N.02
Marzo/Aprile 2006

Il nome difficile della speranza

Quello della speranza è un nome difficile, come afferma il titolo di questa conversazione. Uno sguardo attento intorno a noi, alla cultura in cui viviamo e una riflessione su ciò che accade dentro di noi non può che dare ragione a quest’affermazione: quello di oggi è un tempo difficile per l’esercizio della speranza. 

Mentre andremo alla ricerca dei segni di crisi della speranza, cercheremo anche di capire se non ci sia un equivoco, nella cultura dei cristiani e nella spiritualità della Chiesa, che ha portato all’attuale crisi; e se non ci sia bisogno che i cristiani, per quel supplemento di luce che hanno dalla fede, si impegnino a dire quelle originali ragioni di vita e di speranza che possono contribuire a rilegittimare, nell’esperienza delle persone di oggi, il lessico del futuro e della felicità. 

 

Sfide per la speranza 

La condizione della speranza, nel contesto sociale e culturale di oggi, è critica. Il documento Ecclesia in Europa parla di offuscamento della speranza; ne parla chiamando in causa lo smarrimento e la paura[1] che sembrano dominare la percezione che la maggior parte delle persone di oggi prova dentro di sé. 

Mi pare che la percezione più diffusa nelle persone comuni, così come nella riflessione culturale, sia quella della disillusione: le attese, la fiducia, la tensione verso il superamento di limiti di ogni genere – naturali, personali, sociali, strutturali…– sono crollate. 

In effetti, la nostra vita ci sembra sempre più compromessa da un limite che oggi chiaramente segna i confini della nostra esistenza, mentre noi siamo più insofferenti nell’accettarlo. Illusi un tempo di poter forzare e vincere con la scienza e le sue scoperte ogni condizionamento, oggi siamo delusi nel constatare che il limite è invalicabile e noi siamo diventati incapaci di abitare quella terra di confine che ci tiene al di là della rassegnazione e al di qua del sentimento di onnipotenza. 

– La scienza e la tecnica, dopo aver mostrato le grandi prospettive che possono aprire, con la ricerca e le sue scoperte, per il futuro dell’umanità, hanno anche fatto sperimentare un imprevisto potere distruttivo, quando non vigili una coscienza etica, che assegni alla scienza confini capaci di salvaguardare l’uomo e la sua dignità. Hanno anche aperto in maniera nuova la questione del rapporto tra natura e cultura: si tratta oggi di individuare il confine oltre il quale l’intervento della scienza trasforma l’uomo in oggetto, modificando così il senso della sua stessa vita. E mentre ci rendiamo conto della grandezza di una scienza che esalta le risorse dell’uomo e libera nuove possibilità di vita, dall’altra constatiamo quanto siano inquietanti le prospettive che essa ci apre; e anche di quanta ricerca sui fondamenti – ricerca filosofica e culturale, etica e teologica – sia necessario accompagnare alla scienza perché questa non abbia domani a mostrare un volto disumano. 

– È entrato in crisi il pensiero utopico e, con il crollo delle ideologie, “il sogno di una società finalmente liberata dal bisogno e dalla necessità” [2] . Il 19893 diviene il simbolo della fine dei totalitarismi che, pur sotto diversi segni, hanno insanguinato il Novecento; lo sbigottimento e la crisi, l’instabilità e la precarietà, insieme ad una nuova coscienza della perdita di un senso della vita, si vanno accentuando. 

– Il male permane nella storia. Abbiamo assistito nella fase più recente della nostra storia a fatti che ci danno la percezione della nostra impotente piccolezza di fronte al male, forza oscura che sembra tenere sotto scacco anche il più potente uomo tecnologico, che non può che assistere impotente alla violenza dello tsunami o del terremoto, dei cicloni o delle inondazioni. Forza inquietante, che sembrava dover essere sconfitta da se stessa e dai propri eccessi dopo la seconda guerra mondiale e che invece ha fatto registrare tragedie ancora più devastanti: genocidi, guerre continue, atti di terrorismo, di cui quelli dell’11 settembre 2001 sembrano essere diventati un simbolo. E a queste tragedie, che fanno cronaca, si aggiungono quelle oscure in cui vengono annientati milioni di vite umane dalla violenza della fame e dell’ingiustizia, del potere e della sopraffazione. Quale fiducia è ancora possibile nell’umanità e nel suo futuro? E dov’è Dio? Perché Dio tace? 

