N.02
Marzo/Aprile 2006

Vedere, incontrare, comunicare il Risorto: quale comunità cristiana?

C’è un presupposto alla riflessione che intendo proporre: non c’è alcuna pedagogia della vocazione senza testimonianza, perché l’imperativo della sequela è sempre debole, e di solito perdente, senza l’indicativo della vita. Naturalmente quando ci poniamo l’interrogativo “quale comunità cristiana?” per creare le condizioni per una fioritura vocazionale, per una risposta costruttiva delle nuove generazioni, non si evoca un’espressione astratta, ma pertinente, puntuale, e persino documentata. 

E qui mi permetto di citare un’indagine recente. Quest’anno nella Regione Piemonte è stato pubblicato un piccolo documento dal titolo Pregate il padrone della messe, per orientare il cammino di pastorale vocazionale nelle nostre Chiese particolari; è uno strumento creato e cresciuto induttivamente, a diversi livelli, con il contributo dell’esperienza di persone accomunate dalla passione educativa. Il testo è introdotto da un’indagine fra tutti i novizi e novizie dei nostri conventi e monasteri, nonché presso tutti i seminaristi. La domanda polarizzante si poneva in questi termini: “Quale esperienza è stata determinante in ordine alla tua decisione di entrare in seminario, o in convento?”. Le persone che hanno risposto sono state 273; e dall’indagine è emersa con chiarezza solare l’importanza decisiva degli incontri con testimoni significativi, dell’accompagnamento spirituale e della vita parrocchiale. Altre esperienze come il volontariato, i campi scuola, le giornate mondiali della gioventù…figurano chiaramente dopo. 

Speculare all’indagine piemontese è la ricerca attuata in qualche altra regione d’Italia, come ad esempio il Veneto. Tutto ciò sta a significare che la comunità parrocchiale, l’antica fontana del villaggio, che attraversa i secoli a partire dal V, è ancora in grado di garantire l’acqua viva di una fede che diventa incontro concreto, progetto di vita, dono per i fratelli, promessa di futuro, zampillo di speranza nel solleone del secolarismo. 

Se la pastorale vocazionale deve ritrovare l’essenziale dentro i progetti “perfetti” delle nostre chiese, queste tre priorità – testimonianza, parrocchia, direzione spirituale – sono decisive in ordine al superamento della crisi; queste sono priorità che devono diventare cultura, prassi ordinaria; diversamente si rischia di girare attorno al problema. 

Mi permetto dunque di tratteggiare previamente il percorso di questa riflessione: 

– anzitutto parto da due icone bibliche: la comunità di Filadelfia e la comunità di Laodicea dell’Apocalisse, che possono evocare la condizione feriale delle nostre comunità cristiane, per porci una domanda: “quale comunità cristiana al servizio della speranza?”; 

– mi chiedo poi quale possa essere “oggi” la via maestra per ridire al mondo la “differenza cristiana” e per provocarlo a porsi domande; 

– in terzo luogo tratteggio alcuni sentieri di conversione, urgenti per costruire comunità della speranza e feconde nel generare nuove vocazioni; 

– in quarto luogo mi fermo sull’Eucaristia, non solo come sorgente, ma come progetto di una comunità della speranza per nuove vocazioni; 

– e infine una domanda: a quale condizione il “progetto eucaristico” può diventare “programma” di pastorale vocazionale ordinaria? 

 

 

Quale comunità cristiana a servizio della speranza? 

Vorrei qui abbozzare due icone, evocative di due culture, di due situazioni davanti alla parola interpellante del Cristo Risorto, vivente nella sua Chiesa; e per questo vorrei varcare la soglia di due comunità che si trovano alla fine del primo settenario del libro dell’Apocalisse: la comunità di Filadelfia e quella di Laodicea. Nel dialogo Cristo-Chiesa si scandisce un rapporto che risulta esemplare, paradigmatico per il discernimento pastorale all’interno delle nostre comunità ecclesiali. Lo sguardo del discernimento evangelico è assolutamente necessario per far crescere i germi di speranza in simbiosi con nuove vocazioni. 

