N.02
Marzo/Aprile 2006

Cristo mia speranza è risorto

Il titolo della relazione che mi è stata affidata è fortemente evocativo. Riecheggia una frase della sequenza Victimae paschali laudes. In una sorta di dialogo liturgico alla domanda: “Dic nobis, Maria, quid vidisti in via – Raccontaci Maria che hai visto sulla via?”, l’interpellata risponde: “Sepulcrum Christi viventis et gloriam vidi resurgentis. Angelicos testes, sudarium et vestes. Surrexit Christus spes mea [1]. E l’assemblea ecclesiale conferma: “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere… Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto dai morti!”. 

Notiamo un dettaglio: è interpellata direttamente una donna, Maria. Quale? Non c’è bisogno di specificazione, l’assemblea ecclesiale intuisce perfettamente: si tratta di Maria di Magdala, la capofila delle discepole itineranti con Gesù fin dall’inizio del suo ministero in Galilea (cfr. Lc 8,1-3). È lei l’apostola degli Apostoli, la donna che annuncia (angellousa) l’esperienza che sta alla base della fede pasquale: “heôraka ton Kyrion, ho visto il Signore” (Gv 20,18). A ben vedere, la sequenza pasquale evoca il racconto del quarto Vangelo, dove unica protagonista femminile il giorno dopo il sabato è proprio Maria di Magdala. 

Svilupperò il tema attraverso un duplice percorso. Anzitutto approfondiremo la testimonianza di Maria Maddalena nella prospettiva di Giovanni 20 e quindi ci soffermeremo sulle ragioni della speranza di coloro che invece, come i destinatari della Prima lettera di Pietro, credono in Gesù Risorto pur senza averlo visto (cfr. Gv 20,29). Pietro lo costata con stupore: “Voi lo amate pur senza averlo visto e ora, senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa…” (1Pt 1,8). 

 

“Ho visto il Signore”: la testimonianza di Maria 

I Vangeli Sinottici presentano Maria di Magdala in compagnia di altre donne quel mattino presto, il giorno dopo il sabato. Non così Giovanni. Egli lascia fuori campo le altre protagoniste femminili e punta intenzionalmente l’obiettivo soltanto su di lei [2]. Per quale ragione? Lo si comprende attraverso una lettura attenta del racconto. 

 

Di buon mattino 

“Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro” (Gv 20,1). La Maddalena avanza nel buio, spinta dal suo amore per Gesù. Come si può vedere nelle tenebre? In realtà Maria vede ma non comprende. Vede che la pietra è stata ribaltata ma non comprende assolutamente il senso di ciò che è avvenuto. Interpreta il fatto come violazione del sepolcro e in preda all’angoscia corre da Pietro e dal discepolo amato, gridando la sua disperazione: “Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove lo hanno posto” (v. 2). 

La scena prosegue in movimento, anzi di corsa: “Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro…” (v. 4). Corre più veloce chi ama di più. Al sepolcro arriva dunque per primo il discepolo amato: si china, vede le bende “giacenti” (keimena), ma non entra. Lascia che sia Pietro a entrare per primo nel sepolcro. Gli dà la precedenza. Pietro deve essere il primo a rendersi conto dei “segni” presenti nella tomba vuota, anche se soltanto del discepolo amato si dice alla fine del brano che “vide e credette” (v. 8). Non c’è stato bisogno che alcuno liberasse Gesù dalle bende funerarie come avvenne per Lazzaro (cfr. Gv 11,44). Dio stesso lo ha liberato “dai lacci della morte” (cfr. At 2,24). Ma l’evangelista annota che “non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9) e la scena si conclude con il ritorno a casa dei due discepoli (v. 10).

