N.06
Novembre/Dicembre 2005

Quale pastorale vocazionale perché la Chiesa locale sia la comunità della testimonianza? 

Quando mi viene affidata una relazione che ha per titolo una domanda, mi sento più in difficoltà del solito, sia perché una domanda è una precisa delimitazione di campo che non consente divagazioni che facilmente sarebbero ritenute “fuori tema”, sia perché una domanda presume e quasi sembra invocare una risposta finalmente risolutiva al problema che si pone. 

Voi sapete, che in ciò di cui ci stiamo occupando formule miracolose non ce ne sono, né ricette che guariscano ogni male, perciò liberatevi (e liberatemi) subito da questo tipo di attesa. 

Ciò che ho cercato di fare, riflettendo sulla domanda e pensandola nel contesto del Forum, e del più ampio contesto in cui si colloca la sua tematica – cioè la riflessione della Chiesa italiana verso il Convegno ecclesiale di Verona del 2006 –, è di leggere l’esperienza che posso avere direttamente o per conoscenza indiretta e tentare, sulla base di essa, di dire a me stesso a voi delle cose che ci diano fiducia e, se così posso dire, ci mandino a casa “con un sogno in più”. 

Intanto preciso, e forse per noi tutti questo è come sfondare una porta aperta, che quando parliamo di “pastorale vocazionale” noi mettiamo l’aggettivo “vocazionale” vicino al sostantivo pastorale tanto per identificarci, ma tutti sappiamo che esso è già contenuto nel senso del sostantivo, perché un’autentica “pastorale” non può essere che vocazionale. Dunque rifletto sulle qualità 

della pastorale, della nostra pastorale, della nostra testimonianza che fanno sì che essa possa essere un annuncio di speranza, capace di “guarire la libertà dell’uomo dal suo delirio d’onnipotenza e farla diventare una libertà liberata per la comunione” (CEI, Testimoni di Cristo Risorto…, 3). 

Parto da un’esperienza, in una Chiesa locale, in una comunità cristiana. Un mio confratello, qualche tempo fa, mi ha scritto una lettera, nella quale mi raccontava con passione ed entusiasmo di un momento straordinariamente positivo che aveva vissuto in una parrocchia di Milano. 

“Sabato scorso ho partecipato alla professione religiosa di una cara amica che dopo anni di discernimento si è consacrata con i voti definitivi al Padre. Ha celebrato questo momento nella Parrocchia dove da 4 anni lavora nella pastorale dei giovani e degli emarginati senza fissa dimora, in un quartiere d’estrema periferia di Milano (Quarto Oggiaro). La chiesa è un asilo dismesso ora diventato un grande salone con soffitto ribassato, tante sedie tutte rivolte verso l’altare ricavato in uno slargo al fondo del salone, vasi di fiori finti sulle sommità della travi di metallo di sostegno al soffitto, sette tele dei sette colori dell’arcobaleno come addobbo costante al tabernacolo di Gesù… e un’assemblea abbondantissima: seduti davanti, attorno all’altare insieme alle altre consacrate tutti gli anziani, alcuni ospiti della comunità di accoglienza dei senza fissa dimora, i genitori della mia amica, altri ospiti, e poi via via tutti gli amici, e tantissimi giovani e giovani adulti, più in fondo dove non c’erano più sedie. Un grande gruppo di canto e di musica sostiene la preghiera cantata, e tutto nella estrema semplicità si compie: non c’è un abito, non c’è un velo, c’è però una grande riconoscenza dei presenti a Dio per il dono di quella comunità di donne consacrate lì in mezzo a loro, una grande commozione che prende giovani e anziani perché un’altra ragazza ha scelto di donarsi e di stare proprio lì con loro a condividere i loro problemi… Uno dei giovani, che fino a qualche tempo fa andava a rubare le macchine, mi dirà poi la mia amica, porta all’altare l’anello dell’alleanza nuziale tra Dio e quella donna. Nelle preghiere dei fedeli intervengono spontaneamente più persone: una anziana che dice come si era sbagliata, all’inizio, di non volere alcuni ragazzi in oratorio, che poi si è ricreduta dopo aver visto quella giovane donna conquistarli sempre di più alla onestà, al rispetto, e adesso addirittura alla preghiera… Poi interviene un ragazzo per ringraziare Dio di aver incontrato quella giovane suora che lo ha tirato fuori da dove si trovava e ora se è lì a pregare con la comunità è “colpa” sua, e così altri che anche con le lacrime della commozione e della gioia non possono trattenersi dal testimoniare che cosa ha fatto la condivisione  in mezzo a loro… 

