N.02
Marzo/Aprile 2006

Volti della speranza

Abbiamo fatto un percorso che sintetizzo in tre affermazioni dei relatori precedenti. 

– È ancora possibile sperare, oggi, nell’epoca delle passioni tristi, e della crisi di vocazioni? Sì! I segni della speranza ci sono! (Bignardi).

– La risposta alla domanda di speranza è Cristo, colui che dà volto alla speranza! (Bosetti).

– La comunità cristiana che fa incontrare Cristo Risorto, genera vocazioni di speciale consacrazione! (Mons. Masseroni).

A questo punto del cammino, abbiamo pensato di chiamare e presentare delle persone che con la loro vocazione e il loro impegno ecclesiale, seppure in modo abbastanza diverso, sono incarnazione della Speranza cristiana o, in altre parole, sono volti della speranza

«La testimonianza cristiana è sollecitata… a farsi carico dello spaesamento di molti che sperimentano la sensazione di non sapere dove si vuole andare e di non disporre di sicuri criteri di orientamento e di scelta. I discepoli sono chiamati a continuare il racconto della speranza, e a scrivere una per una le opere della fede che formano una sorta di cristologia vivente. Le situazioni nelle quali si esprime la testimonianza possono così diventare una “storia del Vivente” e un invito a svolgere oggi quella cristologia dinamica formata dall’esperienza dello Spirito, attraversata dalla promessa del Risorto: “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)» (Dalla traccia di riflessione in preparazione al Conv. Eccl. di Verona, n. 13 ultimo §). 

Li abbiamo dunque chiamati a testimoniare la loro speranza non con riflessioni teologiche o spirituali, ma con il racconto del loro servizio nella Chiesa di oggi. Le domande generali da cui siamo partiti sono: in che modo un servizio può suscitare speranza cristiana nei più piccoli, nei poveri, nei giovani che lo ricevono? E in che modo provoca speranza in chi guarda a queste realtà dall’esterno, magari da non credente? Inoltre, cambiando destinatari, ma non il tema di fondo, ci siamo chiesti: come è possibile realizzare un annuncio a dei giovani, che abbia una ricaduta vocazionale esplicita, e sia fonte non di paura e tristezza, ma di speranza e di gioia? 

Due testimonianze sono di vocazioni già mature, dedicate a persone che, secondo la logica del mondo, “hanno poche speranze” sia per la malattia che per l’handicap o il disagio sociale, con tutte le conseguenze economiche, affettive, relazionali, che queste situazioni comportano. Le domande che rivolgiamo a loro sono: il vostro è tempo sprecato perché dato a persone senza futuro? In che senso la speranza cristiana anima questo servizio e vi permette di realizzarvi nella vostra vocazione e non nonostante essa? In che modo quelli che vi vedono, credenti o non credenti, vengono provocati alla speranza e si interrogano sulla loro vita e sul loro destino? 

 

Speranza è lavorare insieme, sull’umanità, essendo me stessa… 

di Giovanna, Consacrata nell’Istituto Secolare Oblate di Cristo Re,

medico psichiatra presso un Centro di Salute Mentale dell’ASL. 

Per me è difficile distinguere, nella vocazione, la chiamata alla consacrazione, ad essere completamente Sua, e l’altra chiamata, quella della professione. Ogni anno la partecipazione a questo Convegno è per me occasione di celebrare la vocazione, di ringraziare il Signore per avermi chiamato, per le mie “quattro del pomeriggio” (come il vangelo di stamani: Gv 1,39) e per tutti i momenti successivi. Anche la mia professione è dono della sua chiamata: quando il Signore mi ha fatto conoscere la bellezza dell’appartenenza a Lui stavo studiando medicina e la possibilità di aiutare e di stare accanto all’uomo che soffre mi ha come “trattenuto” nel mondo. 

Lavoro in un Centro di Salute Mentale dell’ASL, un servizio chiamato “territoriale”, perché non si limita alle visite ambulatoriali, come potrebbe essere l’ambulatorio di un oculista, ma seguiamo i nostri pazienti anche a casa, in ospedale, nel centro di riabilitazione, nel loro inserimento lavorativo, ed altro. È il mio lavoro, ricevo uno stipendio, ho un orario: non faccio niente di speciale. Ma nello stesso tempo è qualcosa di più di un lavoro: fa parte della mia vocazione. Ho la convinzione di fare “il lavoro più bello del mondo” (questa convinzione può non essere condivisa), perché la sofferenza mentale è la sofferenza più grande. La persona che ha una malattia mentale il più delle volte non riesce a comunicare il suo malessere, perché utilizza delle strategie, delle difese (che sono poi i sintomi), per non entrare in contatto con la propria angoscia, che è intollerabile. I familiari invece raccontano tutta la loro pena, sappiamo bene che il paziente soffre di più del familiare, ma talvolta lo si capisce parlando con i familiari: “non c’è Natale né Pasqua, non ci sono giorni di ferie”; anche nei periodi in cui va’ un po’ meglio, c’è sempre quest’angoscia: “Carla, nel giorno della prima Comunione della nipotina, si è agitata” e la giornata che poteva essere serena è diventata una giornata di sofferenza.  Condivido con voi alcuni modi in cui la speranza entra nel mio lavoro. 

 

Speranza è lavorare insieme 

Nel Servizio, e con altri colleghi con cui ci troviamo a collaborare, siamo differenti per professionalità, per carattere, per appartenenza religiosa, per tante caratteristiche. La prima speranza che cerchiamo di dare ai nostri pazienti è quella di andare d’accordo tra di noi, di adoperarci per trovare un incontro, perché il paziente non senta la divisione tra noi e per non dare messaggi discordanti. Per la cura del paziente è bene che ci sia armonia tra di noi, per cui cerchiamo, tenendo conto delle diversità e del bene del paziente, di trovare un pensiero comune. 