 

Nel giardino della risurrezione 

Diversamente, Maria di Magdala non torna a casa. Non sa staccarsi dal luogo dove giaceva l’Amato: “stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva” (v. 11). Tutta presa dal pensiero di recuperare le spoglie mortali di Gesù, è figura e simbolo di una comunità che piange l’assenza del Signore, che vive la dimensione umana del lutto: “Voi piangerete e gemerete…” (Gv 16,20). D’altro lato è icona dell’innamorata che cerca l’Amato finché lo trova. Evoca il Cantico dei Cantici: “lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato… voglio cercare l’amato del mio cuore” (Ct 3,1-2). La Maddalena cercava Gesù morto e trova inaspettatamente Gesù vivo![3]

E non è certo a caso che l’incontro con il Risorto avvenga nel giardino. È nel giardino che l’innamorata del Cantico incontra il suo tesoro dopo averlo a lungo cercato nella notte: “Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne?… Il mio diletto era sceso nel suo giardino” (Ct 6,1-2). Sullo sfondo intravediamo anche il giardino dell’Eden dove ha inizio la storia d’amore di Dio con l’umanità. Ma le allusioni sono molteplici. Il simbolo del giardino collega la passione con la risurrezione: in un “giardino” Gesù viene tradito e arrestato (Gv 18,1ss) e in un “giardino” viene sepolto (Gv 19,41). Il giardino in cui si attua la morte e risurrezione del Cristo apre lo scenario della nuova creazione e Maria Maddalena è figura della comunità-sposa: “viene presentata nell’orto-giardino la nuova coppia che dà inizio alla nuova umanità”[4]

C’è un altro aspetto che vorrei notare: il duplice “voltarsi” della Maddalena dal sepolcro al Risorto, un voltarsi che suggerisce un progressivo movimento di conversione. Immaginiamo la scena. Maria è china verso il sepolcro. Ai due angeli bianco vestiti che le chiedono il perché del suo pianto, risponde: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Gv 20,13). Detto questo “si voltò” (estraphê). C’è un uomo in piedi, ma lei non lo riconosce. Neppure quando le chiede: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. La prima domanda ricalca quella degli angeli ma la seconda – Chi cerchi? – avrebbe potuto farle aprire gli occhi. E invece no. Serve però a dichiarare ciò che intende fare: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo” (v. 15). E si rigira verso il sepolcro. 

Non sa staccare lo sguardo da quella tomba finché il Maestro non la chiama per nome: Maria! Allora come per incanto Maria si gira – e questa volta in forma definitiva – verso colui che pronuncia il suo nome. Si con-verte al Vivente. Ed essendosi “voltata” (strapheisa) dice una sola parola: “Rabbunì!”. Una parola che ha tutta l’intensità di un appellativo familiare: “Maestro mio”. Alla voce dell’Amato risponde la voce dell’amata: Qol dodì, “voce del mio diletto!” (Ct 2,8). Maria riconosce la voce del pastore che “chiama le sue pecore per nome e le conduce fuori” (Gv 10,3). Fuori da che? Da quel cercare tra i morti Colui che è vivo. 

 

Va’ dai miei fratelli e di’ loro… 

Immagino Maria ai piedi del Maestro, in modo analogo a ciò che racconta Matteo nell’apparizione del Risorto alle donne: “Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono” (Mt 28,9). Ma l’abbraccio va interrotto perché c’è una missione da compiere, c’è un annuncio da portare: “Non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (v. 17). 

Il Risorto invia la Maddalena come aralda della sua ascensione, del suo ritorno al Padre. Il grano di frumento sepolto nelle viscere della terra ha portato molto frutto. Colui che è disceso fino agli inferi ora ascende al Padre suo e nostro. Per la prima volta nel quarto Vangelo i discepoli, dopo essere stati chiamati “amici”, ora sono chiamati “fratelli” e Dio è detto Padre di Gesù e Padre nostro, su un livello di piena reciprocità[5]. Ed è quanto mai significativo e rilevante che il Risorto affidi questo messaggio a una donna. È Maria di Magdala la prima testimone del Risorto, l’apostola degli Apostoli che annuncia: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). 

Com’è stata accolta la sua testimonianza? Giovanni non lo dice espressamente, ma tutto lascia supporre che la Maddalena non sia stata creduta[6]. Lo si intuisce dalla scena successiva, ambientata “la sera di quello stesso giorno” (Gv 20,19-23). Le porte sono sbarrate, segno di una comunità bloccata dalla paura. Ma non sono di ostacolo per il Risorto: egli viene e sta in mezzo ai suoi discepoli, mostra le mani e il costato, i segni della crocifissione, dona loro la pace e il suo stesso Spirito, li manda come il Padre ha mandato lui. Nessuna parola è posta in bocca ai discepoli, presi da indicibile gioia (cfr. v. 20). È la gioia pasquale, la gioia della vita che rinasce col Risorto, la gioia di una creazione nuova. Il gesto di Gesù che alita sui discepoli evoca infatti quello del Creatore che soffia un alito di vita nelle narici dell’uomo, facendolo diventare “un essere vivente” (Gen 2,7). I discepoli diventano a loro volta testimoni del Risorto. Quando entra in scena Tommaso, assente la sera del primo giorno dopo il sabato, la loro testimonianza declina al plurale le parole di Maria: “Abbiamo visto il Signore!” (heôrakamen tón Kyrion, Gv 20,25). 