Ecco: «la CONDIVISIONE», si respirava che questa donna e le altre come lei, stanno vicine a quella gente, sono parte di loro, abitano in un appartamento al palazzo 1/E in quella lunga serie di condomini popolari degli anni ’70 e ora un mare di persone è lì con loro e testimoniano insieme che c’è qualcosa di estremamente BELLO e PREZIOSO che lega tutti. 

Che cosa? Che cosa li ha resi testimoni, tutti, proprio dal più piccolo al più anziano? 

L’aver respirato che c’è posto per tutti e che anzi! anche chi è più fragile e malmesso ha spazio, uno spazio dove ha diritto di esistere, dove con pazienza può essere «riparato, custodito e riconsegnato alla sua dignità», dove può sentirsi amato e provare ad amare, dove prende confidenza con i suoi limiti e impara a conviverci. E nel rito della professione così diceva questa giovane donna: 

«Eterno Signore di tutte le cose,
che mi accompagni ogni giorno
e che scopro anche nelle mie e altrui fragilità,
che ami abitare e rendere feconde,
aiutami a restare sempre con Te!
Donami in ogni istante la tua forza
per poter mostrare il tuo volto misericordioso a coloro che incontrerò.
Ti faccio offerta di ciò che ho e che sono, per sempre,
per diventare compagna di viaggio di coloro che metterai sul mio cammino,
desiderando essere solidale con coloro che vivono nella prova e nella fatica,
sulla terra e nell’aldilà.
Sapendo che la mia forza è data dalla tua Parola e dalla tua fedeltà
io… faccio voto per sempre…».

 

Dunque la persone di questa comunità sembravano essere diventate testimoni di cosa Dio opera in loro e attorno a  loro, grazie all’aver «respirato» la VICINANZA GRATUITA di qualcuno alle loro vicende, grazie cioè proprio ad aver sperimentato il MISTERO DELL’INCARNAZIONE, «Gesù in mezzo a noi», l’Emmanuele, «che ama abitare e rendere feconde le nostre fragilità». Potrebbe essere allora che la comunità diventa testimone quando sperimenta la GRATUITÀ, la CONDIVISIONE, il SENTIRSI AMATA nelle proprie ricchezze e povertà… da parte di qualcuno che si butta a seguire Gesù e il suo stile”. 

Qui finisce la testimonianza e inizia il mio tentativo di riflessione. 

 

 

Qual è la bellezza di seguire Gesù 

 

Mi sono chiesto e mi chiedo: qual è la BELLEZZA di seguire Gesù, che sprigiona la testimonianza in mezzo alle nostre case, quartieri, famiglie…? Qual è la bellezza di seguire Gesù, che fa respirare poi uno stile, un modo di stare in mezzo agli altri? 

– È la bellezza di ricevere poco per volta, nella compagnia di una vita, e nella fatica quotidiana, un CUORE INDIVISO E RAPPACIFICATO: rappacificato perché ti senti scelto da Lui, Dio; proprio io con quella mole di limiti e di doni, davvero è un’impresa DIVINA quella di amarmi così e di giurarmi fedeltà in eterno, di scegliermi per sempre, e riscegliermi anche dopo qualche “malinteso” o “rottura”. Solo Lui poteva fare una cosa tanto bella e rappacificante! 

 

– È la bellezza di sentire crescere lungo il tempo lo STUPORE e la RICONOSCENZA per questa predilezione, specialmente quando si percepisce che se non fossimo stati chiamati a seguirlo nella sua vigna saremmo stati dei “disoccupati”, se non fossimo stati amati in maniera così privilegiata saremmo diventati forse “ladri o prostitute…”; la riconoscenza, attraverso l’esercizio quotidiano della consapevolezza, diventa la nota di fondo con cui passo le giornate, anche lavorando, incontrando, viaggiando… 

 