Un giorno, parlando insieme, le colleghe dicevano: “il tempo, i soldi spesi per sé, sono quelli meglio spesi”; “Giovanna, non sei mai andata dall’estetista a farti fare un massaggio?”. Mi sono chiesta come era possibile andare d’accordo con persone così lontane da me, eppure quando si tratta del bene dei pazienti ci troviamo in sintonia, il nostro lavoro si fonda su dei valori comuni: anche se le nostre scelte personali sono diverse, abbiamo un riferimento comune di valori che ci guida ed è patrimonio del Servizio. 

 

Speranza è lavorare sull’umanità 

La mia speranza è solo la speranza cristiana, Cristo morto e Risorto, la croce gloriosa. Ogni altra “speranza” è fatta di parole vuote e stupide. Però questa Speranza s’incarna nella storia mia e di tutte le persone. Paola Bignardi nel suo intervento diceva: “Se il Signore è risorto, ogni giorno è possibile ricominciare; la novità è possibile e già oggi essa si annuncia nei segni discreti del bene; […] già oggi è possibile contribuire a rafforzare questi segni discreti di bene”. Ecco, il mio lavoro non è altro che questo: cercare di vedere questi segni discreti di bene e rafforzarli. 

Ci vuole grande attenzione, anche nel linguaggio, per non esprimere negatività, per cogliere sempre il positivo, perché i malati hanno già tanta sofferenza sulle loro spalle, che anche solo una parola poco attenta può essere per loro un peso insopportabile. A volte il bicchiere è quasi tutto vuoto, ci sono solo poche gocce, ma è importante valorizzare quel poco di bene che è presente e non sottolineare che il bicchiere è quasi vuoto. È importante vedere sempre al di là, conservare la speranza, anche quando c’imbattiamo in situazioni apparentemente senza via di uscita, perché siamo nelle mani di Dio. Si tratta di malattie i cui tempi sono lunghi, a volte lunghissimi, bisogna tollerare questi periodi in cui non si manifesta alcun miglioramento. Accompagnare i nostri malati in quest’attesa a volte è più importante degli interventi che, comunque, possiamo al momento mettere in atto; a volte “esserci” è ciò che conta e li rassicura: “comunque noi ci siamo”. 

Lavorare sull’umanità è anche aiutarli a compiere un piccolo passo in avanti, nella cura di sé, nel comportamento, nelle relazioni affettive, nell’atteggiamento interiore. Può essere faticare, anche anni, per migliorare l’igiene, o il vestito, o le abitudini alimentari. Può essere aiutare un giovane adulto che soffre di instabilità dell’umore, ma che è comunque in grado di operare delle scelte, a trovare, per quanto dipende da lui, una maggiore stabilità e maturità. Gli sbalzi d’umore lo condizionano nelle relazioni, ma è anche vero il contrario: se ogni due mesi passa da ragazza a ragazza, come può trovare un equilibrio? Oppure, in un’altra situazione: può una persona, che soffre di deliri di persecuzione, perdonare? Non so se può, ma io comunque cerco di offrirgli la parola rasserenante del perdono: “anche se gli altri parlano male di Lei, lasci stare, non è questo che La definisce, non dia peso al giudizio della gente”. Uno, solo perché è malato di mente, può permettersi ogni cosa in famiglia, anche a livello di aggressività, verbale e non verbale? “Se Lei sta male, se Lei è in crisi, La curiamo; comunque sia, non deve sorpassare un determinato limite”. Taluni sono segnati da ferite profonde, infanzie tradite, maltrattamenti, ricoveri di anni in ospedale psichiatrico, trattamenti oggi inimmaginabili: certe cicatrici rimangono, ma li aiutiamo a valorizzare la situazione presente, una vita fatta di piccole cose: la casa, il Servizio, qualche uscita, una minima disponibilità economica…, ma comunque una vita relativamente più serena. 

 

Speranza è essere me stessa 

I miei colleghi non sanno che sono consacrata, mi rispettano, mi vogliono bene, mi vengono incontro quando ho qualche impegno (senza sapere che è del mio Istituto). Vivere la speranza nel lavoro è cercare di non venir meno ad un certo stile. Nel Servizio di Salute Mentale in cui lavoro c’è un clima buono, c’è collaborazione. Ma non sempre tutto va bene, non ogni cosa è perfetta. Allora capitano momenti in cui ognuno si ritira: a me sembra che un’urgenza, un nuovo paziente dovrebbero essere compito di un determinato collega, ma questo non accade. In questi momenti cerco di lasciarmi guidare da una frase che mi ha colpito: “perché l’altro deve determinare il mio modo di comportarmi?”. Se l’altro non è disponibile, tento di non lasciarmi condizionare e di non imitare tale atteggiamento. Anche perché il lavoro dello psichiatra è particolare, è con le persone, per cui se anche un collega non svolge il suo compito (o così a me sembra), i malati non possono essere abbandonati. 

