altre università italiane, ma soprattutto con università straniere europee e anche intercontinentali. La positività di questa esperienza, del resto, la testimoniano gli stessi giovani studenti, che vivono con grande entusiasmo queste opportunità, sempre più facilitate e volute dalle stesse università, il che si rivela essere così un modo inevitabilmente in rete. Se poi si considera che, in forza della Riforma stessa, è possibile fare il triennio in una università che si trova in una città e il biennio specialistico in un altro ateneo, magari all’estero, allora questo dato viene ulteriormente avvalorato. 

La valenza vocazionale è innegabile. Si potrebbe, in questo senso, intuire una coscienza vocazionale più globale e meno locale, meno legata cioè ad una sorta di ricaduta del soggetto, in ricerca vocazionale, nel dinamismo proprio della Chiesa diocesana di partenza. La categoria che da sempre caratterizza – o dovrebbe caratterizzare – in senso propriamente missionario qualsiasi vocazione (il fidei donum del ministero ordinato e l’ad gentes di qualsiasi vocazione di speciale consacrazione) verrebbe così immediatamente intuita e colta da un giovane o da una ragazza che, trovandosi in stato di ricerca vocazionale, si è concretamente lasciato prendere seriamente, anche in senso universitario, da questo singolare movimento nomadico, culturale e formativo. Fenomeno che, del resto, ha cominciato a caratterizzare, anche in senso propriamente ecclesiale, diversi milioni di giovani proprio in questi ultimi decenni. 

Come hanno di fatto dimostrato le stesse Giornate Mondiali della gioventù, volute da papa Giovanni Paolo II, che di movimento giovanile e di viaggi pastorali è stato innegabilmente un grande esperto. 

 

Pluriappartenenza ecclesiale e ricchezza vocazionale 

E c’è un’ultima domanda che merita d’essere fatta in senso vocazionale. Ci si potrebbe domandare, infatti, alla luce della nota inerente una sorta di possibile storia recente dell’azione pastorale della Chiesa nei confronti del mondo universitario italiano: quali radici ecclesiali hanno le vocazioni di speciale consacrazione che possono maturare negli anni dell’università? Intanto va detto che di vocazioni in questo senso ce ne sono sempre state, ce ne sono ancora e ce ne saranno sempre, io credo. In otto anni di servizio nel mondo universitario, credo di aver potuto constatare una decina di vocazioni inerenti il mondo della speciale consacrazione

Ma è chiaro che, soprattutto in considerazione di orizzonti universitari così dilatati – in senso pedagogico, culturale e anche geografico – la radice vocazionale di partenza (la parrocchia, il gruppo giovanile, l’associazione e/o il movimento) è sempre più articolata e complessa. Il fenomeno della pluriappartenenza ecclesiale è, infatti, sempre più diffuso tra i giovani, come tra gli adulti. Nel senso che un soggetto che nel tempo dell’università arriverà ad esprimere una scelta vocazionale specifica, è stato prima battezzato in una parrocchia, dove magari ha vissuto i primi anni di vita fino a frequentare la catechesi e l’oratorio; poi, negli anni delle medie e delle superiori, si allontana dalla comunità cristiana e, magari all’interno proprio della scuola, attraverso un insegnante o alcuni compagni, frequenta un gruppo cristianamente sensibile (scout), o particolarmente sensibile al dialogo (Fuci) o esplicitamente presente (Comunione e Liberazione). Successivamente, all’università s’imbatte nella cappella universitaria o partecipa ad un gruppo di volontariato e di servizio. O magari niente o ben poco di tutto questo. 

È difficile seguire linguaggi precisi da questo punto di vista. E neppure credo sia momento di grande sintesi. Mi ero permesso in questo senso, a partire dal secolo scorso, di delineare almeno tre passaggi significativi. Tutti i percorsi educativi e pastorali descritti hanno espresso e ancora oggi esprimono dinamiche vocazionali interessanti, in tutte le direzioni dell’arco della cosiddetta speciale consacrazione. 

Lo spazio rimane dunque molto aperto. Ma restano vincenti, in senso propriamente metodologico, almeno due fattori importanti: la possibilità che un qualsiasi soggetto vocazionalmente interessato ad una scelta di speciale consacrazione possa riferirsi ad un contesto e a figure ecclesiali concrete e, ad un tempo, gli sia permesso, proprio negli anni della sua università, di essere seguito in un serio cammino di accompagnamento e di discernimento spirituale. In questo senso, la mia esperienza pastorale non ha dubbi e forse qualcosa potrei anche raccontare. Ho accompagnato più vocazioni di speciale consacrazione in questi anni di servizio in un ateneo milanese, dichiaratamente laico, che non negli anni, pure intensi e belli, dedicati alla riflessione sistematica sulla pastorale vocazionale in quanto tale. 

Se il nostro non è tempo di sintesi pastorale, allora ci si potrebbe anche risentire un’altra volta. 

 

 

Note 

[1] Decisivo sarebbe, in questo senso, il raccordo tra la ricerca delle linee portanti di una possibile pastorale universitaria e le indicazioni proprie del cosiddetto progetto cultura orientato in senso cristiano. Nel 1994 (Prolusione al Consiglio Permanente CEI) il Card. C. Ruini fa per la prima volta accenno a un Progetto culturale, intendendo per cultura il terreno d’incontro tra la missione propria della Chiesa e le esigenze più urgenti del Paese. Nel 1995 il Convegno ecclesiale di Palermo registra un consenso generale intorno al Progetto. Nel 1996 tre seminari di studio promossi dalla CEI e dall’Assemblea Generale dei Vescovi, delineano le motivazioni e i contenuti del Progetto culturale. Nel 1997 viene, infine, pubblicato dalla Presidenza CEI il documento fondativo Progetto culturale orientato in senso cristiano. Una prima proposta di lavoro

Cfr http://www.progettoculturale.it/prgcult/ faq.html. 

[2] La Riforma Universitaria (D.M. del 3 novembre 1999: Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, pubblicato nella G.U. n. 2 del 4 gennaio 2000 a cura del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica), armonizza il sistema italiano dell’istruzione universitaria (o superiore) con le altre realtà europee. 

Cfr. http:// www.scienzeformazione.univaq.it/didattica/riforma.pdf. 

[3] CEI, Orientamenti Pastorali dell’Episcopato Italiano per il primo decennio del 2000, Roma, 29 giugno 2001. 

[4] L’espressione pastorale universitaria trova la sua ufficializzazione nel documento Presenza della Chiesa nell’Università e nella cultura universitaria, a cura della Congregazione per l’Educazione Cattolica – Pontificio Consiglio per i Laici – Pontificio Consiglio per la Cultura (22 maggio 1994). 

[5] Andrebbero in questo senso tenuti presente il documento della CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA – PONTIFICIO CONSIGLIO PER I LAICI – PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA, Presenza della Chiesa nell’università e nella cultura universitaria (22 maggio 1994) e quello curato dalla COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, LA CULTURA, LA SCUOLA, L’UNIVERSITÀ, La Comunità Cristiana e l’Università, oggi, in Italia, Roma, 29 aprile 2000.