– È la bellezza di essere da Lui riportati continuamente ad INTEGRARE IL BENE, il buono che ho e che sono CON IL MALE, il limite, la povertà che possiedo. Solo Gesù riesce ad accettare tutta la nostra persona in radice, e fa maturare in noi la coscienza del peccato. Tiene insieme il grano e la zizzania e vuole che crescano insieme perché poco per volta io li riconosca, io abbia tempo per definirli e farli crescere o rigettarli nella mia vita, per fare io la consegna finale del bene e del male a Lui, una volta riconosciuti e trattati con maturità. Gesù non è manicheo, non divide la persona, non la spezza in buona e cattiva, ma la fa crescere nel riconoscimento del bene e del male che abita in essa per trattarla da adulta, perché scelga lei… permette anche il limite, la fragilità, il peccato per far maturare, crescere… “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. 

 

– È la bellezza del gustare la LIBERTÀ, del non essere troppo preoccupati di alcune paure umane: essere liberi di parlare cercando la verità e il bene, non fare troppi calcoli, con Lui non c’è bisogno di troppe spiegazioni, Lui sa tutto di me nel profondo, non guarda ai malintesi (che succedono nelle relazioni umane) né alle apparenze (che ci preoccupano spesso), non è scostante e così libera energie in me, libera sogni, progettualità, libera l’iniziativa… 

 

– È la bellezza profondissima e lancinante di sapere che nel DOLORE LUI RESTA, Lui per primo addolorato, crocefisso e abbandonato da tutti resta l’unico con me. Come a Lui basta la mia compagnia nel suo dolore così a me resta certa la sua compagnia, che misteriosamente poi genera vita. Lui no, non abbandona mai; Lui che ha provato l’essere abbandonato non permette, non vuole che io lo sia, e resta al mio fianco… 

 

– È la bellezza di poter imparare poco per volta a leggere la MORTE E IL FALLIMENTO non come eventi solo negativi, ma come passaggi preziosi, dentro cui c’è sempre salvezza misteriosa, c’è il Cielo, e tu chiedi sapienza per poterli leggere come ha letto Dio Padre la morte di suo Figlio, un gesto rivoluzionario che se vissuto con amore rivoluziona la violenza, l’ingiustizia, la vince in radice, innesta una rivoluzione a catena che nessuno può fermare e sconfigge in radice la stessa forza della morte. Ne senti tutto il dolore, ma ne vedi anche il senso e speri. 

 

– È la bellezza di essere invitati ad ABITARE sia la DIMENSIONE DEL PICCOLO sia quella dell’UNIVERSALE; Lui, so di certo, che si nasconde in tutto ciò che è povero, fragile, piccolo, limitato, lo abita e lo fa fiorire secondo sue misteriose progettualità, e insieme m’invita ad abitare con lo sguardo le cose grandi, gli ideali alti, a sentire miei i problemi dell’umanità, la miseria mondiale, la violenza delle guerre planetarie, gli scontri dei popoli come lui stesso li sente; mi sposta dal piccolo e dal povero che ho vicino a me o dentro di me a ciò che è grande smisurato; mi smuove, come se non ci fossero barriere e distanze tra queste dimensioni… tutto posso abitare sapendo che Lui per primo abita lì, in una continua ricerca d’equilibrio tra il piccolo e il grande, tra il desiderare “in piccolo” per quelle situazioni vicine a me e il desiderare “in grande” per ciò che mi sorpassa, senza essere in contraddizione. 

 

– È la bellezza di sentirsi STRAPPATI DALL’IMMOBILITÀ e dalla STAGNAZIONE: dal proprio piccolo mondo di bisogni e attese che poco per volta possono risucchiare, assorbire troppo e chiudere, al sentirsi spinti a star più attenti ai bisogni degli altri, ad aprire gli occhi sull’alterità e questo non per ottenere lodi, non per compiacenza, non per possederli… ma per esercitare la capacità di dono che tutti abbiamo inscritta nel nostro DNA, sentendoci abbastanza ricchi di poter donare, ricchi d’affetto ricevuto, sperimentato “umanamente” nella propria storia e sperimentato “per grazia” nella preghiera personale, quotidiana, nel sacramento del perdono… 

 

Credo che dall’aver sperimentato questa bellezza viene poi un modo di fare pastorale, di impostare uno stile di presenza tra le persone, i giovani, i disagiati, gli anziani, le coppie regolari o irregolari, gli anziani, i diversi, per nazionalità, religione, identità, le persone instabili, tristi, disperate o bisognose. 