Poi c’è il dramma dell’aborto. La legge prevede che dopo il terzo mese la donna che, per qualsiasi motivo, vuole interrompere la gravidanza, debba avere la certificazione dello psichiatra, quindi le donne si rivolgono al nostro Servizio. Il confronto è stridente. Il lavoro con i pazienti, infatti, è un servizio alla vita: quante energie spendiamo, in alcuni momenti, per strappare un paziente, comunque sofferente, ad un’eventualità di suicidio! Possibile – mi viene da dire, pensando ai miei colleghi – che tu non possa fare il salto?…che tu non possa tutelare una vita che è ancora all’inizio ed ha ancora infinite potenzialità? I colleghi rispettano il mio rifiuto di fare questi certificati, ma è difficile far cambiare loro mentalità, solo raramente si nota qualche segno di ripensamento. Comunque sono “contenta” di essere presente e di prendere posizione, anche se ciò costa, piuttosto che non sapere o tirarmi fuori: quando non riesco a fare altro, almeno posso partecipare con la sofferenza e la preghiera.

 

La speranza che ricevo 

La mia certezza è quella di essere là dove il Signore mi vuole, nella professione ed anche nel Servizio in cui al momento lavoro, in cui il Signore mi ha fatto arrivare attraverso le sue vie. Il come dipende da me, e mi “arrabatto” a fare la sua volontà, non riuscendoci sempre; comunque sia, la mia certezza è di essere là dove il Signore mi vuole. Non so quanto do e quanto ricevo, qual’è la speranza che comunico e quella che il Signore mi dona. Quando meno me lo aspetto, c’è una soddisfazione, vedo il cambiamento atteso da tanto tempo e quasi insperato. 

Sicuramente so che sono lì non solo per una missione, ma anche per crescere personalmente. La spiritualità del mio Istituto è tutta incentrata sulla nuzialità, sulla sponsalità: Cristo-Sposo della Chiesa-Sposa. Là dove sono, il Signore mi rende sempre più “sposa”. Sento forte la sacralità della sofferenza: l’uomo che soffre, che ne abbia coscienza o meno, è comunque particolarmente vicino al Signore. Ringrazio ogni giorno del dono di essere così vicina al Signore che soffre. A volte gli dico: “come ti sei ridotto!”, perché l’umanità che incontro ogni giorno non è bella, la malattia può essere devastante, cambia i lineamenti, altera il portamento; sono persone che non sono in grado di tenere l’igiene personale, di lavarsi, di cambiarsi; possono essere spigolose, irascibili, arroganti, inavvicinabili,…E comunque sono presenza del Signore Gesù: mi sembra di lavorare in una Cattedrale e ringrazio il Signore di questo dono, di questa vocazione. 

 

Come il servizio al Cottolengo apre alla speranza e alla scelta vocazionale 

di sr. Raffaella, Cottolenghina

Sono una suora di S. Giuseppe B. Cottolengo, un sacerdote torinese della prima metà dell’ 800, che per rispondere ai bisogni del suo tempo, diede inizio in Torino all’opera chiamata “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, oggi sparsa nel mondo e più comunemente conosciuta come “Cottolengo”. Quest’opera è nata per accogliere coloro a cui nessuno pensa, coloro che si trovano nella sofferenza e nella malattia, in particolare coloro che sono segnati da handicap a livello fisico e/o mentale. Sono proprio queste persone che il Cottolengo chiama “le perle della Piccola Casa” (FP, 84), le figlie e i figli più buoni. Vedeva in ciascuno di loro e in tutti coloro che accoglieva il volto di Gesù; diceva, infatti, che “i poveri sono la pupilla di Gesù, sono i suoi rappresentanti” (FP, 145); “se voi pensaste e comprendeste bene qual personaggio rappresentano i poveri, di continuo li servireste in ginocchio” (FP,  95). 

Il santo Cottolengo, però, non ha pensato ad una realtà semplicemente assistenziale attraverso cui alleviare le sofferenze di coloro che accoglieva; a lui stava a cuore la persona nella sua integrità. Per questo ha voluto, più che un’istituzione, una grande famiglia, dove ciascun membro potesse trovare il calore di una casa, il senso di appartenenza, la fraternità e il riconoscimento della propria dignità oltre tutti i limiti umani, mentali, fisici… Si è sentito chiamato da Dio a ricercare, riscoprire, valorizzare e far emergere il senso della 1vita di ogni uomo, anche quella vita che agli occhi umani si presenta limitata, debole, ferita e apparentemente insignificante. Egli ha insegnato a tutti coloro che accoglieva a guardare il Cielo, a vincere la propria disperazione con la speranza in Dio, che è “Padre buono e provvidente”. 

Così i poveri sono diventati “maestri di speranza” e sanno trasmettere a tutti coloro che li avvicinano la gioia di chi sa – per certo – di essere amato da Dio, di essere avvolto dall’attenta Provvidenza di Dio, di vivere la propria croce quotidiana nella certezza che un giorno un angolo di Paradiso la ricompenserà pienamente (cfr. FP, 184). Questo è ciò che ho sperimentato anch’ io quando per la prima volta ho fatto volontariato alla Piccola Casa e certamente mi ha aiutato a conoscere di più il Volto di Dio e il suo amore per me, al punto di rispondere “sì” alla sua chiamata alla vita consacrata. In particolare direi che i poveri, e soprattutto i disabili, mi hanno insegnato che è possibile sperare, anzi che nella speranza si trova vita e che solo così si può, nel piccolo, ridare, cioè donare a nostra volta, “vita” a coloro che incontriamo. 

Ripensando alla mia esperienza, che è diventata il mio quotidiano, riconosco che i poveri aprono alla speranza in tre ambiti: spirituale, relazionale, personale. 

