N.04
Luglio/Agosto 2006

Dalla realizzazione di sé al dono di sé in Cristo

Cosa pensano i giovani della vocazione?

Una recente ricerca realizzata dal prof. Franco Garelli, preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, e pubblicata dalle Edizioni San Paolo [1] si è interessata di cosa pensano i giovani italiani di fronte alla realtà della vocazione.

L’inchiesta, fatta su un campione rappresentativo di oltre mille giovani di età compresa tra i 16 e i 29 anni, ha messo in evidenza alcuni aspetti che mi sembra utile evidenziare per sintonizzarci con ciò che pensano i giovani quando vengono interrogati circa la vocazione e le vocazioni. Questo ci aiuta a metterci in ascolto della loro realtà e delle domande presenti nel loro cuore, ma forse troppo assopite, o non ascoltate.

Anche i media hanno dato una certa rilevanza a questa indagine presentata in occasione della scorsa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, segno che qualche “sorpresa” sembra esserci. Da essa emerge con chiarezza (ed è questo probabilmente che ha richiamato l’attenzione dei media) come la dimensione vocazione non sia estranea all’orizzonte dei nostri giovani [2].

Tra quelli intervistati, uno su dieci ha considerato nel periodo dell’adolescenza l’idea di farsi prete, religioso o suora o missionario, ma dichiara di aver abbandonato l’idea in meno di un anno, perché per intraprendere questa via occorre rinunciare a troppe cose e per sempre, ma anche perché non ha avuto figure di riferimento con cui confrontarsi. L’idea si è affacciata alla mente in seguito ad un’esperienza “forte”: una particolare vicenda personale (crisi esistenziale o amorosa, conflitti familiari) o un’importante esperienza religiosa (pellegrinaggi, gruppi di preghiera, ritiri spirituali, esperienze estive e missionarie). In generale, i giovani intervistati:

– pensano alla realtà vocazione come “una inclinazione o un talento personale”;

– comprendono la vocazione in termini di autorealizzazione della propria vita, autodeterminazione e autocostruzione;

– non concepiscono una scelta fatta una volta per sempre;

– vedono normale la reversibilità degli impegni presi.

 

Per molti vocazione significa l’esigenza di interrogarsi su chi si è e su cosa si vuole dalla vita, su ciò a cui si è portati o a cui ci si sente chiamati. Ma il venir meno dell’orizzonte religioso, specifico di ogni vocazione, non permette loro di andare al di là di se stessi, per comprendersi in un progetto che li precede e li accompagna.

Lo scoglio più difficile da superare è rappresentato dalla condizione di solitudine che deriva dalla scelta di consacrazione e dall’impossibilità di formarsi una famiglia ed avere figli.

Fare una scelta di vita la si ritiene una responsabilità eccessiva. Ciò che più li spaventa non è il pensare ad una scelta di vita, ma comprendere come questa si possa realizzare.

Dato non secondario per gli educatori, è che questi giovani sottolineano in modo forte che non hanno nessuno con cui confrontarsi sul loro futuro e sulle loro scelte. La maggior parte ha difficoltà ad individuare figure capaci di richiamarli ad un’idea chiara di vocazione, il cui stile di vita testimoni una missione o un progetto da compiere. Inoltre fanno fatica ad individuare delle figure “vocazionali” significative nei luoghi ordinari in cui vivono.

 

Quale “centro” nel cammino di ricerca?

Facendo tesoro di questi rapidi accenni all’indagine, ciò che dovrebbe rimbalzarci positivamente nel cuore è la non estraneità della realtà vocazione ai giovani intervistati. Dovremmo però saper cogliere il loro celato rimprovero di non aver trovato nessuno capace di aiutarli a decifrare questa prospettiva nuova nella loro vita: un vero grido di aiuto, che c’invita alla responsabilità. Ci invita ad aiutarli a trovare non solo le condizioni adatte per capire cos’è questa certa idea di vocazione che coltivano, ma anche ad accompagnarli a portare a compimento la vocazione personale, intesa come quell’unica e personalissima risposta all’amore, che ciascuno è chiamato a dare.