 

 

 

Una pastorale che abiliti alla speranza

 

Cerco dunque di dire qualche caratteristica di una pastorale che abiliti alla speranza, che ne faccia rinascere e ne alimenti il dinamismo. 

1) Una pastorale che faccia sperimentare la VICINANZA e TENEREZZA di Dio verso la nostra piccolezza, che dica concretamente la predilezione del Signore per il piccolo, il fragile. Potremmo chiamarla una PASTORALE DELLA PICCOLEZZA E DELLA FRAGILITÀ, che sa leggere che le povertà sono luogo d’incontro con Dio, che va allora ad abitarle e non le fugge, che dà spazio ad esse, uno spazio d’onore! (nella Messa a Quarto Oggiaro hanno fatto sedere in prima fila alla Messa gli anziani e gli ospiti della comunità dei senza fissa dimora – gli zoppi e gli storpi del Vangelo?). Dare spazio a chi non ha tanta voce, o disturba un po’, è un po’ strano, e forse un po’ meno spazio a chi si impone nella pastorale, o è sbruffone o è potente alla maniera umana; gestire questo equilibrio riservando spazi al piccolo, mette nel cuore la nostalgia di sperare di avere un posto anche noi nel Regno di Dio. È la pastorale che usa tutto, ma proprio tutto della vita di ciascuno, i doni ma anche i limiti, le povertà proprio come “un’occasione” per qualcos’altro, che va scoperto. Ha come finalità prima quella di aiutare a sentirsi amati da Dio e dal vicino, e a saper amare, a dare quello che si ha, per quanto poco sia. È la pastorale che apre gli occhi sulle proprie e altrui povertà, e aiuta ad amarle, per poi vedere come servirle. Raccoglie attorno alla preghiera personale e comunitaria le ferite e le povertà di tutti e le offre, perché siano trasfigurate e diventino piaghe preziose da cui nasca salvezza; celebra il continuo mistero della morte e resurrezione di ciascuno nell’Eucaristia della Comunità, che dà senso di festa anche alle più quotidiane fatiche.

 

2) Una Pastorale che faccia incontrare le diverse realtà operanti nella comunità e anche nel territorio, perché si conoscano, si stimino, si amino l’un l’altra come se stesse, diminuiscano magari il sospetto o il pregiudizio dell’una verso l’altra e sentano che ogni contributo da chiunque provenga è prezioso. Si potrebbe chiamare la PASTORALE DELLA STIMA E FIDUCIA, che parte dalla conoscenza di quanto esiste, dell’incontrarsi attorno ad un tavolo per presentarsi, per esplicitare le proprie finalità, per provare a recepire le caratteristiche di ciascuno, in modo che ciascuno senta di essere riconosciuto, di “avere un nome” (come è per Dio, per il quale nessuno è “senza”). È la pastorale che aumenta l’energia, la fiducia in sé, la speranza delle persone di poter dare, esprimersi, essere efficaci. È quando si mandano messaggi di fiducia perché i singoli e i gruppi sappiano trovare in sé, davanti alle situazioni, le risorse e le risposte migliori, senza aspettare che le abbiano gli altri. È la pastorale che aiuta a scoprire le proprie potenzialità e quelle altrui, a stimarle e sentirsi ricchi, da poterle investire e rischiare per rispondere alle povertà scoperte e toccate con mano. Sa mettere al loro posto coloro che usano atteggiamenti di svalutazione e sfiducia, limitando lo spazio alla loro azione di critica negativa e i danni che potrebbero provocare. 

 