A livello spirituale i disabili insegnano a credere nella Provvidenza di Dio, che “pensa a noi più di quanto noi pensiamo a Lui” (cfr. FP, 57). Nonostante le condizioni di limite e di sofferenza che essi vivono, sanno trasmettere l’amore per Dio riconoscendo che Egli è Padre buono. Sfidano così il pensiero comune, secondo il quale Dio potrebbe evitare il male. Essi credono profondamente di essere parte del disegno d’amore di Dio, partecipando con le loro sofferenze al mistero della salvezza. Sanno e testimoniano con la loro gioia, di essere chiamati a vivere la sofferenza come ha fatto Gesù: come un passaggio inevitabile per giungere alla gloria e al Paradiso, cioè alla contemplazione di Dio. 

Accostando queste persone, ho sempre colto in loro questa gioia, che è disarmante e allo stesso tempo contagiosa. Essi, nella loro semplicità, sanno veramente essere testimoni di Cristo Risorto, dicendo con la propria vita che la sofferenza e la morte non sono mai l’ultima parola. Loro, che avrebbero tutte le ragioni umane per disperarsi, mi hanno insegnato ad alzare lo sguardo e a sperare nel Signore, “Dio che mi fa il bene” (Sal 56,3). 

Accostando le persone disabili al Cottolengo, si coglie la bellezza della fraternità e della comunione e si impara a credere nelle relazioni, a sperare in esse. Proprio i disabili, che spesso hanno un passato segnato dall’abbandono e dal rifiuto da parte della famiglia, insegnano a credere nell’altro e a riconoscerlo come un dono di Dio. Vivendo il servizio, non solo si incontra il bisogno scontato e materiale da parte dei disabili, ma anche la loro sete di relazione e di affetto, che, da subito, chi si accosta loro sente il bisogno di ricambiare. Servendo i poveri si impara che è possibile ed è bello fidarsi dell’altro e che ogni tipo di relazione è arricchente: spesso si pensa di avvicinarsi a loro e di dare solamente, ma in realtà si riceve molto di più. 

Anche questa è una sfida per il mondo moderno, segnato da divisioni ed individualismo: nel servizio ai poveri si partecipa ad una scuola di comunione, riscoprendo e valorizzando il senso della vita fraterna e ammettendo di non bastare a se stessi, ma di avere bisogno dell’altro. Questo clima di famiglia è caratteristico della Piccola Casa, poiché diceva S. G. B. Cottolengo: “vi sia tra voi eterna unione di cuori…” e vuole essere segno della comunione trinitaria a cui ogni cristiano deve tendere, cioè vuole essere segno di speranza nel Paradiso. Si dice, infatti, che “la Piccola Casa è la brutta copia del Paradiso”. 

A livello personale, poi, accostare i poveri alla Piccola Casa costringe ad uscire da sé, evitando così il rischio, oggi molto diffuso, di cadere nella disperazione. Trovarsi di fronte a chi è nel bisogno, in un bisogno materiale evidente e segnato da tanta sofferenza, aiuta a mettere da parte se stessi, a porre l’altro al centro, senza precipitare nel ripiegamento e nella chiusura di sé, che portano sempre alla morte interiore. 

Nella Piccola Casa tutto questo trova forza nella carità di Cristo, perché, come diceva il santo Cottolengo, “Caritas Christi urget nos” (2 Cor 5,14); uscire da sé per andare verso l’altro è sempre un’esperienza che apre alla speranza, perché aiuta a credere nelle proprie possibilità e a desiderare il bene dell’altro. Si sperimenta così la gioia del donarsi, ritrovando il senso della propria vita come chiamata all’amore. 

Ecco, dunque, come accostare i disabili nel servizio spinge a porsi delle domande di senso sulla vita e sulla propria identità: sperimentando la gioia del donarsi agli altri, si riscopre il gusto della vita fraterna e si conosce sempre di più il volto di Dio, Padre buono. Dalle loro vite, seppur segnate dall’handicap, emerge la gioia piena di chi è consapevole di essere figlio di Dio, di chi ha la certezza di poter “sperare contro ogni speranza”( cfr. Rm 4,18). Ne è annuncio quotidiano e gioioso il “Deo gratias”, tipica espressione che risuona nelle case Cottolenghine, con la quale si vuole esprimere la riconoscenza incondizionata nei confronti di Dio. 

Nella traccia di riflessione “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”, si trovano queste parole: “Le ferite del Crocifisso non sono il segno di un incidente da dimenticare, ma una memoria incrollabile nella testimonianza della Chiesa” (n°3). Leggendole, ho ripensato al grande crocifisso posto nella chiesa centrale della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino: il Cristo posto su quella croce è in agonia, non è ancora morto, non ha ancora ricevuto il colpo di lancia nel costato. Questo per dire che la ferita nel costato di Gesù è quotidianamente rappresentata dalle sofferenze presenti nella grande famiglia cottolenghina, che completano i patimenti di Gesù. Tutto questo in un’unica certezza: quella della vita nuova donata a noi dal Cristo nella sua risurrezione, grazie alla quale è possibile affrontare la croce, perché solo passaggio. 

Credo che l’espressione migliore per dire come l’accostare le vite segnate dall’handicap in un’esperienza di servizio apra alla speranza, stia nelle parole lasciateci da S. G. B. Cottolengo: “ I poveri sono e saranno quelli che hanno da aprirci le porte del Paradiso” (FP, 110). Secondo la mia esperienza, ho già trovato e continuo a trovare un grande spiraglio aperto in queste porte: è certamente il centuplo promesso da Gesù a chi si decide completamente per Lui (cfr. Mc 10, 28-30), che è la nostra Speranza. 