– E poi: che senso ha vivere, se la nostra vita è inesorabilmente incam-minata verso una morte che è il dissolvimento di tutto? Compimento nel nulla di una vita senza senso? Meglio dimenticarsi della morte e spremere dall’oggi il massimo di ciò che esso può dare! La morte, come esperienza umana e come esperienza della mia morte e delle persone che mi sono care, se è percepita come l’ultima parola sulla vita, ci fa vivere nel piccolo cabotaggio di un presente povero di spessore e di slanci. Contro la morte s’infrange il nostro desiderio di futuro, ma anche la speranza di pienezza, di felicità e d’eternità che c’è nel cuore d’ogni persona. 

 

Eppure il desiderio di vita piena e “per sempre” che c’è nel cuore umano è insopprimibile e continua ad alimentare atteggiamenti d’attesa. Mi piace dirlo con le parole di don Primo Mazzolari: “La vita di ognuno è un’attesa. Il presente non basta a nessuno. In un primo momento pare che ci manchi qualcosa, più tardi ci accorgiamo che ci manca Qualcuno. E lo attendiamo”. 

Si aspetta come Vladimiro ed Estregone, di Aspettando Godot, senza sapere né chi sia Godot, né da dove venga, né quando. In attesa, Vladimiro ed Estregone si scambiano parole e gesti assurdi e senza senso. 

Si aspetta qualche leader – soprattutto politico – che risolva tutti i problemi, simbolo delle domande ed espressione delle insoddisfazioni che ci sono dentro di noi; o si proietta su qualche personaggio, mitica figura della donna e dell’uomo di successo, il bisogno di realizzare i propri sogni di grandezza. 

Attese tragiche e attese banali, espressioni di quel messianismo che da sempre attraversa la storia umana e che, privo dell’orizzonte della trascendenza, ricade su se stesso mostrando tutta la sua vacuità. 

Oggi la nostra speranza è messa alla prova dalla delusione, dallo scoraggiamento, dalla paura e dal senso di impotenza che prende davanti ai grandi drammi dell’umanità o davanti alle esperienze critiche della nostra vita personale. 

Ma senza speranza e senza fiducia nella vita anche le ordinarie esperienze di ogni giorno – il lavoro, l’amore, la responsabilità, le relazioni, la politica, l’impegno…– perdono di qualità.

 

Una crisi feconda 

La speranza dei cristiani 

“Questa parola è rivolta oggi alle Chiese in Europa, spesso tentate da un offuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo” (Ecclesia in Europa, 7). 

I cristiani condividono lo smarrimento, l’incertezza, la fatica di tutti a guardare con fiducia la vita e le sue possibilità. Del resto, essi sono persone del loro tempo e non c’è da meravigliarsi che essi siano raggiunti dalle stesse domande che riguardano tutti; anzi, forse si può dire che questa sia la condizione provvidenziale che permette loro di attraversare l’inquietudine del nostro tempo lasciandosi colpire da tutto ciò che esso contiene, come ogni uomo. Il Vangelo non è un salvacondotto che ci fa passare insensibili e indenni per le prove della vita, ma una forza per attraversarle, sperimentandone anche tutta la durezza. Solo così potremo maturare dentro di noi ragioni più forti e profonde, per una speranza purificata, vera, personale; forse in questo modo potremo anche sentir nascere dentro di noi parole nuove e vere, per narrare non di una speranza che abbiamo imparato, ma di una speranza che abbiamo sentito generarsi nel nostro cuore. 

La crisi di speranza dei cristiani riguarda anche le sorti della fede nel mondo di oggi. Essi mostrano spesso il senso smarrito di chi si chiede: “siamo gli ultimi cristiani?” o “c’è un futuro per la fede?”; e la loro risposta a questa domanda sembra talvolta prendere corpo in atteggiamenti di negazione dei problemi o di autodifesa; o nel rassegnato consegnarsi agli eventi, quasi essi fossero il volto nuovo di un Erode di oggi; o nell’affaticato darsi da fare, quasi che il futuro della fede e della Chiesa dipendessero dall’intensità, dalla vivacità e dalla potenza del nostro impegno. 