Anzitutto Gesù si presenta alla Chiesa e parla. Questa è invitata a mettersi sotto lo sguardo del Risorto, sotto il segno della sua Parola. Quanto più la comunità cristiana sa confrontarsi con la Parola e diventa cristocentrica, tanto più è viva e feconda. 

II secondo momento è il giudizio del Risorto sulla situazione illuminata dalla Parola. Leggere i problemi è d’obbligo per capire e fare discernimento. Gesù davanti alla Chiesa esprime un giudizio oggettivo, vero, ma con grande amore, salvando con cura il positivo che germina talora in mezzo alla palude più stagnante. 

Ed infine l’esortazione ad andare oltre, nella prospettiva di una promessa che è il fondamento della speranza; e la proposta punta sempre verso due direzioni. Da una parte la conversione, il cambiamento di mentalità. Non mancano certo le opere nell’invito di Gesù alla Chiesa: “compi le opere di prima …” (Ap 2, 5); ma l’azione non è fine a se stessa: richiede il cambiamento profondo del cuore. Dall’altra parte la direzione del cammino: le sette lettere dell’Apocalisse disegnano un itinerario esigente e concreto, dall’impegno a “tornare all’amore di prima” (Efeso) alla vetta della santità (Laodicea), abbandonando le acque melmose della mediocrità.

 

 

La via maestra della “differenza cristiana” 

È risaputo che nei primi tre secoli nella storia della Chiesa, a partire dalla stessa generazione della Prima lettera di Pietro, era il martirio ad interrogare i pagani circa l’identità dei cristiani; dal IV secolo in poi fu l’amore come carità verso i poveri e gli emarginati, che si traduceva in molte opere di solidarietà, a suscitare l’interrogativo su chi fossero i cristiani. Anche oggi si pone una domanda: quale la strada maestra dell’evangelizzazione del mondo? La risposta di Giovanni Paolo II nella NMI è chiara: al desiderio dell’uomo di vedere Gesù, già presente nei pellegrini greci saliti a Gerusalemme 2000 anni fa, corrisponde oggi un preciso impegno dei credenti: quello “non solo di parlare di Cristo, ma in un certo senso di farlo vedere” (NMI, 16). E far vedere Gesù, significa riscoprire la santità “quale grazia speciale offerta da Cristo per la vita di ciascun battezzato” (cfr.  NMI, 30). 

La santità dice la “differenza cristiana”, la vocazione originale: ogni battezzato, nella Chiesa, è chiamato a dire la propria appartenenza trinitaria, il proprio destino, guardando al volto di Gesù nell’esistenza quotidiana. La santità manifesta così la bellezza di una vita evangelicamente vissuta e per questo desiderabile, non omologabile né comparabile con altri vissuti religiosi. Ciò significa “II primato della grazia” (NMI, 38). Per questo la santità non è volontarismo, ma dono di Dio, la sua chiamata negli infiniti istanti dell’esistenza quotidiana, il suo primato dentro l’assillo delle cose. 

La “differenza cristiana”, identificabile oggi con la “misura alta della vita” si coniuga bene con la speranza; perché la santità è il dover essere del credente, il suo andare oltre, il suo essere di più, guardando al modello e rispondendo agli appelli segreti della sua grazia. E così la stessa speranza, come proiezione verso il futuro, entra intrinsecamente a costituire la “differenza cristiana”, soprattutto in un contesto culturale concentrato sul segmento del presente, incapace di cogliere sull’onda della speranza il respiro di una vita nuova, innestata sull’orizzonte sorprendente del Cristo Risorto. La via maestra della differenza cristiana è dunque aperta dalla santità, o da una speranza ricca di santità.