 

Altre quattro voci, Francesca, Simona, Cristian e Maruska, vengono dall’esperienza del Punto Giovane di Riccione: quattro giovani che, aiutati da don Franco, stanno assumendo qualche responsabilità. A loro chiediamo di raccontarci come si stanno muovendo in pratica in questa forma di annuncio originale. E chiediamo anche: quale valenza vocazionale vogliono far emergere dai loro incontri con i giovani ? 

 

 

L’esperienza del Punto Giovane 

 

Cos’è il Punto Giovane? 

Il Punto Giovane nasce nel 1998 durante la Missione popolare diocesana indetta dal Vescovo in vista del Giubileo. Grazie all’entusiasmo degli educatori di alcune parrocchie sul territorio di Riccione e all’iniziativa comune di giovani sacerdoti si cerca una casa e una struttura per far condividere agli educatori un’esperienza di vita insieme, ritmata dalla Parola e dall’Eucaristia e per accogliere ragazzi adolescenti in un oratorio “sui generis”, gestito dagli stessi educatori che vivevano nella casa giorno e notte. 

I primi anni sono stati di grande fermento. Grazie al clima di entusiasmo tipico degli inizi e all’iniziativa personale di alcuni educatori, nascono numerose attività rivolte agli adolescenti: le attività teatrali che aggregano una quarantina di ragazzi e danno vita nello stesso anno ad una compagnia teatrale, La Compagnia del Piccolo Punto, il Telefono Amico e la Chat amica che fanno riferimento ad un’equipe di operatori volontari, le Attività manuali, i Corsi di chitarra, piano e batteria, i “doposcuola” per le scuole superiori, un giornalino dei giovani: Punto Magazine, i Corsi di computer e la strutturazione di un oratorio con la possibilità di collegamento ad Internet. Proprio per il lavoro pastorale su Internet siamo chiamati a dare la nostra testimonianza al primo Convegno di Assisi su Chiesa e Internet 

Negli anni diventa sempre più consistente il lavoro con i ragazzi del Liceo, sempre più fitti i rapporti con il Comune, la Provincia e la Regione, con i Servizi Sociali ed altre Associazioni sul territorio. All’interno del Punto nasce la Cooperativa Gionata ed entriamo a pieno titolo nelle dinamiche giovanili sul territorio. La Provincia sceglie il Punto Giovane come referente per lo scambio europeo e ci ritroviamo in Danimarca e in Irlanda, per due anni consecutivi, con una ventina di giovani. Cominciano poi ad arrivare situazioni di disagio provenienti dai Servizi Sociali e sperimentiamo anche due esperienze di convivenza prolungata con ragazzi segnalati dagli assistenti sociali. 

Negli ultimi anni le evangelizzazioni di strada e di spiaggia con diverse comunità d’Italia hanno coronato le tante attività del Punto Giovane. Ma non sempre tutto è proceduto con ordine. È solo con l’esperienza di Tor Vergata che la nostra esperienza comincia ad acquisire una sua armonia ed una sua stabilità. Le parole del Papa Giovanni Paolo II (“laboratorio di fede”, “chiesa, casa e scuola di comunione”…), il suo entusiasmo, la sua fiducia nei giovani, l’incontro con tante realtà, ci confermano su tutto quello che è successo a Riccione negli ultimi due anni. 

Così, giovani e preti, ci si mette a tavolino e si formula un vero progetto ed un itinerario preciso di formazione per i giovani adulti, che s’inserisce a pieno titolo dentro una pastorale giovanile condivisa dalle parrocchie di Riccione e benedetta dal nostro Vescovo. Il cuore del Punto Giovane rimane sempre la “convivenza”. 

In questi anni non ci ha mai abbandonato una frase di Amedeo Cencini: “la nuova evangelizzazione non nasce da strategie pastorali, ma dall’intensità di relazioni che s’instaurano fra noi”. Il “proprium” del Punto Giovane, infatti, non sono tanto le numerose iniziative, quanto la condivisione di un tempo preciso alla luce della Parola e dell’Eucaristia, cioè le “convivenze spirituali”: al centro viene messo l’incontro con Gesù attraverso i fratelli; solo dopo, e quasi automaticamente, nascono il desiderio ed il coraggio dell’evangelizzazione. 

 

Certamente vocazionale… 

Parlare di dimensione vocazionale al Punto Giovane è parlare del Punto Giovane stesso. Nel senso che non esiste Punto Giovane senza una prospettiva vocazionale, fondamentalmente per due motivi: 

1) Il Punto Giovane è vissuto da giovani, i quali naturalmente sono in ricerca vocazionale; è una sfera che gli appartiene e allo stesso tempo li tormenta. 

2) Il Punto Giovane è vissuto nella ferialità: una casa, la condivisione dei ritmi di preghiera, il discernimento, la Parola di Dio e l’Eucaristia. 

Dice un passo della nostra Regola spirituale: 

«Il Punto Giovane vuole essere segno e strumento di una vita fraterna condivisa nella fede, all’interno del quale ciascun ragazzo s’impegna, nel dialogo con Dio e con i fratelli, a cercare la sua propria vocazione nella Chiesa. 

“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”. 

Nessuno, quindi, si senta arrivato. Anche se agli occhi di Dio la nostra vocazione precede la nostra esistenza, poiché Dio crea gli uomini avendo già in mente l’opera a cui sono stati chiamati, per noi lo scoprire la vocazione significa inserirsi in un cammino lento e spesso tormentato. 

Accogliere Gesù significa conoscere se stessi fino a riconoscersi dentro il disegno che Dio ha pensato per noi. Per tal motivo la tua convivenza spirituale al Punto Giovane non può essere per sempre! È un già e un non ancora. Già sperimentiamo l’essere figli, ma per camminare verso un progetto non ancora completamente compiuto. 