3) Una pastorale che valorizzi le capacità e peculiarità di ciascuno, anche dei più piccoli o senza voce, i carismi dei singoli e dei gruppi, che liberi risorse, anche le diversità personali di vedere e agire, in un cammino di creatività e fedeltà al regno di Dio. Una pastorale che mette in comune, fa girare i problemi, li socializza, fa conoscere le necessità e i bisogni per servirli; che cerca di coordinare e non di uniformare; che sostiene la responsabilità di ciascun gruppo, il protagonismo buono e non la passività, che non si stanca di promuovere collaborazioni, anche quando comporta più tempo il lavorare insieme e mettere d’accordo più persone. Potrebbe essere la PASTORALE DELLA CORRESPONSABILITÀ, che permette di sentirsi parte di un pensiero più grande, di una progettualità condivisa, di sentire che c’è di fondo un remare comune, che genera amore e interesse per le persone e per quello che si fa. Occorre in questo educare dei “mediatori” che tengano i contatti con tutti, facciano circolare le vita dei singoli e dei gruppi, che capillarmente facciano sentire coinvolti. E questi mediatori potrebbero essere raffigurati con l’immagine del “canale” che mette solo in comunicazione; occorre quindi essere molto vuoti di sé, sgombri perché ci sia comunicazione e non intasamento… È la pastorale che aiuta a mettere in gioco le proprie e altrui potenzialità, a valorizzarle a seconda dei bisogni conosciuti, fissandosi più sulle risorse che non sulle mancanze o incapacità. È la pastorale che sa bloccare il protagonismo cattivo che monopolizza l’attenzione su di sé, non serve gli altri e non mette in comunicazione le persone, ma le contrappone, le emargina. 

 

4) Una pastorale che fortifica nelle persone la tendenza a pensare che il futuro possa essere migliore, che sostiene la speranza, che focalizza l’attenzione più sulle opportunità che sui problemi, più sui desideri che sui bisogni, sui buoni risultati e non solo sugli insuccessi, che sposta l’attenzione dall’intristire e dal ripiegarsi verso il senso di riconoscenza, di meraviglia, verso il pensiero positivo e la speranza. Potrebbe essere la PASTORALE DELLA BELLEZZA e CREATIVITÀ, che si esercita a vedere sempre prima il bello e il buono che c’è, non nascondendo quello che non va, ma non assolutizzandolo o lasciandosene oscurare. È sottolineare il positivo e non solo le lacune e i limiti, è partire nelle progettazioni comuni dall’analisi dei desideri, dei punti di forza che si hanno, dalle risorse, e certo anche dalle debolezze, dall’analisi dei sogni del gruppo e non solo da quello che non va o è andato male. È quando si coltiva la possibilità di sognare, sapendo che questa è la forza per lo sviluppo, è il motore, che apre all’iniziativa, ad immaginare un futuro diverso, a rischiare. È la pastorale che fa prendere consapevolezza del proprio valore, della propria personale bellezza, rende intimamente riconoscenti, persone di lode e di preghiera, libere e partecipi della caratteristica divina della creatività in alcune sue scintille. Si oppone alla negatività e al senso di disfattismo, sa resistere alle tentazioni di pessimismo perché riconosce nell’operare che è immensamente più grande il carico di “benedizioni” che non quello di “maledizioni”. È la pastorale che usa linguaggi nuovi e sempre antichi, dalla liturgia alla musica, dalla gratuità del servizio all’espressività corporea, artistica, ecc… linguaggi che riflettono il bello a cui tutti noi siamo sensibili e veniamo attirati. 

 

 

Un’icona evangelica 

 

Per dire l’appello della missione della Chiesa rivolto a noi, per illuminarci quasi, rispetto allo stile, al modo con cui proporre la nostra testimonianza, mi riferisco ad una pagina del Vangelo di Giovanni, che sta al termine dell’incontro di Gesù con la Samaritana (Gv 4,35-38). 

Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro. 

Nelle parole di Gesù c’è un’espressione che dobbiamo raccogliere e meditare con cura: essa dice del nostro modo di essere, di vedere, di partecipare al mondo in cui viviamo. 

“Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”. 

L’invito di Gesù (“levate i vostri occhi”) è rivolto verso la miopia dei discepoli ancora chiusi dentro steccati da loro stessi fabbricati. 

Il contesto infatti in cui l’Evangelista pone questa frase sulla bocca di Gesù è quello dell’episodio della donna samaritana al pozzo: samaritana, donna,… 

Pre-comprensioni, preconcetti, chiavi di lettura che ci rintanano dentro i nostri angusti orizzonti: magari siamo curvi sulla commiserata considerazione delle nostre problematiche o della scarsa vitalità delle nostre organizzazioni o sul contrarsi delle nostre forze. 

E questo (è il rimprovero di Gesù) c’impedisce di vedere i campi che già biondeggiano, non riusciamo a cogliere i segni di Vangelo che sono poi segni di speranza, presenti nei nostri ambienti, tra i giovani. 

