N.04
Luglio/Agosto 2006

Pedagogia vocazionale alla luce della rivoluzione della Pasqua

La convinzione che “ripartire da Cristo” sia un’esigenza urgente e sempre scindibile per tutta la pastorale vocazionale domanda di essere tradotta in concreti percorsi cristocentrici, capaci di interpellare la libertà personale e di aprirla alla relazione unica e totalizzante con il Signore Gesù. Tentiamo qui un abbozzo di proposta vocazionale articolata in tre momenti:
1. Ripartire da Cristo: perché? La rivoluzione pasquale.
2. La rivoluzione pasquale negli affetti verso Cristo Signore, verso la nostra stessa vita, verso gli altri.
3. Vocazioni: vite rivoluzionate e “trasgressive”.

 

Ripartire da Cristo: perché? La rivoluzione pasquale

Ripartire da Cristo nella proposta vocazionale significa innanzi tutto riconoscere che, “colto nel suo mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima”[1] e quindi la nostra esistenza è inserita in una storia che è storia di salvezza.
Nell’evento pasquale, di cui facciamo memoria ogni domenica, e che costituisce “il dato originario su cui poggia la fede cristiana (cf 1Cor 15,14), […] l’asse portante della storia” (NMI, 35), noi riconosciamo come uno spartiacque decisivo. Lo ha espresso con particolare forza Papa Benedetto XVI nella GMG di Colonia, quando ha paragonato la Pasqua alla fissione nucleare: “È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere, la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo”[2].
Questo evento decisivo per tutta la storia dell’umanità il Papa lo ha paragonato ad una “rivoluzione”, perché “solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo” (dall’omelia nella Veglia a Colonia). Di fronte a questo spartiacque operato dal Cristo crocifisso e risorto sono chiamato a prendere posizione, ad entrare a far parte di quel popolo di uomini e donne – la Chiesa – che ha riconosciuto in Gesù Cristo la vera rivoluzione, l’inizio di una storia nuova, e di questa storia si è fatto partecipe imparando a trasformare la violenza in amore e la morte in dono della vita. Non accogliere questa chiamata, in un certo senso, è non vivere al passo con la storia, è continuare a vivere come se non fosse apparso “niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9).
Qui sta il punto centrale di ogni proposta cristiana e vocazionale. Ad esso ci riconducono i vari percorsi neotestamentari (pensiamo solo all’epistolario paolino o alle “lettere alle Chiese” dell’Apocalisse) e tutta la straordinaria pedagogia ecclesiale dell’anno liturgico. Ogni celebrazione eucaristica, attraverso il memoriale sacramentale, innesca nel “qui e ora” della nostra vita l’esplo-sione salvifica pasquale, rendendoci popolo della Pasqua, testimoni di quel processo inarrestabile di rivoluzione e trasformazione iniziato duemila anni fa a Gerusalemme.
In questa prospettiva “ripartire da Cristo” costituisce anche la risposta più efficace alla cosiddetta cultura dell’indecisione, che affligge il nostro tempo. Certamente è impossibile impegnare se stessi e la propria libertà in maniera irrevocabile se la storia non ha un senso, se la mia vita è solo uno sbadiglio tra due nulla, se l’esistenza è solo un gioco, in cui spero solo di essere un po’ baciato dalla fortuna. Se invece mi colgo pensato e voluto dall’eternità dentro un disegno di salvezza, in cui Dio per primo si è messo totalmente in gioco nella Pasqua del suo Figlio, allora anch’io colgo la possibilità e la ragionevolezza di mettermi in gioco completamente ed in maniera irrevocabile.
Senza dimenticare che solo questa prospettiva permette di far fronte ad un sospetto fortemente attivo nella nostra cultura: il sospetto che religione e speranza cristiana siano solo frutto di un illusorio “meccanismo proiettivo”. Così si esprimeva L. Feuerbach, seguito da Marx, Nietzsche e Freud: il divino, con i suoi attributi perfetti, non è altro che la proiezione dei desideri umani imperfetti, elevati all’ennesima potenza; in tal modo non è l’uomo ad essere creato ad immagine e somiglianza di Dio ma, viceversa, è Dio che, nelle diverse religioni, viene plasmato ad immagine e somiglianza degli uomini che lo creano. Questa spiegazione può senz’altro essere utile per smascherare l’origine proiettiva e consolatoria di certe forme religiose o pseudo-religiose, quelle antiche come quelle presenti nel “fai da te” contemporaneo, basate sulla ricerca di sicurezza dalle angosce della vita o dalla vana pretesa di catturare e piegare a proprio vantaggio energie positive e potenze superiori. Ma proprio il ripartire da Cristo e dalla sua Pasqua mostra che il cristianesimo non si pone innanzi tutto come una dottrina, un sistema religioso o un’etica della vita riuscita, bensì come l’avvenimento unico ed imprevedibile dell’incarnazione salvifica del Figlio di Dio. Dall’incontro con la persona concreta di Gesù di Nazaret, vero Dio e vero uomo, crocifisso e risorto, scaturisce l’esperienza trasformante della fede.
Se in Cristo l’uomo sperimenta una risposta piena e sovrabbondante alle attese profonde del suo cuore, questo non proviene dalla messa in atto di un meccanismo proiettivo, ma dalla grazia, cioè dalla sorprendente gratuità dell’evento cristiano, nel quale l’uomo scopre l’inaudita realtà di essere creato a immagine di Dio e chiamato alla comunione con lui. Da qui il grido di ogni convertito a cui sant’Agostino ha dato voce in maniera insuperabile: “ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” [3].
Ripartire da Cristo ci pone nell’ottica giusta per liberarci da questo sospetto e scoprire tutto il valore e il senso della nostra libertà, che non è più svuotata, ma chiamata ad entrare nel gioco grande della storia rinnovata dalla rivoluzione pasquale. Allora tutto il discorso vocazionale esce dalla logica del reclutamento, come dalle secche della pura autorealizzazione e si propone come la via privilegiata per condurre ogni uomo ed ogni donna al cuore della propria vita.