Dio stesso ci indica il cammino preciso lungo il quale realizzarci pienamente. Questo cammino lo facciamo insieme, e tutti siamo chiamati a cercare la nostra vocazione per il bene del Corpo Mistico, cioè per la realizzazione e la felicità di tutti. Il Punto Giovane è anzitutto strumento per ritrovare noi stessi e la nostra vocazione».(“La regola spirituale del Punto Giovane”, ed. Paoline).

 

La convivenza al Punto Giovane: progetto e struttura 

«Sperimentiamo la gioia di una casa comune. Prima che un edificio sia un contesto, un luogo permanente di incontro, giorni di vita insieme, in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera; tempi comuni dentro la vita ordinaria, per imparare a fare bene le cose di tutti i giorni, e per interpretare insieme la Parola e la cultura contemporanea, con l’intelligenza della fede e con il desiderio di dialogare con tutti. Tutte le nostre comunità siano attente alle esigenze giovanili di vita comune, sapendo che i giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva, per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo. La Parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucaristia ha bisogno di una casa». (Dalla risposta del Card. Martini al Sinodo dei giovani di Milano). 

La convivenza al Punto Giovane è considerata un vero e proprio laboratorio di fede ed ha un suo preciso cammino spirituale. «Occorre saper creare veri laboratori della fede, in cui i giovani crescano, si irrobustiscano nella vita spirituale e diventino capaci di testimoniare la Buona Notizia del Signore nella scuola, nel lavoro, nel tempo libero». (Dal documento CEI “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”). 

Come in un laboratorio si fanno esperimenti; c’è un professore, un tecnico di laboratorio; ci sono degli studenti e c’è un progetto. 

Il professore è Gesù, il Maestro, il solo Maestro. 

Il tecnico di laboratorio è il sacerdote che segue la “convivenza”. 

Gli studenti sono i ragazzi che vivono il mese di convivenza. 

Il progetto di Gesù è la volontà del Padre: la Gloria di Dio. Ma in realtà la “Gloria di Dio è l’uomo vivente”, cioè sono i ragazzi stessi della convivenza. Ciascuno ritrova in questo laboratorio di fede la sua vocazione, l’amore riversato da Dio nei nostri cuori, la grazia che svela la verità a noi stessi. 

Il progetto è dispiegato attraverso un cammino spirituale di tre settimane con relative tappe. 

Ci sono infine gli strumenti del laboratorio. Sono a disposizione di tutti e ciascuno è invitato ad impratichirsi attraverso il loro uso. 

Gli strumenti del laboratorio sono: 

La Parola e l’Eucaristia, “luce” e “pane” di ogni giorno. La Confessione all’inizio e a convivenza inoltrata. La meditazione e la celebrazione delle ore. La revisione quotidiana sulla Parola del giorno. La revisione settimanale sui giorni trascorsi. Il servizio quotidiano

Il cammino spirituale 

Il progetto si dispiega nelle tre settimane di convivenza attraverso tre tappe: 

1a tappa: illuminativa 

2a tappa: purificativa 

3atappa: unitiva 

 

1tappa 

Nella prima domenica si comincia leggendo la Regola spirituale ai capitoli “ascolta” e “figlia”. È la settimana delle scoperte, della novità, ma anche delle titubanze e degli scoraggiamenti. C’è la grossa tentazione, nelle ore precedenti all’ingresso in “convivenza”, di non entrare neppure. Ma già dai primi giorni, assieme alla condivisione della Parola, nasce anche una condivisione spontanea e libera nei confronti dei fratelli. Attraverso il loro volto si scopre l’amorevole volto di Gesù. È Lui il maestro ed è Lui che svela a noi ciò che siamo veramente. Occorre quindi conoscere Lui per conoscere noi stessi. 

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ci aiuta a comprendere meglio questa prima tappa: 

“Voi chi dite che io sia? Gesù pone questa domanda ai suoi discepoli, nei pressi di Cesarea di Filippo. Perché vuol sapere che cosa pensano di Lui i suoi discepoli? Gesù vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo stesso tempo, tuttavia, egli sa che il giudizio che manifesteranno non sarà soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori con la grazia della fede. Questo evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un certo senso nel “laboratorio della fede”. Vi si svela il mistero dell’inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio all’uomo. Segue poi la chiamata a dare una risposta. Infine, c’è la risposta dell’uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita” (Veglia giubilare con i giovani a Roma). 

La settimana si conclude con la professione di fede: come Pietro professa la sua fede di fronte al Signore, così anche ciascun ragazzo scriverà alcune righe da presentare nella Messa del sabato mattina. La professione di fede cercherà di rispondere fondamentalmente alla domanda che Gesù ci pone: “Voi chi dite che io sia?”. Da questa si elaborano le domande da sviscerare nella professione di fede: cosa e chi mi ha portato a questa “convivenza”? Perché ho deciso di venire? Quale relazione si è instaurata con Gesù in questi primi giorni? Quale la Parola che ho fatto mia? Perché decido di continuare? Cosa mi propongo per le prossime settimane? Su cosa penso di lavorare nella prossima tappa purificativa? La professione di fede viene letta e consegnata al sacerdote. Poi, con una preghiera, la si affida alla Vergine Maria. 