 

 

La conversione pasquale come pedagogia della vita per vedere il Risorto 

È infatti Gesù, il Risorto, il modello presente nel cuore della comunità dell’Apocalisse; è il Cristo pasquale il protagonista dell’ultimo libro della Scrittura, per accompagnare la Chiesa nel tempo dell’esodo e per sollecitare la comunità ad una permanente conversione. È questa la strada della santità; strada animata dal desiderio non solo di essere con il Signore, ma come il Signore. “La fede pasquale è anzitutto esperienza di conversione”, scrive il documento preparatorio del Convegno di Verona, al n. 3. 

Di qui la domanda cruciale, esprimibile con la sapienza del discernimento: quali i sentieri di conversione, particolarmente urgenti oggi, per diventare comunità del Risorto e, per questo, comunità della speranza?

– Anzitutto la conversione da una vita spirituale depressa ad una vita nuova nel Cristo Risorto

Il Cardinal Dannels, Arcivescovo di Bruxelles Malines, in un suo scritto recente, si pone una domanda: “Dopo la società industriale e la società delle libertà, stiamo ora entrando forse nella società depressa?”; e descrive la depressione come la patologia più diffusa nel mondo occidentale contemporaneo, come crisi del mondo interiore, come diffuso senso di inutilità, come assenza di tensione ideale, soprattutto nel mondo giovanile. 

Il Papa Benedetto XVI ad Aosta (2005) ha ripetuto che “l’Occidente è stanco della sua cultura”. La crisi della speranza non manca di attraversare le stesse comunità cristiane, come sindrome della stanchezza. Soprattutto nel cammino pastorale pare di risentire il famoso verbo dei due di Emmaus: “Noi speravamo…”. Insomma, anche nelle comunità cristiane la crisi della speranza assume volti diversi: della depressione, della mediocrità, della stanchezza o della delusione cronicizzata. 

La conversione richiede il passaggio dal verbo al passato – noi speravamo – al verbo al presente: noi speriamo. Noi speriamo,… perché Gesù Cristo è morto ed è risorto e ha sconfitto il segno più crudele delle disperazioni umane: la morte. Gesù Cristo è vivo e fa vivere. 

Noi speriamo… perché la comunità cristiana conosce le radici del futuro nel Cristo Risorto e ne riconosce l’esodo, la via, nella pedagogia della Pasqua. 

– La conversione dal complesso di minoranza al sapore del lievito. Mai in passato ci ha assalito la tentazione di contarci come oggi; e in questa logica abbiamo avvertito di soffrire il complesso di minoranza. Ci si conta nella comunità cristiana, nelle comunità religiose, nel presbiterio, nel gruppo giovanile; e le file che si tirano provocano il complesso d’impotenza, della rassegnazione e persino del dubbio. La sproporzione tra il numero scarso degli operai e le immense attese del Regno ci schiaccia. 

Lasciando da parte la questione (per altro posta da alcuni) se l’essere minoranza numerica e culturale sia un fatto inedito o già accaduto nella storia, di fatto noi tutti abbiamo la percezione per la prima volta di trovarci in questa condizione di “piccolo gregge” (Mt 13); condizione in cui si respira un clima di “esilio” ai margini della cultura egemone. Questa categoria biblica dell’esilio forse è necessaria per interpretare l’odierno rapporto tra Chiesa e mondo: la verità del Vangelo è ridotta ad un’opinione, la fede ad un affare privato, Dio è rinchiuso nel suo tempio. 

In verità il complesso di minoranza è la conseguenza di una questione mal posta. Gesù non parla di minoranza in rapporto ad una maggioranza quantitativa: in questi termini il rapporto richiama l’orizzonte di una politica in cui, il decisivo, è l’aspetto numerico, non quello qualitativo. Gesù invece focalizza la differenza (il lievito, la luce…) e l’orizzonte: tutto ciò provoca il modo di essere della vita del piccolo gregge. 