Leggiamo nel documento preparatorio al Convegno Ecclesiale di Verona, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo: “Vedere il Risorto significa che la comunità dei discepoli… deve diventare la Chiesa-comunione che mette il Risorto al suo centro e lo annuncia ai fratelli. Come la donna che parte dal giardino della Risurrezione e va a dire ai fratelli: Ho visto il Signore” (n. 3).

 

Quelli che credono senza aver visto: le ragioni della speranza 

Al centro della Prima lettera di Pietro troviamo l’invito a dare ragione della speranza, un appello che mantiene ancor oggi tutta la sua forza. Si potrebbe leggere l’intero scritto a partire da questa prospettiva, poiché Pietro concepisce l’esistenza cristiana in chiave di speranza[7]

 

Rigenerati per una speranza viva 

Anzitutto la speranza è dono che sgorga dalla grande misericordia del Padre. Il primo atteggiamento allora è di stupore, gioia, gratitudine: “Benedetto Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo che nella sua grande misericordia ci ha rigenerato (anagennêsas) mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza viva” (1 Pt 1,3). Notiamo subito una peculiarità linguistica: anagennaô, il verbo della rigenerazione ricorre solo nella Prima lettera di Pietro, e per due volte[8]. Qui si evidenzia lo stretto rapporto con l’evento della risurrezione. In nessun altro testo del NT troviamo un legame così esplicito tra rigenerazione e risurrezione, anche se le premesse possiamo già coglierle nel primo discorso di Pietro il giorno di Pentecoste. La risurrezione di Gesù appare come il parto di una nuova vita: “Dio lo ha sciolto/liberato dai lacci della morte perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24). Ma questo parto non riguarda solo Gesù, riguarda anche noi. Perciò la nostra speranza è detta “vivente”, come il Risorto. 

Ora la consapevolezza di essere partecipi della vita stessa del Risorto riempie di gioia i credenti, pur nelle avversità e sofferenze di ogni tipo. La speranza intreccia di gioia il difficile quotidiano di coloro che amano e credono in Gesù “pur senza averlo visto” (cfr. 1Pt 1,6-8).

 

Speranza che cinge i fianchi della mente 

Sulla base del dono, Pietro illustra le esigenze fondamentali della nuova vita, passando dall’indicativo all’imperativo. E non è certamente a caso che il primo imperativo sia: “sperate!” (elpisate, 1,13). Emerge non solo l’importanza del tema, ma anche la forte coerenza tra dono e responsabilità. Se siamo stati rigenerati a una speranza viva, allora il primo compito è proprio quello di sperare in modo pieno, perfettamente. Ma come attrezzarsi a tale scopo? Pietro utilizza il linguaggio simbolico, preferisce le immagini ai concetti astratti[9]. Peccato che queste immagini, decisamente ardite, vengano a perdersi nella traduzione. Letteralmente la prima parte del v. 13 suona infatti così: “Perciò, avendo cinto i fianchi della vostra mente, restando sobri, sperate…”. 

L’esortazione muove da un’immagine fortemente evocativa per gente familiare alle Scritture. Il pensiero corre alla notte dell’esodo, quando gli Israeliti dovevano cingersi i fianchi e mangiare in piedi l’agnello pasquale, pronti per la partenza: “Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la pasqua del Signore!” (Es 12,11). Su questo sfondo comprendiamo la forte dimensione esodale e pasquale che caratterizza l’esortazione di Pietro. La veste lunga è d’impaccio quando si deve camminare e combattere, ma anche quando si deve lavorare e servire. Perciò la si tira su e la si annoda ai fianchi. Ricordiamo la parabola del servo al quale il padrone ordina: “Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi” (Lc 17,8). Gesù stesso durante la cena pasquale si è cinto i fianchi con un asciugatoio e ha lavato i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,4-5). Cingere i fianchi è dunque metafora di esodo, di combattimento e anche di servizio[10]

Ciò che è tipico e più colpisce nell’esortazione di Pietro è la trasposizione dell’immagine: dai fianchi del corpo a quelli della mente. Ma cosa significa “cingere i fianchi della mente”? Significa che lo sperare di cui si parla esige una mente disciplinata e vigilante, capace di intelligenza e discernimento, per non perdere di vista l’essenziale, lo scopo supremo della vita. Si tratta di porre tutta la speranza “in quella grazia (charis) che ci sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà” (v. 13b). 