 

 

La rivoluzione pasquale negli affetti verso Cristo Signore, verso la nostra stessa vita, verso gli altri

“È il Signore!” (Gv 21,7)
Ogni accompagnatore vocazionale è chiamato a lasciarsi ispirare dalla scena post-pasquale di Giovanni 21. Quando il discepolo amato, sul lago di Tiberiade, alla vista del gran numero di pesci pescati, grida “È il Signore!”, Simon Pietro si butta subito in acqua per raggiungere in fretta Gesù alla riva.
Ripartire da Cristo, per ogni accompagnatore vocazionale, vuol dire testimoniare e promuovere innanzi tutto un senso vivo della presenza del Signore Gesù, premessa ad ogni “buttarsi” vocazionale, aiutando a riconoscere il Crocifisso Risorto là dove egli ci ha dato appuntamento per continuare ad incontrarlo: la sua voce nella sua Parola trasmessa dagli Apostoli, il suo Corpo e il suo Sangue nell’Eucaristia, la potenza salvifica e risanatrice dei suoi gesti in tutti i Sacramenti, la sua presenza unificatrice nella Chiesa, particolarmente quando siamo radunati nel suo nome.
Purtroppo l’abitudine, la superficialità e il peccato ci portano spesso a prendere alla leggera tutta questa economia sacramentale, ad agire trasmettendo l’idea che ci raduniamo insieme per ascoltare il Vangelo, celebrare l’Eucaristia e amarci gli uni gli altri solamente “come se” il Signore ci parlasse, “come se” si rendesse presente, “come se” fossimo fratelli, non perché lì il Signore ci dà appuntamento per parlarci davvero, per fare davvero comunione con noi, per farci vivere sempre più da fratelli, quali realmente siamo.
La rivoluzione pasquale esige e favorisce il ripartire da Cristo, lo stile di chi si avvicina ai segni piccoli dell’economia ecclesiale e sacramentale con stupore e gratitudine, sentendosi il primo destinatario di una grazia inaudita. Tale gratitudine sarà tanto più profonda quanto più prenderò coscienza della mia radicale impotenza e povertà di creatura e di peccatore, destinato da solo ad un ineluttabile naufragio, indegno di avvicinarmi al tre volte Santo, e però sorprendentemente introdotto dal Signore stesso, per pura grazia, nell’abisso insondabile del suo mistero di vita e d’amore.