Il nostro è un tempo di prova per i cristiani e anche per la Chiesa. 

 

La prova della speranza per le nostre comunità ecclesiali 

Anche le nostre Chiese oggi sono chiamate ad affrontare una prova della speranza. 

– Prova della speranza è essere coinvolti in una sofferenza davanti alla quale non si sanno pronunciare parole di fiducia e di futuro. 

-Prova della speranza è non saper trovare parole per dare senso a ciò che si sta vivendo. 

– Prova della speranza è essere tentati di aggrapparci alle nostre azioni, alle nostre attività, alla nostra capacità di iniziativa. 

– Prova della speranza è non riuscire a farsi carico del vuoto del cuore delle persone che ci vivono accanto. 

– Prova della speranza è non riuscire a credere all’impossibile di Dio e cercare solo nelle possibilità umane le ragioni di fiducia nella vita e nel domani. 

– Prova della speranza è l’essere chiusi alla novità, e non riuscire a pensare che Dio si manifesta in modi imprevedibili, laddove noi non penseremmo; e per questo non saperlo cercare e attendere dove non immaginiamo che si manifesti.

– Prova della speranza è il non saper attendere, è il non conoscere la pazienza e i tempi lunghi della vita nuova, che germoglia nel buio e nel freddo della terra, passando attraverso la morte come il chicco di grano.

– Prova della speranza è l’indifferenza diffusa che ci rende gli altri lontani, ci dà l’impressione di non poter entrare in comunicazione. Come ai due di Emmaus, anche dentro di noi si fa strada la delusione: noi speravamo… che il nostro modo di pensare la vita potesse affascinare i nostri fratelli; noi speravamo… che la nostra visione della vita fosse in grado di dare ad essa pienezza. Noi speravamo…! L’indifferenza di tanti, oggi insinua nel nostro cuore il dubbio, e con esso lo scoraggiamento, la sfiducia, il ripiegamento su noi stessi. 

 

Perché oggi è così difficile sperare, anche per i cristiani? Se facciamo un esame di coscienza serio, forse troviamo che ne è responsabile una scarsa cura dell’interiorità; una non sufficiente salvaguardia della dimensione spirituale della vita; un senso troppo scarso dell’originalità della vita cristiana e un modo superficiale e scontato di vivere la fede: troppo poca spiritualità e troppo poca cultura! 

Ci siamo distratti rispetto al compito della formazione interiore e alla sua severità, l’unica vera risorsa per poter restare saldi nel credere alla visione della vita che ci viene dalla fede e per affrontare la testimonianza cristiana in un contesto che ci mette alla prova e ci lusinga con le sirene della “salvezza” mondana. 

 

Fecondità della crisi della speranza 

«Credo esista nella Chiesa d’oggi una reale crisi di speranza. Sono molti, compresi sacerdoti e vescovi, coloro che sono scoraggiati e fatalisti. Ma tutta la storia della Chiesa è una storia di crisi della speranza. Dobbiamo passare attraverso questa crisi perché ciò che noi speriamo è al di là della nostra immaginazione, oltre ogni nostro sogno. Così Dio demolisce ogni “speranza” per condurci ad una “speranza” più profonda. È come il crescere. Bisogna affrontare il dolore di lasciarsi dietro una tappa della vita (l’infanzia, l’adolescenza…) per giungere a una nuova. È una crisi, ma chi cresce ha sempre speranza. (…) In effetti, ci dovremo preoccupare soprattutto quando non ci sarà più alcuna crisi di speranza!» (Radcliff). 

Questo pensiero ci aiuta ad attraversare la crisi di speranza d’oggi, non come una maledizione, ma come un’ora di Dio, come l’appuntamento che il Signore ci dà per rinnovare la nostra capacità di essere fedeli a lui, restando fedeli alla storia del nostro tempo. La crisi della speranza in cui siamo immersi oggi è provocazione ed è occasione per purificare la nostra speranza, per ritrovare il valore della vita e la sua tensione ineliminabile verso la pienezza. 