 

2tappa 

Si comincia leggendo la Regola spirituale rispettivamente ai capitoli “guarda ”, “porgi l’orecchio” e “dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre”. È la tappa purificativa, ascetica: si cerca di rispondere ai doni di Dio attraverso il distacco dai bisogni materiali e la libertà dalle relazioni; si coglie la dimensione della purificazione dei sensi, la vista (“guarda”) e l’udito (“porgi l’orecchio”), rinunciando alla TV e alla radio; si cerca di prendere coscienza delle difficoltà relazionali e della mancanza di libertà nei confronti degli altri. 

Il venerdì si legge a pranzo la vita di un santo con un pasto sobrio e silenzioso. In Quaresima si fa digiuno ad acqua e pane. È il tempo del silenzio e dell’assenza. A sostegno della Confessione di fede fatta da Pietro a Cesarea di Filippo, il compianto Papa mette un altro momento di “laboratorio di fede”, nel quale i discepoli vivono l’assenza di Gesù. Dice infatti: 

«Il colloquio presso Cesarea di Filippo ebbe luogo nel periodo pre-pasquale, cioè prima della Passione e della Risurrezione di Cristo. Bisognerebbe richiamare ancora un altro evento, durante il quale Cristo, ormai risorto, verificò la maturità della fede dei suoi Apostoli. Si tratta dell’incontro con Tommaso apostolo. Era l’unico assente quando, dopo la resurrezione, Cristo venne per la prima volta nel Cenacolo. Quando gli altri discepoli gli dissero di aver visto il Signore, egli non volle credere. Diceva: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv 20, 25). Dopo otto giorni i discepoli si trovarono nuovamente radunati e Tommaso era con loro. Venne Gesù attraverso la porta chiusa, salutò gli Apostoli con le parole: “Pace a voi!” (Gv 20, 26) e subito dopo si rivolse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” (Gv 20, 27). E allora Tommaso rispose: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20, 28). Anche il Cenacolo di Gerusalemme fu per gli Apostoli una sorta di “laboratorio della fede”. Tuttavia quanto lì avvenne con Tommaso va, in un certo senso, oltre quello che successe nei pressi di Cesarea di Filippo. Nel Cenacolo ci troviamo di fronte ad una dialettica della fede e dell’incredulità più radicale e, allo stesso tempo, di fronte ad una ancor più profonda confessione della verità su Cristo. Non era davvero facile credere che fosse nuovamente vivo Colui che avevano deposto nel sepolcro tre giorni prima» (Veglia giubilare con i giovani a Roma). 

La tappa si conclude il sabato, ma il venerdì si fa una richiesta scritta di perdono, maturata nel corso delle due settimane, da leggere durante l’atto penitenziale della Messa. La richiesta di perdono potrebbe sviscerare le seguenti domande: sono stato fedele all’impegno preso nella professione di fede? Quanto ho purificato i miei occhi e le mie orecchie? È stato il mio dire: sì, sì; no, no? Quale tipo di accoglienza ho rivolto verso gli altri? Quanto non sono ancora riuscito a legare con le persone più lontane? Com’è andata la mia preghiera? E la Parola? E il servizio? Se possibile, dopo la confessione dei peccati, verrà fatta su ciascuno una preghiera da parte del sacerdote. 

 

3tappa 

La terza domenica si legge il capitoletto della Regola spirituale: “il re è innamorato della tua bellezza”

È la tappa unitiva. Unitiva nei confronti di Dio e nei confronti del prossimo. Ciò che caratterizza questa settimana è la Veglia notturna di adorazione eucaristica; è l’incontro con Cristo vivo e risorto. 

«Quando l’incredulità di Tommaso si incontrò con l’esperienza diretta della presenza di Cristo, l’Apostolo dubbioso pronunciò quelle parole in cui si esprime il nucleo più intimo della fede: Se è così, se Tu davvero sei vivo pur essendo stato ucciso, vuol dire che sei “il mio Signore e il mio Dio”. Con la vicenda di Tommaso, il “laboratorio della fede” si è arricchito di un nuovo elemento. La Rivelazione divina, la domanda di Cristo e la risposta dell’uomo si sono completate nell’incontro personale del discepolo col Cristo vivente, con il Risorto. Quell’incontro divenne l’inizio di una nuova relazione tra l’uomo e Cristo, una relazione in cui l’uomo riconosce esistenzialmente che Cristo è Signore e Dio; non soltanto Signore e Dio del mondo e dell’umanità, ma Signore e Dio di questa mia concreta esistenza umana. Un giorno san Paolo scriverà: “Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10, 8-9). Da quel “laboratorio della fede” gli Apostoli uscirono come uomini pienamente consapevoli della verità che Dio aveva rivelato in Gesù Cristo, verità che avrebbe modellato la loro vita personale e quella della Chiesa nel corso della storia» (Veglia giubilare con i giovani a Roma). 

L’ultimo giorno nella Messa si pregherà gli uni per gli altri e ci si proietterà verso la vita quotidiana, che, alla luce di questo “laboratorio di fede”, acquisterà un valore nuovo, come luogo necessario di testimonianza e di evangelizzazione. La “convivenza” dovrà portare nel cuore di ciascuno scelte di vita sempre più radicali in merito alla propria vocazione e al servizio missionario, là dove il Signore ci chiede di operare. 

 

Gli strumenti del laboratorio della fede 

Eucaristia e Parola 

Fonte e culmine della convivenza è la Liturgia, che si esprime e realizza soprattutto nell’Eucaristia. 

