N.04
Luglio/Agosto 2006

Quale teologia al centro dell’animazione e della pastorale vocazionale?

La prospettiva tematica scelta per il nostro incontro risulta di grande interesse e perfino decisiva per un rinnovato slancio della nostra pastorale: ripartire da Cristo per una teologia della vocazione e delle vocazioni, per l’oggi dell’annuncio, la proposta, l’accompagnamento vocazionale, la formazione e la “tenuta” della scelta definitiva nel presbiterato e nella vita consacrata. Condivido pienamente l’osservazione iniziale del foglio di lavoro relativa ad una sorta di contraddizione, secondo la quale a fronte di una prassi vocazione molto articolata e variegata, fa riscontro una teologia vocazionale debole, o comunque non altrettanto articolata e variegata.

Lo scopo della mia relazione non è certo quello di colmare questa debolezza, ma più semplicemente di offrire qualche spunto di riflessione per poter lavorare in questa direzione.

Svilupperò il mio intervento in tre momenti essenziali di verifica:

1) Perché ripartire da Cristo?

2) Quale cristologia della vocazione?

3) Interrogativi aperti.

 

Perché ripartire da Cristo?

Dire di “ripartire da Cristo” non significa ovviamente ritenere che dietro di noi vi sia il nulla o che finora non vi siano stati degli sviluppi anche molto significativi in questa direzione. Sarebbe ingenuo e ingiusto verso coloro che con grande generosità e competenza hanno lavorato in questa direzione dal Vaticano II ad oggi, passando per:

– i diversi piani pastorali vocazionali  (del 1973 e del 1985);

– il Documento conclusivo del II Congresso internazionale per le vocazioni dell’81 e la nota Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle chiese particolari della Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche del 1992;

– fino al Congresso Nuove vocazioni per una nuova Europa del ‘98 e agli Orientamenti emersi dai lavori della XLVI Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana del 1999.

Il problema, ovviamente, non è quello di pensare di partire da zero, ma, come si dice nel foglio di lavoro, “di rilanciare alcune tematiche teologiche, in particolare cristologiche, disattese” e, più specificamente, mostrare come l’incontro con Cristo sia da considerare il fondamento primario e sorgivo di ogni identità vocazionale.

 

Precedenti significativi

Non si parte da zero, perché la prospettiva cristocentrica è in qualche modo già implicita nei documenti citati. Mi limiterò a ricordarne alcuni spunti.

Il Documento conclusivo del II Congresso internazionale per le vocazioni dell’81, rimandando al numero 10 della Gaudium et Spes, parla di Cristo come di Colui che risponde pienamente alla ricerca di senso dell’uomo e il vertice della storia umana, anche se poi non se ne traggono le conseguenze logiche in chiave di teologia vocazionale. Se, infatti,“la Chiesa crede che  in Cristo, il suo Signore e Maestro, si trova la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana” (cf GS 10 e 22), la coerenza esige di fare di questa direttiva di fede l’orizzonte paradigmatico di ogni annuncio vocazionale.

Indicativo è egualmente il passo del documento Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle chiese particolari del ’92 dove, parlando dei valori sui quali fondare una costruttiva pedagogia della vocazione o delle vocazioni, si afferma che “al primo posto vi è sempre il fascino esercitato sui giovani dalla persona del Cristo, dal suo stile di vita e dalla sua sequela radicale” (n. 79). Si tratta però di un suggerimento inserito nella sezione pastorale del testo invece che in quella teologica, e lasciato quindi a se stante, senza valorizzarne tutta la fecondità in ordine ad una rinnovata teologia della vocazione. 

 

Interazione tra ecclesiologia e cristologia della vocazione

La problematica del “ripartire da Cristo” – mi si consenta un’autocitazione – coincide perfettamente con quanto ho avuto modo di dire da diversi anni e per ultimo nell’articolo: Teologia della vocazione. Prospettive alla luce di alcuni documenti ufficiali, pubblicato in “Vocazioni” 5 del 2004, dove, in un quadro di bilancio complessivo, dopo un rapido excursus sulle figure teologiche di vocazione emergenti nei documenti esaminati, notavo come il modello tipicamente cristologico, pur essendo ovviamente implicito in tutte le figure, non risultasse esplicitamente tematizzato, se non di passaggio nei due passi indicati. Prevalevano piuttosto modelli-altri, come in particolare quello personale-esistenziale, quello trinitario-ecclesiale o quello ministeriale-comunitario. Osservavo, inoltre, come la prospettiva di fondo che appariva predominante nell’impostazione globale dei documenti fosse specialmente – anche se non esclusivamente – ecclesiologica.

La prospettiva ecclesiologica è indubbiamente essenziale, come notava magistralmente il documento della Pontificia Opera per le Vocazioni del ’92, richiamandosi alle risposte pervenute dalle Conferenze Episcopali:

Per comprendere e apprezzare la vocazione cristiana e le vocazioni alla vita consacrata occorre considerare queste vocazioni alla luce del mistero della Chiesa” (n. 30). E aggiungeva: “Frequentemente le difficoltà riguardanti le vocazioni sono connesse ad una conoscenza insufficiente della Chiesa” (n. 31).

Nessuno intende, dunque, mettere in dubbio questa prospettiva: è evidente come il concetto di vocazione sia inseparabilmente legato al mistero della Chiesa, alla sua vocazione e alla sua missione. Ci si può tuttavia domandare, legittimamente, se in questo sviluppo si sia tenuta nel debito conto la dimensione cristologica della teologia della vocazione, e se quest’ultima non debba essere assunta in una forma più diretta e in un orizzonte più organico, anche tenendo conto del clima culturale odierno, dove è urgente ripartire dall’annun-cio di Cristo, prima di poter parlare della Chiesa. È chiaro peraltro – anche se è evidente per se stesso – che la prospettiva cristocentrica non è da intendere in termini alternativi a quella ecclesiocentrica, ma semmai come la sua radice e l’anima dei singoli modelli vocazionali.