Nel modo comune di pensare, la speranza spesso è pensata come la possibilità auspicata di uscire da una condizione di bisogno, di difficoltà, di sofferenza; o con la realizzazione delle nostre aspirazioni; è il desiderare che la vita vada secondo i nostri piani, e si esprime nello sforzo di tenere tutto sotto controllo, di allontanare ogni possibile fonte d’incertezza. Con questo modo di pensare la speranza, l’unico obiettivo sarà quello di restare a galla, di avere fortuna, di godersela per quanto si può… 

Questo modo di pensare la speranza secondo il comune buon senso ha qualcosa di “materialistico”, è tutto terreno e non ha certo bisogno di fede. A fronte di tale modo di concepire, così diffuso anche tra i cristiani, si avverte la necessità di purificare il nostro pensiero e la nostra coscienza di speranza, affinché possa esprimere tutta l’originalità dell’esperienza di chi si sente forte perché amato da Dio. 

 

Sperare da cristiani 

Sperare da cristiani non significa aspettarsi un futuro nel quale tutti i problemi siano risolti. È un’esperienza molto diversa, e al tempo stesso più grande. 

Il cristiano crede che la sua vita cammina verso la pienezza e la storia verso il suo compimento. È l’atteggiamento dell’ingenuo, il suo, che non conosce le fatiche e le sconfitte della vita? È uno che ha chiuso gli occhi sul male devastante che continua ad essere presente nel mondo e che sembra, in taluni casi, aver reso più raffinata la crudeltà del suo accanirsi sull’uomo e sul mondo? È un imperdonabile ottimista che non ha imparato a fare i conti con la realtà? Potrebbero essere tutte obiezioni legittime se la speranza cristiana fosse fondata sull’evoluzione positiva della storia; ma non è così. La pienezza verso cui cammina il cristiano è fondata sulla promessa di Dio e sulla forza con cui ha vinto per sempre il male e la morte nel mistero della Pasqua di Gesù. La forza che si è manifestata nella risurrezione di Gesù è in grado di compiere ciò che è umanamente impensabile e impossibile. 

La speranza del cristiano dunque è il suo sentirsi accompagnato dalla presenza di Dio; il sapersi e sentirsi amato da un Dio che cammina con gli uomini dentro la storia umana e che per questo si è fatto uomo. La parola inaudita della storia è che Dio “spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 7) e rivelando all’uomo quanto gli sta a cuore la sua vita. 

La forza del cristiano è quella straordinaria di chi si sa amato. 

Un cristiano per questo tempo è dunque quello che, mettendo al centro della sua vita il mistero della Pasqua, ha forza per stare nell’incertezza, senza ambire ad uscirne: «noi speriamo radicalmente non di possedere, raggiungere, ottenere questo o quello, ma esattamente l’opposto. (…) Noi speriamo di poter resistere nell’essere in-securi, non assicurati. È l’inquietudine del cuore di Agostino: “non essere mai a casa, sempre in cerca, in attesa” »[4]

 

La speranza è dei piccoli

Dov’è l’evidenza della presenza di Dio nella storia? Come si può dire che Dio ama l’uomo se tanti uomini vivono nella sofferenza? …se due terzi dell’umanità soffrono fame e ingiustizia? …se milioni di bambini muoiono di guerra, di fame e di abbandono? …se milioni di adolescenti oggi non hanno visto nella loro vita altro che violenza e armi? …se tanti giovani muoiono di noia e di solitudine?… 

A queste domande non c’è risposta di ragionevole buonsenso, se non la decisione di Dio che si fa bambino nella mangiatoia di Betlemme: bello e fragile come ogni bambino, ultimo tra tutti i bambini. Inizia da una culla improvvisata, la vita del Figlio di Dio. Non è un bimbo prodigio, anche se la sua vita è circondata da prodigi; è un bimbo normale come tutti, che piange, mangia, dorme, sorride, gioca… Nei suoi occhi vi è la fiducia con cui ogni bambino guarda agli altri e alla vita; nei suoi atteggiamenti, la disponibilità ad abbandonarsi disarmato alle braccia di chi gli vuole bene. Come ogni bambino, non esprime la pienezza ma il bisogno: ha bisogno degli altri e senza di loro non potrebbe nemmeno sopravvivere. Il Bambino Gesù ci presenta il volto debole di Dio che nasce tra i poveri, è vittima del potere e del male, conosce l’esilio, la solitudine, il rifiuto. È l’aspetto più sconcertante del volto di Dio, quello che contrasta con l’immagine che ci siamo fatti di lui fin da piccoli, quando al catechismo abbiamo imparato che Dio è l’Onnipotente. Dentro di noi c’è un Dio con in mano una bacchetta magica; e Dio viene a noi invece nell’impotenza della croce: “Dio è impotente e debole nel mondo e così e solo così rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza” (Bonhoeffer). Solo questo Dio-Bambino può fondare la nostra speranza. 