La conversione che ci viene richiesta pertanto non è lo sforzo volontaristico per immaginare strategie di evangelizzazione allo scopo di ripristinare proporzioni numeriche “fede-mondo” sul tipo del passato; ma è il ridare vigore al lievito nella pasta del mondo; è il riconoscere che la sproporzione tra la pochezza dei credenti e le immense attese del mondo è lo spazio da riempire, non con le analisi sociologiche o con le nostre geremiadi, ma con la certezza che quello spazio è occupato dalla presenza del Risorto, secondo la promessa ai suoi discepoli: “Io sono con voi sino alla fine del mondo”(cfr. Mt 28, 20). È lo spazio occupato dalla speranza, perché nonostante la fatica della storia, la vicenda umana è “storia sacra”. Non è la quantità dei risultati e dei numeri che fanno tornare i conti delle nostre fatiche, ma la qualità del lievito, dono dello Spirito Santo, nonché lo sguardo di Dio sull’orizzonte, per portare a tutti una parola e una testimonianza che dona la speranza. 

– La terza conversione richiesta alla nostra comunità va dalla preoccupazione organizzativa ad un nuovo slancio evangelizzatore. È opinione condivisa che soprattutto la Chiesa italiana, nella sua storia, ha sempre dimostrato una singolare capacità riorganizzativa sul territorio, adattandosi alle nuove esigenze dei tempi. Non possiamo ignorare che oggi è una stagione che impone la revisione dell’organigramma tridentino, che prevedeva la presenza di un prete in ogni comunità. Oggi ogni chiesa particolare è sollecitata a misurarsi con nuove esigenze, soprattutto nella prospettiva di una pastorale più comunionale e a motivo della riduzione numerica dei sacerdoti. Di qui il discorso delle comunità cristiane entro nuovi perimetri di unità pastorale; di qui l’impegno di una pastorale integrata con la sinergia delle vocazioni diverse; di qui il sorgere di “fraternità sacerdotali” al servizio di più comunità. 

Analogo fenomeno di revisione di strutture e di opere accade sul versante della vita consacrata. In tutte le categorie vocazionali si vive la percezione di un declino: talora subìto dietro le spinte impietose della storia e talora col coraggio profetico della speranza. 

La conversione con il vigore della speranza richiede di non dimenticare la direzione della comunità ecclesiale, che è la sua prospettiva missionaria, mai così urgente, forse mai così decisiva. Una domanda pertanto si impone oggi: “Che cosa è decisivo per le nostre comunità cristiane, perché siano evangelizzatrici?”. E il decisivo è l’essenziale, oggetto di sapiente discernimento, riconoscibile dentro l’orizzonte pur sempre ritenuto importante. 

 

Questi tre sentieri di conversione non convergono verso dei valori, più o meno possibili e auspicabili; la comunità cristiana guarda al suo Signore morto e risorto, sua vivente speranza. Perché Cristo non è solo il modello, cui il credente guarda per essere di più (come nell’accezione illuministica), ma è la sorgente di grazia per essere di più, attraverso l’azione misteriosa dello Spirito. Resta pertanto ovvio che i sentieri di conversione, riferiti al contesto culturale che stiamo vivendo, non devono far dimenticare i percorsi esistenziali richiesti a ciascuno perché la comunità sia comunità del Risorto e per questo comunità della speranza. 

 

 

La celebrazione del Risorto come “progetto” di una comunità della speranza 

Se leggiamo con attenzione il magistero conciliare e post-conciliare scopriamo un singolare crescendo di significati attorno all’Eucaristia come celebrazione del Mistero pasquale: la Lumen gentium ci ricorda che l’Eucaristia è “fons et culmen” (n.11) dell’esistenza cristiana nel cuore della comunità ecclesiale. La Chiesa celebra l’Eucaristia e l’Eucaristia genera e fa crescere la comunità solidale con il Risorto. La lettera apostolica Novo Millennio Ineunte aggiunge la parola-sfida che attende i credenti in Cristo per il nuovo millennio: “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” (n. 43). E nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, ancora più puntualmente, Giovanni Paolo II scrive che “l’Eucaristia crea ed educa alla comunione” (n. 40). L’Eucaristia pertanto non è solo la sorgente della comunità e il suo culmine, ma esprime e costruisce la comunità secondo un preciso progetto di comunione; plasma la comunità sul modello del Dio-comunione; le dà forma, fa crescere l’identità in una comunità eucaristica dai tratti precisi. 