 

“Forte è il suo amore per noi ed eterna è la sua misericordia” (Sal 116)
Dall’esperienza viva di questo incontro con il Signore la vita stessa esce trasformata: il Signore ce la restituisce nella sua autentica bellezza, rendendo appassionante l’esercizio della nostra libertà a servizio del mondo nuovo inaugurato dalla rivoluzione pasquale, liberandoci da quel appiattimento sul presente e dal ricatto soffocante della gratificazione immediata, che incombono là dove la vita è senza radici e senza futuro.
L’incontro col Crocifisso Risorto ci riconcilia con la nostra storia personale, risana le ferite del nostro passato, trasforma i nostri limiti e le nostre paure, rendendoli luoghi in cui liberarci dalle immagini idealizzate e un po’ idolatriche di noi stessi e da quelle specularmente deformate di Dio, per aprirci al suo amore gratuito ed incondizionato.
Tutto questo passa anche attraverso una purificazione della memoria, cioè una rilettura di ciò che Dio ha fatto nella nostra storia, di come era all’opera anche quando non lo abbiamo saputo riconoscere o quando ci era sembrato estraneo ed assente. Allora, grazie ad una tale rilettura – del resto mai compiuta del tutto – quelle fasi o avvenimenti che prima ci erano parsi solo frammenti o spezzoni sconnessi, si ricompongono in un disegno e un’armonia nuovi, che infondono rinnovato slancio e fiducia al nostro cammino, avendo toccato con mano che “forte è il suo amore per noi ed eterna è la sua misericordia” (Sal 116).

 

“Ho sete!” (Gv 19,28)
La rivoluzione pasquale, riconciliandoci col nostro vissuto, ci apre ad uno sguardo nuovo anche su tutta la realtà che ci circonda. Più siamo trasformati dalla presenza del Risorto, più siamo abitati dalla sua speranza, che è la passione divina per la vita piena di ogni uomo. Diventa istintivo – cioè espressione di questo sentire nuovo generato dallo Spirito – andare incontro ad ogni persona nella sua singolarità, evitare di far scadere nel formalismo burocratico e superficiale le occasioni di incontro, lavorando piuttosto perché ognuno sia accolto col suo “volto” e perché la stessa comunità ecclesiale si presenti come una comunione ed una fraternità in atto.
Diventerà allora leggibile e sperimentabile qualcosa della storia nuova inaugurata dalla Pasqua. Anzi, ogni gesto, ogni parola, ogni iniziativa saranno tanto più eloquenti e fecondi quanto più impareremo a prestare ascolto a Cristo stesso, che in ogni persona che incontriamo ci grida “Ho sete!”. Quel grido che, da Caterina da Siena a Madre Teresa di Calcutta, passando attraverso la stessa Teresa di Gesù Bambino, i cuori ecclesiali più attenti hanno avvertito come un invito personale del Signore ad amarlo e a saziare la sua sete nascosta nel fratello, soprattutto nel povero, interpella anche noi.
La rivoluzione pasquale trasforma la carità fraterna in mistica dell’incontro con Cristo. Ne nasce un amore che non sopporta dilazioni o dedizioni per procura, e che conduce alla pienezza della grazia salvifica cominciando col prendere sul serio i bisogni e i desideri elementari delle persone, secondo lo stile di Gesù nel Vangelo.