Ma nulla prova che quel bambino uguale a milioni di bambini, nati poveri come lui, sia il Figlio, sia Dio che si fa Fratello Universale. Solo il cuore capace di aprirsi all’imprevedibile e all’inatteso può riconoscere in lui Dio che sceglie di stare con noi e sperimentare la forza che questa certezza genera. Solo i piccoli – i bambini, i poveri, gli umili – possono fare esperienza della presenza di Dio: solo i piccoli, dunque, possono sperare. Questo bambino, cresciuto, un giorno dirà: “se non diventerete come bambini…”, non comprenderete mai quanto Dio sia vicino al cuore dell’uomo. 

Il bambino è un piccolo essere che ha fiducia in tutti; per questo pensa che gli altri non possano non prestargli attenzione e prendersi cura di lui, perché lui esiste e ne ha bisogno. Un bambino si considera istintivamente la cosa più importante della terra: piange perché ha fame, ed è naturale per lui aspettarsi che gli altri accorrano, e si prendano cura di lui. Con questa spontanea fiducia i bambini si accostano a Gesù, ritenendo naturale che lui li accolga, li ascolti, si dedichi a loro. Rimproverando i discepoli che vorrebbero allontanare i bambini, Gesù ci insegna il valore di questa infantile fiducia originaria e ci invita a considerare questo atteggiamento come il modello del nostro rapporto con Dio. Il bambino non conosce limiti ai propri sogni, e quasi non distingue tra il sogno e la realtà. Un bambino vive dei propri sogni e vede ciò che gli altri ancora non vedono, e che non vedranno mai, se non sapranno liberarsi dalla pretesa di ridurre tutto alla logica apparente e superficiale del comprensibile. Il Piccolo Principe di Saint-Exupery vede nel disegno del pilota, che ha incontrato nel deserto, un elefante, un boa o una pecora… perché vede con gli occhi del cuore, che sanno scorgere l’invisibile. 

È un’altra versione dell’espressione pascaliana: “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non comprende”. 

 

La felicità di coloro che sperano 

Il bambino di Betlemme, riconosciuto dai pastori – anch’essi tra i piccoli e gli umili – diventato grande, dirà dov’è il segreto della felicità. Dirà: “beati voi, poveri, perché voi siete vicini a Dio; beati voi che andate in fuga, respinti dall’umanità. Siete come il Figlio dell’uomo, che non ha dove posare il capo e non ha avuto una casa in cui nascere. Ma voi venite a me nella vostra stanchezza, e io vi prenderò con me nella casa del Padre mio. Beati voi che al di là dei ruoli ufficiali e dei legami sociali, sapete riconoscere che c’è un legame più forte, non imposto da nessuno, che unisce gli uni agli altri, perché siamo tutti figli dello stesso Padre; beati voi che piangete; voi che sapete ancora soffrire, che rifiutate lo stordimento per non avvertire il dolore: siete vicini al regno di Dio”. 

La strada della felicità passa da Betlemme, dove è possibile riconoscere l’essenziale. Da Betlemme passa la strada della speranza, legata alla nascita di un bambino, che fa rinascere ciascuna donna e ciascun uomo che accoglie il suo mistero. Da Betlemme si impara a vedere ciò che gli altri non vedono; si allena lo sguardo a vedere l’invisibile; a riconoscere nel povero la dignità dell’essere umano; a vedere oltre i ruoli il fratello; a riconoscere nei segni incerti di bene il regno di Dio che inizia a compiersi; a vedere nel tempo la dimora di Dio, presente oggi nella storia umana. Felice – beato – colui che accoglie, con il bambino di Betlemme, questo sguardo sul mondo. Beato è chi trova questo centro e non lo lascia, riconoscendo in esso il suo tesoro, la sua consolazione, la sua forza, la sua fonte di vita, la sua fiducia: beato chi non si scandalizza di un Dio così diverso dalle attese del buonsenso comune. 