Ecco dunque il passo in avanti: il Risorto ha un progetto. L’Eucaristia è un progetto che richiama la radice della speranza, la meta. 

Siamo un solo corpo in Cristo: “la Chiesa del Risorto è la comunità costruita sull’amore, in cui ciascuno può dire all’altro; io ti prometto, io ti dono la mia libertà” (Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 3). Pertanto la Chiesa forgiata dallo Spirito diventa un solo corpo in Cristo. Per questo la comunità non si organizza, ma si genera in quel mistero arcano dello Spirito che opera attraverso il ministero del presbitero. La Chiesa forgiata dallo Spirito in Cristo diventa così segno di una comunione ministeriale: “Conferma nella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sulla terra, il tuo servo e nostro Papa…il nostro Vescovo…, il collegio episcopale, tutto il clero e il popolo che tu hai redento” (dalla preghiera eucaristica III). Di qui l’ascetica della ministerialità: ciascuno ha bisogno degli altri per compaginare il segno della comunità come comunità dei volti. In essa ciascuno accoglie l’altro nella sua originalità vocazionale e nella sua identità di persona, ricca e povera insieme. Nell’ascetica della ministerialità cresce la sapienza evangelica come disponibilità ad accogliere la “differenza” quale ricchezza di una comunità. 

Siamo una comunità della speranza. Non a caso tutta la dinamica celebrativa è orientata verso il futuro con gli occhi della speranza. E la speranza per i credenti non è un vago desiderio di essere di più; non innanzitutto una virtù, sia pure dono di Dio, e neppure un vago sentimento di ottimismo nei frangenti della vita. La speranza è Qualcuno, ha un volto; e verso tale volto orienta l’Eucaristia, cuore della comunità credente: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua Risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Così l’Eucaristia mette continuamente a fuoco il volto della speranza, il Risorto; fa risorgere la speranza dentro gli immancabili tunnels della prova e della croce. Insomma, l’Eucaristia ricorda che il nome della speranza è la Pasqua. Non ci sono scorciatoie. Di qui l’importanza che i cristiani, “eucaristizzati”, siano seminatori di speranza, capaci di essere luce del mondo, per illuminare i cammini nei quartieri di Babele. “Ésperer pour tous” scriveva Von Balthasar. La speranza non sta con le mani in mano, ma stringe le mani di chi è senza speranza. 

Siamo una comunità in missione. Ci sono tre espressioni nella celebrazione eucaristica che aprono i sentieri della comunità verso orizzonti di missione. Nel cuore della celebrazione c’è una parola che dice il respiro, l’urgenza universalistica del sacrificio redentore di Cristo: il sangue della Nuova Alleanza è versato per tutti. La totalità del tempo e la totalità del mondo stanno sotto il segno della croce. Il sacrificio di Gesù morto e risorto non ha confini, né di tempo né di spazio. La missione è inscritta nel mistero dell’unico sacrificio, a partire dall’Eucaristia che lo attualizza e lo rende contemporaneo ad ogni creatura umana. La preghiera d’intercessione poi, dopo la formula consacratoria, disegna il dinamismo misterioso della missione della comunità forgiata dall’Eucaristia. 

Nella III e IV preghiera eucaristica si chiede che il Padre misericordioso ricongiunga i suoi figli “dispersi” e si ricordi soprattutto di tutti gli uomini che lo “cercano con cuore sincero” (universalità antropologica). Nella II preghiera eucaristica la Chiesa viene vista come comunità “diffusa su tutta la terra”, e si prega perché essa sia “perfetta nell’amore” e così sia segno per orientare il cammino di tutti gli uomini verso la salvezza (universalità geografica). II dinamismo della missione così come viene espresso nell’Eucaristia sembra dunque ricalcare il dinamismo giovanneo della fede nel quarto Vangelo: il Padre mette nel cuore di ogni uomo una sorta di attrazione verso Cristo, e così la fede è chiamata in Cristo. I credenti eucaristizzati, diventano nel mondo “segno”, testimoni attraverso cui Dio chiama gli altri alla salvezza. 