Scuotiamo la testa sfiduciati; il nero rischia di diventare il nostro colore preferito. 

Mi pare che Gesù ci dica: lasciatevi avvicinare, rendetevi accessibili, accostabili, comprensibili, anche interpellanti, certo; fate vostri quegli atteggiamenti e comportamenti, che offrono agli altri la percezione che esiste in voi qualcosa di rilevante, d’importante per la loro vita, e quindi di seducente. 

Alzate gli occhi e guardateli e vedeteli questi samaritani, questi nuovi poveri, questa nostra società. 

Che cosa cercano? Quale acqua? Accorgetevi della loro sete e offrite la vostra acqua. Siamo invitati a volgere lo sguardo verso altri orizzonti, verso un “oltre” che supera la nostra quotidianità. 

Anzi, meglio dire: siamo chiamati a vivere la quotidianità dentro gli ampi orizzonti dello sguardo di Dio, cioè rapportandola e inoltrandola dentro i grandi mutamenti epocali che questo nostro tempo sta vivendo e soffrendo. 

Quante parole della Bibbia in questa direzione! 

– alza gli occhi intorno e guarda (Is 49,18 e 60,4) 

– spingi lo sguardo verso settentrione (Gn 13,14) 

– volgi la faccia verso i monti di Israele (Ez 6,2) 

– volgi la faccia verso mezzogiorno (Ez 21,2), verso Gerusalemme (Ez 21,7) 

– soprattutto: non guardare indietro (Gn 19,17) 

 

Allora in concreto siamo invitati a prendere questa nostra quotidianità e alla luce della realtà culturale del mondo che ci circonda, dei richiami dell’interculturalità ormai sotto gli occhi di tutti, delle domande che salgono da un mondo sempre più globalizzato, dei bisogni più profondi del territorio, chiederci: come risponde la nostra vita e… risponde? Oppure il mondo va per la sua strada e noi per la nostra? 

Realtà culturale del mondo, globalizzazione, territorio con i suoi bisogni sono i campi che già biondeggiano, sono la donna samaritana che si avvicina al pozzo per attingere acqua per la sua sete. 

– Riusciamo ad alzare gli occhi e guardare?

– Riusciamo a proporre un’altra acqua?

– Riusciamo a intercettare le domande della nostra contemporaneità?

 

Ci viene chiesto di addentrarci per sentieri forse sconosciuti: cercare di capire, cogliere i richiami, intercettare le domande, individuare i bisogni, gli appelli, i sussurri e le grida. Come deve essere il nostro sguardo? 

Prima di tutto dobbiamo chiedere al Signore che apra i nostri occhi perché riusciamo a vedere (Sal 119,18). 

Guai a noi se, rimanendo dentro i nostri steccati, i nostri mondi, chiudessimo gli occhi per non vedere (At 28,27). 

Il Signore faccia cadere dai nostri occhi le squame (At 9,18) delle nostre assolutizzazioni. 

Guardare chi? Fondamentalmente il povero, l’indigente, il debole, il piccolo,…: 

– non distogliere lo sguardo dal povero (Tb 4,7); 

– non distogliere lo sguardo dall’indigente (Sir 4,4); 

– il Signore guarda verso l’umile, guarda con benevolenza il debole (Sal 138,6), ecc. Verso questo mondo di diseredati, di svantaggiati, di emarginati va rivolta la nostra attenzione. Una volta si sentenziava: partire dagli ultimi! Non per dimenticare gli altri, ma per arrivare agli altri a partire da… 

 

Quindi è anche importante lo sguardo con cui si guarda e che talvolta si lascia condizionare eccessivamente dalla mentalità corrente, mentre il Signore ci chiede appunto uno sguardo luminoso. Uno sguardo che sa arrivare al cuore, che sa intuire storie di sofferenza, di privazione, di mancanza di affetto,… 

Ritengo che non ci sia permesso altro sguardo verso questa società di emarginanti e di emarginati che quello di Gesù che prova compassione per le folle, che perdona i tanti peccati, che guarda con benevolenza, che si siede a tavola con peccatori e pubblicani, che si fa compagno di delusi che vogliono tornare indietro, che si fa toccare e baciare da peccatrici,… 

È questo lo sguardo con cui fare la nostra ricognizione: il tuo occhio non sia cattivo verso il tuo fratello (Dt 15,9). Benevoli, misericordiosi, stare “solidali” con questo mondo piagato: sono questi gli atteggiamenti che devono animare il nostro viaggio. Quindi non giudizi di condanna, soprattutto se inappellabili, ma costruttive visioni segnate dalla speranza. 