Così dalle generiche indicazioni dei dati raccolti tra alcuni giovani, per noi anonimi, ritroviamo gli stessi volti e gli stessi appelli di coloro che direttamente incontriamo nel nostro servizio educativo. Anche a loro probabilmente non è estraneo il pensare che vocazione voglia dire esclusivamente realizzazione di sé, autocostruzione personale, autorealizzazione… o che affrontare la vita come vocazione, significhi accettare troppe limitazioni: rinuncia, solitudine, privazione di ciò che piace…

Certamente, là dove manca il riferimento a Dio, al suo progetto d’amore rivelato in Gesù Cristo, a quell’amore “riversato nei nostri cuori” dallo Spirito (cf Rm 5,5), che rende le persone capaci di rispondere all’amore (con tutto ciò che comporta), è difficile allontanare lo sguardo da sé come unico ed assoluto punto di riferimento. Ma anche dove esiste un orizzonte di fede, non sempre è scontato che esso diventi, per il giovane, la possibilità di vivere quel cammino di conoscenza di sé che porta a meglio possedersi, per potersi meglio donare.

Mi pare importante sottolineare che il cammino di conoscenza di sé, necessario per rispondere a qualsiasi vocazione, è qualitativamente diverso se al centro c’è la persona di Gesù, quanto lui ha detto, vissuto e consegnato a noi nel Vangelo.

 

Conoscersi per potersi più pienamente donare

La realizzazione di sé, messa in evidenza dai giovani intervistati, tanto proclamata oggi e cercata come primo frutto in ogni scelta, in ultima analisi, rivela una visione egocentrica della vita.

La mia esperienza mi conferma che là dove il giovane, che pure ha intrapreso un cammino di sequela del Signore, difende tenacemente questa realizzazione personale, non riesce a fare il salto nel dono di sé, e presto o tardi comprenderà l’impossibilità di trovare nella vita di totale consacrazione al Signore quello che sta cercando.

Nella logica evangelica, la realizzazione di sé è solo condizione seconda, conseguenza dell’aver fatto, come Gesù, della vita un dono. È mentre ci si dona che si sperimenta quella pienezza di vita promessa da Gesù stesso (cf Gv 10,10), e si ha la certezza che se il Signore non ha promesso la felicità immediata, è perché ha assicurato che nel “rimanere nel suo amore” si sperimenta la “sua gioia”, che è gioia piena (cf Gv 15, 9-11).

C’è un perdersi per ritrovarsi, difficile, esigente, a volte incomprensibile, nel vivere quanto il Signore Gesù chiede, ma che permette alla persona stessa di conoscersi per potersi più pienamente donare.

In questa continua chiamata ad uscire da sé, per amore, si compie il miracolo di ogni vocazione: decidere di perdere la vita per ritrovarla: «chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8, 35).

Essere disposti a fare liberamente dono di sé fornisce perciò un criterio di discernimento molto concreto (probabilmente è questo il criterio di un autentico discernimento vocazionale!) per capire le vere motivazioni di aspirazioni, desideri, attese… che permettono il compiersi della scelta di vita. 

 

Ripartire da Cristo per un autentico cammino di conoscenza di sé

Proprio in questo senso il nostro cammino di accompagnamento ha come primo compito quello di purificare tali comprensioni limitate, attraverso il “ripartire da Cristo”, cioè attraverso quell’esperienza liberante e personale dell’incontro con Gesù, capace di rendere più umana la propria storia e perciò più capaci di accogliere la proposta d’amore iscritta nel cuore del Padre.

Un itinerario di discernimento vocazionale ha il compito di aiutare la persona a far sì che i contenuti della fede diventino esperienza di vita, e l’incontro con Gesù morto e risorto (conosciuto nella Parola, nell’atto di fede e nella vita ecclesiale), diventi autentico rapporto personale con lui, nella dinamica della sequela. Necessità quindi di annuncio dei contenuti della fede, ma soprattutto necessità di accompagnare i giovani a vivere una relazione personale con il Signore Gesù.