L’Eucaristia giornaliera diventa, quindi, un dono e un impegno per i ragazzi che vivono al Punto Giovane. È celebrata al mattino alle ore 6.45, prima di cominciare le attività, tutti i giorni tranne il giovedì e la domenica. Il giovedì perché si celebra l’Eucaristia in comune con tutti i giovani la sera, e la domenica perché nel Giorno del Signore è opportuno che ogni ragazzo viva l’Eucaristia nella propria comunità parrocchiale. L’Eucaristia quotidiana è preparata già dalla sera precedente: infatti durante Compieta viene letto il Vangelo del giorno seguente. Al mattino, dopo una brevissima omelia, sono scelte alcune frasi, che accompagnano, nel silenzio del cuore, la giornata lavorativa o di studio di ciascun ragazzo. Il Vangelo dovrà modellare la vita e le scelte del giorno: è opportuno quindi impararle a memoria. È chiesta poi la confessione sacramentale, prima di cominciare a vivere l’esperienza della “convivenza”.

 

Liturgia delle Ore 

La Liturgia delle Ore scandisce i momenti della giornata: al mattino viene semplicemente recitato comunitariamente il Benedictus (il cantico fulcro delle Lodi mattutine) al momento del ringraziamento nell’Eucaristia; il giovedì, quando la Messa è celebrata la sera, i ragazzi della “convivenza” recitano le Lodi, sostituendo la lettura del breviario con il Vangelo del giorno. 

A mezzogiorno si recita la preghiera dell’Angelus: il ricordo dell’Annunciazione del Signore e della sua Incarnazione sostituisce forse in modo “azzardato” la preghiera liturgica dell’Ora Media, ma è espressione di una tradizione popolare che deve essere custodita anche tra i più giovani. 

La sera alle 19,40 si recitano i Vespri in comune con tutti i giovani che lo desiderano: si utilizza la struttura classica dei Vespri, con un’educazione alla lettura dei Salmi, mettendo in comune ad alta voce le risonanze suscitate in ciascuno. Viene data particolare attenzione al canto, anche sullo stile del modulo gregoriano. 

L’ultima preghiera è quella di Compieta, con l’inserimento del Vangelo del giorno dopo al posto della lettura giornaliera. All’interno di essa viene messa in comune la meditazione personale sulla frase del Vangelo del giorno. L’Ave Maria o un’altra antifona mariana precede il sonno della notte. Insieme con quella della Vergine, viene invocata l’intercessione del beato Alberto Marvelli. 

 

Meditazione 

Tutti i giorni dalle 19.00 alle 19.40 c’è la possibilità della medita-zione, mentre il giovedì si prega con l’adorazione eucaristica. Nella cappellina c’è un quaderno sul quale vengono scritte preghiere o commenti spirituali personali, che segnano il cammino di fede dei ragazzi al Punto Giovane. 

Esiste una vera e propria Regola spirituale del Punto Giovane, che viene consegnata ad ogni partecipante della “convivenza”. La Regola prende spunto dal Salmo 44: “Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; il re è innamorato della tua bellezza” (vv. 11-12). Da meditare durante il mese e non solo, la Regola è un vero strumento di comunione. La verifica settimanale si basa essenzialmente su di essa.

 

Una semplice testimonianza 

Nei primi tre anni abbiamo visto sorgere vocazioni stupende, nella via matrimoniale e nella via della consacrazione. Racconta uno di loro, Davide: 

“Cos’ è stato per me il Punto giovane?… Come ha influito sulla scelta del seminario? 

Quando don Franco propose ad alcuni educatori di Riccione e Miramare, che già facevano un cammino di comunione, di provare a vivere per alcuni mesi una vita intensa e fraterna, dalla quale potesse partire un progetto di accoglienza e testimonianza per tutti, questo progetto, all’apparenza un po’ matto, mi affascinò così tanto che non ci pensai molto, e risposi subito di sì. Se all’inizio mi buttai, per avventura, fede e soprattutto per amore verso i ragazzi, ai quali non sapevo più come portare i valori di Gesù, diventò poi per me il luogo della familiarità con Dio (tanto che la mia famiglia naturale, non sapeva più come beccarmi). Per tre anni è stata la mia casa, luogo di libertà e pace, ma non intesa come evasione dal quotidiano, perché immersa nella realtà. Luogo vero di discernimento, capace di dare alla persona il confronto continuo ed il dialogo con Cristo, l’unico che rende all’uomo la verità sulla sua vita. Quando siamo chiamati a delle scelte importanti, non possiamo pensare di risolverle da soli, poiché sarebbe troppo limitante e riduttivo. Se l’uomo è fatto di relazione ed è in ricerca del suo bene, qual’è l’unica relazione che non lo condiziona se non quella con Dio? Dio chiama ogni persona ad un progetto che è l’unico fatto su misura per lui. Se Lui mi ha pensato prete da sempre, qualsiasi cosa d’altro che potrei fare nella mia vita, seppur bello e appagante, non potrebbe mai rendermi felice. In quella casa ho scoperto che non si può essere felici a prescindere da Cristo. 

La notte del 21 febbraio 2001 ho deciso di entrare in seminario. Non riuscivo a prendere sonno e sono entrato in cappellina. Piangevo ma ero felice, chiedevo a Dio continuamente: perché io… perché io? Allora prima ho telefonato a don Franco, poi sono tornato in cappella e ho scritto una preghiera di affidamento al Signore, mi sono rimesso nelle sue mani, perché effettivamente mi stava succedendo una cosa che era più grande di me. Sono in seminario da quattro anni e il Punto Giovane rimane ancora oggi l’esperienza che mi ha portato alla confidenza con Dio, quella capace di farci fare scelte radicali e belle, perché le strade preparate per noi sono le vere vie che ci liberano. Non vi preoccupate, il Signore ha molta fantasia e se vi affidate a Lui troverà anche per voi una via di bellezza”.