Questi testimoni di speranza dicono anche oggi che c’è un futuro per il mondo. 

 

Vivere nella speranza 

Dire nella vita la fede nel Risorto 

Si può dire che la speranza sia la declinazione esistenziale, quotidiana, di una fede nel Risorto che non è astratta affermazione dogmatica, ma è certezza vissuta e ritrovata dentro la trama dell’esperienza di ogni giorno. Se il Signore è risorto, ogni giorno è possibile ricominciare; la novità è possibile e già oggi essa si annuncia nei segni discreti del bene, che si rivelano al cuore di chi è piccolo e si affida all’azione di Dio, ai suggerimenti dello Spirito, alle intuizioni del cuore, all’amicizia dei fratelli. 

Già oggi è possibile contribuire a rafforzare questi segni di bene, a rendere storica la risurrezione del mondo, vivendo secondo la logica paradossale della Pasqua, che giorno per giorno si esprime nel perdono, nel servizio al bene, nella fiducia disarmata nell’altro, nella gratuità oltre ogni convenienza. 

 

Il lessico della speranza 

La speranza si annuncia nel sogno. Essa è ben più di un sogno sul mondo, eppure ha bisogno di sogno. Diceva il cardinal Leon Joseph Suenens, uno dei moderatori al Concilio Vaticano II: “Felici coloro che osano sognare e che sono disposti a pagare il prezzo più alto perché il sogno prenda corpo nella vita degli uomini”. È questa duplice capacità che rende persone di speranza: i sogni costano, spesso si pagano in una realtà incapace di far spazio ad un “oltre”. Simili sogni generano vita, mettono in moto tutte le energie, allungano la vista. C’è chi ha definito i sogni come “una verità travestita. Sotto quegli abiti stravaganti c’è un corpo vivo”. Sognare non è una fuga, ma un balzo in avanti. Il sogno ha la stessa radice della fede: nessuno può sognare se non crede in qualcosa di buono. Tutti i progetti nascono da un sogno. E tutti i progetti devono fare i conti con gli imprevisti, le delusioni, gli insuccessi, i nostri errori. La speranza è di coloro che non si fermano nonostante tutto questo; di coloro che già vedono la casa quando solo ci sono i disegni; la riconciliazione mentre ancora siamo divisi; la vita dove tutto parla di morte… e il nostro sogno, pensiero libero e audace su noi stessi, sulla vita e sul futuro, contribuirà a svelare il sogno e i progetti buoni dei nostri fratelli. 

Il sogno di M.L. King ha aiutato tanti a prendere coscienza del valore di un mondo di fraternità e di giustizia e ha creato un movimento che ha contribuito a rinnovare il suo paese e a diffondere valori di pace e di non violenza nel mondo intero. “Sogno un luogo in cui i bambini e le bambine, neri e bianchi, possono tenersi per mano e camminare insieme…. Sogno un mondo dove riusciremo a lavorare insieme, a pregare insieme, a lottare insieme, ad andare in prigione insieme, per difendere la libertà insieme, sapendo che un giorno saremo liberi…. Sogno che un giorno riusciremo ad estrarre dalla montagna della disperazione una pietra di speranza”. 

Per essere veri sognatori e non visionari occorre riconoscere il sogno nei segni esteriori, anche i più piccoli, quelli che si celano nella povertà e nella pochezza; occorre l’umiltà di inchinarsi davanti a ciò che appare insignificante; la pazienza di lasciar maturare ciò che è piccolo; il coraggio di catturare il sogno là dove i sensi falliscono. 

La speranza si alimenta di desiderio, che è il nostro modo di non restare passivi di fronte alla realtà e di continuare a volerla bella e piena com’è nel disegno originario di Dio. Certo non coincide con i nostri desideri, eppure ha bisogno dei nostri slanci, dell’audacia del cuore e del suo mai essere sazio. Maria, Zaccaria, Elisabetta hanno avuto non semplicemente dei desideri: essi hanno avuto fiducia che qualcosa si sarebbe compiuto secondo la promessa. 