E così la missione diventa infine “mandato”. “Andate in pace”: l’imperativo esprime il movimento verso la vita quotidiana, verso la città terrena, per portare i beni salvifici della pace; per portare Cristo che “è la nostra pace” (Ef 2,14). Per questo Giovanni Paolo II scrive: “Gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di parlare di Cristo, ma in un certo senso di farlo vedere” (NMI, 16). 

II documento preparatorio precisa che incontrare il Risorto è un’esperienza di missione, che introduce nel dinamismo di un’attrazione misteriosa e nel dinamismo di un mandato.

 

 

Perché il progetto diventi cammino nella ferialità della comunità cristiana 

Una domanda mi sembra ineludibile di fronte al mistero dell’Eucaristia come progetto di Chiesa e di fronte all’inquietante crisi di vocazioni; di fronte alla sproporzione crescente tra le attese del Regno e del mondo e il piccolo gregge: “Che cosa ci chiede lo Spirito oggi per preparare il futuro e non subire la storia? Quali le coordinate essenziali della speranza?” 

1) La prima coordinata della speranza va nella direzione del passaggio dalla quantità dei “segni” alla qualità del “segno”. Per quanto attiene alle vocazioni, noi non siamo spettatori di un mesto tramonto che si riflette a livello esistenziale, ma di un cambiamento all’interno della Chiesa e delle stesse vocazioni specifiche. Attenzione, dunque, al rischio di cedere alla tentazione di auto-colpevolizzazione, quasi che la penuria vocazionale fosse la conseguenza di colpe occulte o manifeste. Al contrario, siamo chiamati a condividere, nello Spirito, il difficile e lento parto di una nuova Chiesa e di nuovi doni vocazionali: forse nel segno di un’essenzialità evangelica più credibile, di una compagnia più fedele a Dio e più solidale con l’uomo. Forse è ancora il caso di ripetere: meno segni e più segno. 

2) Per questo un’altra coordinata della speranza va nella direzione di una “differenza” da coniugarsi nella comunione ecclesiale. Ciascuno di noi, con il proprio dono, è relativo e necessario insieme: relativo, perché nessuno esprime la totalità del segno “Chiesa-corpo di Cristo”, ma solo un aspetto; necessario, perché solo insieme diciamo il segno del corpo di Cristo. Di qui la solidarietà tra i doni, come comunione collaborativa al servizio della missione. Soprattutto va coniugato correttamente il rapporto tra il presbitero, che pone in essere la comunità celebrando l’Eucaristia, e tutte le vocazioni nella comunità: il prete è per tutte le vocazioni e tutte le vocazioni sono per la vocazione al presbiterato, necessario perché ci sia l’Eucaristia, sorgente della comunità cristiana. 

È pertanto in comunione con i laici, immersi nel mondo come “segni” della regalità di Cristo, con i presbiteri, custodi della sorgente eucaristica come segni di Cristo pastore, e con i consacrati, come segni di un mondo futuro, che si costruisce una Chiesa per l’uomo, più estroversa, verso un mondo guardato non come terra di conquista, ma con la stessa compassione di Gesù di fronte alle folle senza pastore. Per questo Gesù richiama lo sguardo sulla “differenza” (la luce che splende nelle tenebre, il lievito nella pasta) e sull’orizzonte: la gente, il mondo. 

3) Per questo è importante passare – ed è la 3a coordinata della speranza – dalla pedagogia dei valori alla pedagogia dei modelli e della proposta. Anche a livello pedagogico la comunità cristiana esprime la propria differenza, la propria originalità; perché essa non propone anzitutto dei valori di cui persino il mondo laico avverte una nostalgia; bensì mette in atto la pedagogia dei modelli: a partire da Gesù, morto e risorto, nella sua unicità e nella necessità assoluta. 