La speranza sbilancia verso il futuro, è decisamente protesa in avanti, verso il compimento escatologico, verso l’eredità incorruttibile conservata nei cieli (cfr. v. 4). Ma questa tensione non è fuga dalla storia, è invece responsabilità per questo mondo. Impegna a vivere in termini alternativi, di coraggioso anticonformismo: non conformatevi… ma diventate santi! Il non-conformismo è vocazione sempre attuale per il cristiano e si esprime positivamente nella santità: “ad immagine del Santo che vi ha chiamati diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta” (vv. 14-15). La speranza cristiana deve informare quel diverso stile di vita che manifesta nel quotidiano lo splendore del Santo[11].

 

Speranza che sostiene il vivere straniero 

La speranza sostiene il vivere da stranieri nel tempo della paroikia (1Pt 1,17), voce da cui deriva il termine “parrocchia” ma che nella Prima lettera di Pietro indica la condizione tipica di chi è paroikos, cioè “forestiero, residente temporaneo”. Già nell’indirizzo i cristiani sono qualificati “stranieri” e in 2,11 sono esortati a vivere come “stranieri e pellegrini”. E in quanto pellegrini della speranza dobbiamo ricordare il caro prezzo della nostra libertà: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio” (1Pt 1,18-21, secondo la nuova traduzione CEI). 

Pietro sviluppa la sua esortazione in stretto parallelismo con l’esodo e la pasqua ebraica. Cristo agnello richiama il nuovo esodo dei credenti, facendo memoria del caro prezzo della redenzione: “il sangue prezioso di Cristo”. L’espressione “come agnello” evoca sia l’agnello pasquale (Es 12,46) che la figura del Servo del Signore: “era come agnello condotto al macello… e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Cristo agnello, al centro del mirabile piano di salvezza, concepito prima ancora dell’origine del mondo. La nostra speranza è ancorata in quel Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria. 

«La Chiesa e i credenti sanno di annunciare e portare una grazia che non possiedono in proprio, ma di cui sono a loro volta gratificati, “liberati… con il sangue prezioso di Cristo” (1Pt 1,18-19). Non hanno altro da proclamare: a partire dalla risurrezione di Gesù, la vita donata con lui e come lui è il fine della persona, il futuro della società e il motore della storia» (Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, n. 2). 

 

La speranza che è in noi 

Pietro punta sulla forza della testimonianza, sul fascino di una bella condotta di vita[12]. Ritiene che quanti hanno chiuso l’orecchio alla predicazione del Vangelo e denigrano i cristiani come “malfattori” possono ricredersi di fronte ai fatti, alle “belle opere” dei credenti e giungere a glorificare Dio (cfr. 1Pt 2,11-12). Propone una via diversa rispetto all’apologetica tradizionale[13]. Non il contrattacco verbale, ma la capacità di suscitare interrogazione. Bisogna stare responsabilmente al proprio posto nella società contrastando la violenza del male con la forza persuasiva del bene, con l’amore e la pazienza del Cristo che “patì Giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio” (cfr. 1Pt 3,18). Il fascino di un comportamento impregnato di mitezza e di bontà può sollecitare ripensamento e interrogazione circa la speranza che abita i cristiani. 

“Chi potrà farvi del male se diventate zelanti del bene?” (1Pt 3,13). L’apostolo incoraggia a liberarsi dal vedere nemici ovunque. Niente cedimenti al vittimismo. D’altro canto Pietro non è così ingenuo da ritenere che gli operatori di pace e di giustizia avranno vita facile e tranquilla. La possibilità che si verifichi il contrario è quanto mai attuale. Ma in tal caso i credenti sanno di essere sulla strada tracciata da Gesù, sulla via delle beatitudini: “Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!” (1Pt 3,14; cfr. Mt 5,10). 