 

 

Vocazioni: vite rivoluzionate e “trasgressive”

Rivoluzione degli affetti e vocazioni
La rivoluzione negli affetti, cui conduce un’autentica pedagogia ecclesiale sotto il segno del “ripartire da Cristo”, può essere letta in riferimento anche alle vocazioni paradigmatiche nella Chiesa. Ciascuna di esse la incarna in maniera rappresentativa.
La vocazione presbiterale custodisce nella Chiesa la coscienza che tutto parte da Cristo, il primato della grazia cristocentrico-trinitaria, servendo la presenza viva di Cristo Capo, Sposo e Pastore operante in tutta l’economia sacramentale. La vocazione laicale, ed in particolare quella matrimoniale, incarnano la volontà dell’amore divino di entrare nella storia concreta e quotidiana degli uomini, assumendo tutto l’umano e raggiungendolo con la sua forza risanatrice. La vita consacrata testimonia l’inesauribile creatività dell’agape e attira sguardo, orecchio e cuore di tutta la Chiesa-Sposa verso quel misterioso sacramento del Crocifisso Risorto che sono i poveri dai mille volti, in cui Cristo Signore chiede di essere riconosciuto e amato.

 

Vivere come chi ha la morte alle spalle
Esistenze vissute così divengono altrettanti appelli vocazionali, tanto più eloquenti quanto più sarà cosciente e operante la “trasgressione” radicale resa possibile dalla rivoluzione pasquale: vivere come chi ha “la morte alle spalle”.
Il mondo non illuminato dalla novità della Pasqua si costruisce tutto a partire da un postulato tacito ed apparentemente indiscutibile: la morte ci sta davanti e con essa tutto finisce. I conti della vita, o tornano quaggiù, o non tornano affatto. Di qui la tentazione costante di trasformare in assoluto irrinunciabile, dunque in idolo, i beni creati da Dio, aggrappandosi ad essi, affidando loro la speranza di qualche scampolo di successo e di gratificazione, cercando di dimenticare, o almeno di rinviare, il grande salto nel nulla.
L’annuncio pasquale passa appunto tramite esistenze “trasgressive”, segnate da scelte vissute come chi sa che Cristo è il Signore, cioè ha dato “scacco matto” alla morte, e su di lui si può costruire una vita non più sotto il ricatto della morte; una vita liberata, non vissuta come coloro che “per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Gente che vive come chi ha “la morte alle spalle”, non perché si illude di non morire, ma perché la morte in quanto annientamento e fine disperante di tutto, è stata definitivamente vinta in Cristo.
È a partire da qui che sono rese possibili scelte autenticamente vocazionali, esistenze cristiane mature, cioè caratterizzate – come dice la traccia in preparazione al Convegno di Verona – da una fede testimoniale, secondo la ricca varietà delle figure vocazionali. Testimone è la traduzione della parola greca “martire”. In fondo i martiri cristiani sono i veri trasgressivi della storia.
Scriveva Madeleine Delbrêl (1904-1964), mistica francese che credeva alla qualità alta della vita cristiana, vivibile da semplici cristiani delle strade:
«Il tempo dei martiri passa e ritorna, ma il tempo dei testimoni dura sempre e testimoni vuol dire martiri. Questa incarnazione della Parola di Dio in noi, questa docilità a lasciarci modellare da lei, è ciò che chiamiamo testimonianza. Se la nostra testimonianza è spesso così mediocre è perché non comprendiamo che per essere testimoni occorre lo stesso eroismo che per essere martiri.
Per prendere la Parola di Dio sul serio, occorre in noi tutta la forza dello Spirito Santo.
“Vivere oggi come se stasera dovessi morire martire” scriveva il Padre de Foucauld.
Ad ogni ora delle nostre giornate potremmo dire: “Cominciare quest’ora sapendo che bisognerà essere martiri, essere testimoni”, perché non c’è ora in cui abbiamo il diritto di lasciare la Parola di Dio dormire in noi. E questo implica un fervore di tutto noi stessi di fronte alla grazia di ogni istante,
un’attesa sconfinata di questa forza senza la quale saremmo dei rinnegati».[4]

 

Note
[1] GIOVANNI PAOLO II, Novo Millennio Ineunte, 5.
[2] BENEDETTO XVI, Omelia della Messa nella spianata di Marienfeld.
[3] AGOSTINO, Confessioni, I, 1.
[4] M. DELBRÊL, Missionari senza battello, “Messaggero”, Padova 2004, p. 65.