Il modello non è solo la sintesi dei valori nella persona; non sta solo a dire che i valori sono possibili perché visibili e concentrati in un modello; il modello Cristo offre a tutti la possibilità di realizzare il suo percorso e di essere come Lui. Sta qui il segreto della speranza cristiana: Gesù ci fa essere di più uomini e donne secondo il personale progetto di ciascuno; solo Lui, morto e risorto, ci fa passare dalla morte dei nostri egoismi mondani, alienanti e spersonalizzanti, alla vita di progetti realizzanti secondo la sua misura. 

Di qui l’importanza decisiva dei modelli nella comunità, della testimonianza vissuta e soprattutto degli educatori (catechisti, il sacerdote, i consacrati), capaci di interrogare e di far sorgere il desiderio di una vita diversa in contesti comunitari talora afflitti dalla patologia di Laodicea. Di qui la cura anche del piccolo gruppo, perché sia lievito e luce per dire l’affascinante bellezza dell’essere discepoli del Signore. 

Solo attraverso la “pedagogia dei modelli” passa la “pedagogia della proposta”: proposta a fare un cammino spirituale di discernimento, senza mai dimenticare che la dinamica della vocazione nel Vangelo è una dinamica di chiamata per nome. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). Lo stesso desiderio suscitato dal modello o dalla testimonianza è propedeutico all’esplici-ta proposta della “misura alta della vita”. E là dove sboccia una voglia di santità, la speranza diventa trainante e ogni vocazione diventa possibile. 

4) E infine la speranza passa attraverso una proposta vocazionale corale e popolare. Perdura in molte comunità cristiane la strana convinzione che avere il prete o conservare la presenza di una comunità di persone consacrate sia una sorta di diritto. È del tutto assente la consapevolezza della circolazione dei doni; perdura scontata la consapevolezza che le vocazioni vengono dalla parrocchia vicina. 

È fuori dubbio che una delle testimonianze più credibili della speranza di fronte al futuro è la presenza di doni vocazionali. Ma urge il passaggio da una pastorale vocazionale elitaria ad una pastorale vocazionale comunitaria: è tutta la comunità il soggetto per un’efficace ed incisiva pastorale vocazionale, là dove ciascuno ha un compito preciso. Dire pastorale comunitaria evoca pertanto quella coralità che chiama in causa tutti. C’è infatti un servizio possibile a tutti, sani e ammalati, piccoli e grandi, e in particolare ai giovani: il servizio della preghiera. Strana davvero quella comunità in cui tutti pregano per le vocazioni, tranne i giovani. La preghiera genera una cultura della vita come dono, come disponibilità, come risposta. 

Alla famiglia si chiede il servizio della testimonianza cristiana e del rispetto della libertà dei figli di fronte alle scelte della vita. Agli educatori catechisti si chiede di presentare la catechesi non in termini di valori o di ideali astratti, ma in termini di sequela e di progetto di vita. Ai sacerdoti si chiede di mettere in atto nella pastorale ordinaria il ministero del discernimento, per una proposta esplicita di cammini nella ricerca della volontà di Dio, senza dimenticare che la chiamata vocazionale è discendente. 

Dentro questa coralità di prassi pastorale attenta alla quotidianità di una comunità cristiana, non può mancare nei cristiani della comunità eucaristica, lo stile pasquale della gioia; e soprattutto negli educatori, nel prete in particolare, la consapevolezza di essere “seminatori di speranza”. 

La coralità come stile di pastorale vocazionale comunitaria restituisce alla parrocchia la sua capacità generativa di nuove vocazioni, nonché la consapevolezza che le chiamate sono, sì, doni dello Spirito, ma passano attraverso mediazioni umane concrete. E forse si torna finalmente a credere che la pastorale non è solo compito di qualcuno, ma esperienza di popolo, e collaborazione con l’opera misteriosa della grazia. Il passaggio è d’obbligo: da una pastorale elitaria ad una pastorale corale, per una pastorale popolare. 

Quando una comunità torna a farsi carico del proprio futuro, nel segno della speranza, non può non rinnovarsi il prodigio di nuove vocazioni.