Egli incoraggia a non lasciarsi intimorire dalle minacce dei potenti: “Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate (letteralmente santificate) il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). La domanda può venire da chiunque. Il comportamento diverso rispetto a quello corrente solleva l’interrogazione circa il senso che guida l’orientamento di vita dei cristiani, ovvero sulla loro speranza. E allora bisogna essere pronti a dare risposta: la speranza che è in noi si spinge oltre. Oltre le pur grandi speranze di una società più giusta e migliore per tutti. La speranza che ci abita varca la soglia della morte, è speranza di vita eterna. 

All’inizio della lettera, Pietro ha invitato a cingere la mente per sperare in modo pieno e perfetto; ora porta l’attenzione sul cuore, dove la persona gioca i suoi sentimenti e la sua libertà. Adorate Cristo nel cuore! È Lui la nostra speranza, il Vivente nei nostri cuori. La comunità cristiana può allora davvero cantare la gioia di Pasqua: Surrexit Christus spes mea

 

Note 

[1] La versione italiana della sequenza recita: “La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti”. 

[2] Che comunque la Maddalena non fosse sola traspare anche dal quarto evangelista. Lo si evince dall’affermazione concitata posta in bocca alla protagonista: “Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto” (Gv 20,2). Quel plurale – “non sappiamo” – allude evidentemente alla presenza di altre donne.

[3] Cfr. K. WENGST, Il Vangelo di Giovanni, “Queriniana”, Brescia 2005, pp. 731-739. 

[4] J.MATEOS – J. BARRETO Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella Editrice, 4 ed., Assisi 2000, p. 802. 

[5] La Pasqua di Gesù attua la capacità di diventare “figli di Dio” annunciata già nel Prologo: cfr. Gv 1,12. 

[6] Il terzo evangelista dice espressamente che Maria di Magdala e compagne non furono credute: “Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse” (Lc 24,11). 

[7] In un certo senso anche la sua lettera è un dare ragione della speranza. Pietro infatti, quale “testimone delle sofferenze di Cristo” (5,1) scrive per incoraggiare (parakalôn) e attestare (epimartyrôn) ciò che è vera grazia di Dio (cfr. 1Pt 5,12). 

[8] La seconda occorrenza del verbo anagennaô evidenzia un rapporto diretto con la Parola: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, mediante la parola di Dio che è viva ed eterna” (1,23). Dopo un’ampia citazione del profeta Isaia che contrappone alla fugace gloria umana l’eterna stabilità della parola divina (cfr. Is 40,6-8), Pietro conclude: “E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato” (1,25). Cfr.  E. BOSETTI, “La Parola che dura in eterno: risonanze della Prima lettera di Pietro nella Dei Verbum” in M. Nardello (ed.), Pensare la fede per rinnovare la Chiesa. Il valore della riflessione del Concilio Vaticano II per la Chiesa di oggi, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 105-123. 

[9] Cfr. E. BOSETTI, Prima lettera di Pietro. Introduzione e commento, EMP, Padova 2004, pp. 27-29; si veda anche G. MARCONI, Prima lettera di Pietro, Città Nuova, Roma 2000; M. MAZZEO, Lettere di Pietro – Lettera di Giuda, nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 2002. 

[10] Perciò cingere i fianchi è metafora di esodo e anche di servizio. Verso la fine della lettera, Pietro torna sull’immagine della veste e la legge in termini di umiltà: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri» (1 Pt 5,5). 

[11]  La citazione di 1Pt 1,16 attinge al Codice di santità (Levitico 19) che si iscrive nel contesto dell’esodo-alleanza. La comunità cristiana partecipa della vocazione originaria di Israele: sottratta al mondo, essa è trasferita nell’ambito di Dio e partecipa della sua santità (cfr. Rm 1,7; Ef 1,15; Ap 5,8). 

[12] Cfr. E. BOSETTI, La condotta «bella» tra i pagani nella prima lettera di Pietro, “Parola spirito e vita” 44 (2001), pp. 127-141; si veda anche E. BIANCHI, Una vita differente. Esercizi spirituali sulla Prima lettera di Pietro, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005. 

[13] Nella Prima lettera di Pietro il termine apologia ricorre solo in 3,15 e fa corpo con la speranza: cfr. E. BOSETTI, “Apologia” in Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 1990, pp. 74-77.