È questo incontro che gradualmente opera un vero e proprio processo di conversione nel cuore del giovane. Esso comincia sempre dalla concreta situazione in cui egli si trova (i suoi valori di riferimento, i bisogni, i desideri, le fragilità, la storia passata e presente, l’apertura al futuro e la scoperta del senso della propria vita…) e si configura come un esodo da se stesso per vivere l’amore cui è chiamato.

Ripartire da Cristo è una condizione necessaria per vivere quel difficile, seppur affascinante, cammino di conoscenza di sé che porta la persona a riconoscersi per ciò che è nel disegno di Dio, ma è ugualmente condizione necessaria per aprirsi al nuovo, a ciò che in questo disegno è scritto e mai totalmente rivelato.

Attingendo ancora dalla mia esperienza posso confermare che, insieme alla paura di intraprendere il cammino di una conoscenza più vera di se stessi, vi è anche lo stupore per ciò che si conosce di sé nella rilettura della propria storia alla luce del Vangelo. La stessa storia personale diventa “buona notizia”: reale e personale storia di salvezza, consegnata a Dio perché possa essere narrata ad altri. Questa “buona notizia” è tale non perché sia senza ostacoli, fallimenti, limiti, o perché si sia finalmente capaci di far risorgere dalle proprie ceneri qualcosa di positivo, ma perché avvolta nel mistero pasquale: mistero continuamente da attraversare e al tempo stesso da contemplare già nella propria storia.

 

Ha amato me e ha dato se stesso per me

L’obiettivo generale del discernimento vocazionale è poter aiutare il giovane ad avviare quel processo di maturità umana e spirituale che lo porterà a dire con S. Paolo: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). È l’esperienza dell’amore personale che qualifica la storia personale. È scoprirsi profondamente amato che permette di riamare.

Perché questo obiettivo sia attuato è necessario che il giovane possa fare di Cristo un’esperienza reale, entrare in relazione con lui come con un Tu vivo, a cui è possibile consegnare la vita e da cui si impara come consegnarla.

Giungere al cuore del discernimento vocazionale è comprendere che ogni cristiano è chiamato a vivere in Cristo la propria vita, e nella misura in cui si stabilisce una vera relazione e comunione, a vivere con lui e per lui la propria vocazione. È come avere un centro gravitazionale attorno al quale è possibile far ruotare ogni aspetto della vita: sensibilità, affetti, desideri, paure…

Mettere Cristo al centro del cammino di conoscenza di sé, è avere lui come riferimento, non solo per verificarsi, ma soprattutto per riconciliarsi con quelle realtà ferite che ciascuno ritrova – anche chi non ha avuto delle storie particolarmente traumatiche – nella paziente rilettura del proprio vissuto.

Se la conoscenza di Gesù non è solo intellettuale e astratta, ma coinvolge l’intera persona, la vita vibra nell’intensità di una relazione affettiva che permette di plasmare i propri affetti e sentimenti su quelli di Gesù, per poterli meglio indirizzare a Dio e ai fratelli. Ed è questa relazione che diventa misura e criterio dell’agire, in conformità al modo di amare e di vivere di Gesù: nella misura in cui il giovane entra nel processo dinamico della conformazione a Cristo, cresce, sviluppa e porta a compimento la propria personalità umana. Nello stesso tempo, più sviluppa armonicamente la propria personalità, più cresce nella relazione con Cristo e più rende possibile il processo di conformazione a lui.

Mentre nasce lo stupore di essere stato amato in modo personale, aumenta il desiderio di poter ricambiare il dono ricevuto. È lo spazio della gratitudine che introduce alla gratuità. Ricambiare l’amore ricevuto diventa allora donazione, non come dovere o imposizione, ma come conseguenza logica; come risposta che, giorno per giorno, diventa vita, e scelta di vita.

 

Note

[1] F. GARELLI (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, San Paolo, Milano, 2006.

[2] Ibidem, pp. 5-14.