Lungi da noi ogni indizio di superiorità di qualsiasi genere, sia intellettuale, che morale, che di potere, ecc.  Via ogni benché minimo sentimento, più o meno occulto, di arroganza, di superbia, di alterigia, anche di invidia. Le comunità che vivono questi stili sono tante, quelle che hanno un nome da molti conosciuto ed esercitano una grande capacità attrattiva per i giovani e le persone alla ricerca di verità e di senso. Ma queste comunità siamo noi, possiamo essere noi: ne abbiamo la capacità e la forza. 

Mi scuso se la mia riflessione è stata più una meditazione o una predica: ho voluto farla ad alta voce prima di tutto a me. Mi auguro che, al termine di questo Forum, non sia inutile neppure per voi. 

Concludo con il contemplarle, quasi in forma di preghiera, queste comunità e ambienti della testimonianza e della speranza, per poterle poi riflettere anche me e in noi con l’aiuto dello Spirito: 

 

Senti che c’è spazio in loro anche per te, per i tuoi problemi, hanno uno SPAZIO interiore allargato

Li senti vicini, condividono con te, e nello stesso tempo sono molto LIBERI, non sono “tuo possesso”, sembra che siano sempre un po’ oltre… 

Sono persone che si LASCIANO sorprendere da Dio nella loro vita e lasciano spazio all’inaspettato che li porta in alto, come una luce sul candelabro… 

Hanno consapevolezza di sé, delle loro capacità e dei loro limiti, ma sanno permettere a Dio di andare oltre, di chiamarli all’impossibile. 

Percepisci quando li incontri che hanno piantato al centro del loro cuore Cristo, gli hanno riconosciuto il primo POSTO nella loro esistenza… e a Lui ritornano con la mente e il cuore, ne fanno memoria… 

Hanno uno sguardo LUMINOSO, vedono tutto in una luce nuova: “rintracciano” Dio in ogni ora del giorno e della notte, dall’al-ba al tramonto. 

Vedono le ombre e le luci e sanno che più forte è la LUCE, la SANTITÀ sull’iniquità e sul male. Il loro sguardo è profondo, non si accontentano di ciò che appare in superficie; cercano la SAPIENZA dall’Alto, per rileggere la propria storia e quella del mondo. 

Sono FORTI della certezza di essere amati da Dio; SERENI perché credono che i disegni di Bene di Dio si realizzeranno, nonostante tutto. 

Sono cittadini del Cielo che vivono sulla Terra. Non sono ingenui, conoscono e amano il mondo, ne raccolgono le sfide e ne condividono le attese. Si assumono le loro responsabilità per colorare di Cielo gli spazi fangosi della Terra. 

“Vigilano” perché il mondo non perda la sua dimensione di Mistero: non tutto si può spiegare, ci insegnano che sono preziosi il SILENZIO e lo STUPORE. 

Vivono ogni mattino nella LODE gioiosa e nella riconoscenza al Padre perché credono che l’umanità è custodita dalla CROCE e che l’Amore giorno dopo giorno sta trasfigurando il mondo verso la pienezza. 

Adorano Cristo risvegliando l’aurora attorno a loro; come “SENTINELLE DEL MATTINO” precedono l’alba, resistono al buio, hanno occhi fissi al sole, anche quando sembra esserci nebbia e foschia. 

Credono nella RESURREZIONE di Cristo, credono che ogni morte ha un senso e non è consegnata all’assurdo. 

In mezzo ai vortici delle stagioni di vita sanno fermarsi: “Trova la pace interiore e il silenzio, e una moltitudine di fratelli troverà salvezza attraverso di te” (Serafino di Sarov). 

Così diventano BENEDIZIONE per gli altri, “come giardino irrigato” fanno fiorire perdono e speranza in mezzo ai deserti, e “rallegrano” il nostro sguardo sul futuro. 

 

Grazie del vostro ascolto. 

E… auguri.