La speranza si coltiva nell’attesa; va ben oltre le nostre attese, eppure ha bisogno di un cuore desto e vigile. Oggi è difficile attendere, perché abbiamo molte paure: di noi stessi, dei nostri sentimenti interiori, degli altri, del futuro. Più paura abbiamo e più penoso è attendere. Sono segni di speranza vigile le persone che hanno maturato e vivono un atteggiamento costante di fiducia nella vita, per discernere nell’intreccio delle sue circostanze la voce dello Spirito che chiama; portano speranza le persone che sanno scommettere sul dialogo anche quando si fa difficile, in ogni ambito di vita, dalle relazioni familiari a quelle politiche ed ecclesiali; vivono la speranza gli uomini e le donne che vivono la sofferenza – scuola di cui prima o poi ciascuno diventa alunno – trasformandola in una pagina di Vangelo eloquente e forse anche scandalosa. 

La speranza ha bisogno di impegno, anche se il suo oggetto non è frutto delle nostre conquiste, ma è puro dono. Vivono la speranza quegli uomini e donne che si danno da fare, perché credono che ciò che stanno aspettando sta già germogliando nella storia. A volte la speranza dei cristiani è stata ritenuta fonte di disimpegno sociale e di alienazione personale. Al contrario, chi spera si impegna nel mondo. La preghiera, l’Eucaristia, la Parola di Dio generano condivisione, compassione per il mondo, servizio ai deboli e agli stranieri, capacità di pagare di persona. Chi spera crede che valga la pena lottare per vivere nel bene che si ama e per opporsi a ciò che lo contraddice. Chi spera cerca anzitutto la condizione che anticipa il ritorno di Cristo: il rapporto con lui ci fa persone di speranza. Per annunciare la speranza occorre dunque il coraggio di scelte radicali, per non sentirsi dire un giorno: “Conosco le tue opere. Non sei né freddo, né caldo…” (Ap 3,15-16). 

Gli uomini e le donne di speranza non sono degli attivisti, affannati esecutori di programmi tutti umani. Sono come Giorgio La Pira che, quando era impensabile, portava avanti progetti di pace e di dialogo. I testimoni della speranza vivono come vedendo l’invisibile: ciò che il cuore, il desiderio, il sogno, l’intuizione interiore rendono visibile. Vivono riconoscendo nelle scintille di bene che sono attorno a noi – ovunque esse brillino – i segni della presenza di Dio, sapendoli riconoscere, raccogliere, conservare e ricomporre. 

Scriveva Madeleine Delbrel: “Sperare è ben più che desiderare, e noi spesso confondiamo l’una cosa con l’altra. Sperare è attendere ciò che la fede ci fa conoscere; si tratta, sì, di cosa oscura, ma incomparabilmente più piena. Sperare è attendere con illimitata fiducia qualcosa che non si conosce, ma da parte di Colui del quale si conosce l’amore”.

 

Conclusione 

La nostra riflessione ha preso le mosse dalla consapevolezza di quanto l’esercizio della speranza, in un tempo di transizione e di crisi come questo, sia difficile: è tale soprattutto quando lo sperare non riesce ad andare al di là delle speranze tutte umane che ambiscono alla soluzione dei problemi – spesso seri e gravi – che ciascuno incontra nella sua vita. 

Ma l’approfondimento dell’originale natura della speranza cristiana non può non portarci a concludere che il nome della speranza è affascinante. Esso racchiude in sé tutta la grandezza della vita umana: il suo essere nel tempo, eppure protesa oltre il tempo; la sua bellezza, come riflesso della Bellezza che è la sua vocazione e il suo compimento; il suo essere fragile, eppure avvolta dall’Amore di un Dio che si è fatto uomo per camminare accanto ad ogni uomo. Tutto questo non può che liberare da ogni paura, far sperimentare la vastità del cuore umano e aiutare ogni donna e ogni uomo a camminare lievi verso la pienezza di cui hanno ricevuto la promessa. 

 

Note 

[1]Ecclesia in Europa, n. 7 e 8.
[2R. PITITTO, Ad Auschwitz Dio c’era, Studium, p. 16.
[3] Cfr. CA, nn. 22-29.
[4] M. CACCIARI, La speranza è nomade, in “Vivere la speranza nella società globale del rischio”, EMI 2004, pp. 20-21.