 

Motivazioni della scelta cristocentrica

Quali le motivazioni della scelta di “ripartire da Cristo”?

Mi limito ad indicarne tre:

– l’identità della vocazione cristiana,

– la storia di ogni vocazione come storia di amore con Cristo,

– la necessità di rispondere alle istanze del contesto odierno.

 

L’identità cristiana come vocazione a, di, in Cristo

La prima ragione si fonda sull’identità stessa dell’esistenza cristiana come

– vocazione a Cristo

– vocazione di Cristo

– vocazione in Cristo 

Risiede in questa triplice preposizione (a, di, in) il fondamento primario e – direi – il fascino decisivo della fede cristiana. Il cristianesimo è una persona: è l’incontro con la persona di Gesù, il Nazareno, morto e risorto per tutti, eternamente intronizzato alla destra del Padre, ed è vivere in Lui nella grazia dello Spirito.

Dico questo evidentemente non tanto per noi quanto per il discorso dell’annuncio vocazionale. Sarebbe istruttivo, a riguardo, elaborare una tipologia delle concezioni di cristianesimo che si trasmettono nelle nostre comunità: concezioni ritualiste, moraliste, sociologiche, oppure superficiali, mediocri o solo negative.

Il discorso vocazionale è anzitutto un problema di annuncio; un annuncio che sia in grado di affermare la pienezza del mistero di Gesù, il Redentore dell’uomo e del mondo (Redemptor hominis), e sia quindi capace di proclamare come solo con Lui si può rispondere ai grandi interrogativi della vita e trovare quella riconciliazione profonda, quell’unità cui tutti aneliamo: Cristo, progetto dell’uomo, di ogni uomo.

Solo quando si riesce a mostrare, come fa la Gaudium et Spes, in che modo la vocazione personale, sociale e storica di ogni essere umano si incontri con la venuta dell’Unigenito incarnato, si è in grado di strutturare un’adeguata teologia della vocazione ed una conseguente pastorale vocazionale.

La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua suprema vocazione (…) Crede egualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana” (GS 10).

 

La vocazione come storia di amore con Cristo

La seconda ragione di una tematizzazione sempre più diretta e formale del modello cristocentrico risiede nella natura stessa di ogni vocazione cristiana come storia di amore con Cristo: nuzialità di incontro, di contemplazione amante e di discepolato che si fa esperienza di amore accolto, vissuto e donato fino a sentire la propria vita come un dono da ri-donare.

Non esiste vocazione che non sia storia di un amore ricevuto, sperimentato, vissuto e incarnato in Cristo. Solo in Lui, come diceva B. Pascal, l’uomo ritrova se stesso e impara a diventare ciò che egli è chiamato ad essere nella sua realtà più alta. Si tratta di proclamare il messaggio cristiano non tanto o non solo come un insieme di verità astratte, ma come la storia di un incontro, come un accadimento di amore che attinge alle profondità stesse della creatura umana, là dove risiede il suo desiderio di amare e di essere amato. Si tratta di mostrare come il Signore Gesù, il Kyrios, risponda pienamente a tale attesa, chiamando ad un’esistenza di amore, accolto, donato, condiviso.

 

Rispondere alle istanze del contesto odierno

Il cristocentrismo vocazionale di cui si parla si coniuga perfettamente con la necessità di rispondere alle attese del contesto odierno. Ed è questa una terza ragione per cui è opportuno valorizzare il modello cristocentrico. Di fatto, i nostri ambienti parrocchiali sono frequentati – oltre che dai fanciulli da iniziare – quasi soltanto da pensionati e casalinghe di una certa età, mentre la stragrande maggioranza dei giovani e la parte più attiva della popolazione (dai 20-25 anni ai 50-55) è per lo più assente o non si identifica con la nostra prassi. Si tratta solo di un fatto di cattiva volontà o c’è dietro il problema del come viene presentato oggi il messaggio cristiano? Perché tanti giovani – spesso desiderosi di impegnarsi – si orientano alle spiritualità orientali, ai gruppi esoterici, alla new age, nest age e così via?

Non ritengo giusto pensare che si tratti solo di un fenomeno di moda o di una mancanza di generosità da parte dei giovani: il diffondersi delle nuove sette è legato, in gran parte, alla presentazione di un cristianesimo infantile, separato dalla vita, incapace di attirare e di coinvolgere i giovani in modo “fascinoso”. Se tutto questo corrisponde al vero, non è più sufficiente parlare di vocazione in prospettiva ecclesiologica; si richiede uno spostamento in chiave cristologica. Si richiede il ritorno all’annuncio di Gesù di Nazareth come il Signore e il Maestro ed il coraggio di un pieno recupero di quel cristocentrismo evangelico, paolino e giovanneo, che permette di interpretare tutta la realtà, compresa la nostra identità corporea, il nostro “esserci” e il senso del cosmo e della storia. Solo per questa via è possibile offrire una convincente proposta vocazionale.

Non si tratta evidentemente di limitarsi ad elaborare una verifica sulle diverse metodologie di annuncio, ma di domandarsi come annunciare Gesù, il Redentore dell’uomo e del mondo, alle nuove generazioni e come farlo riscoprire, e far riscoprire – come suggeriva già il documento “Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle chiese particolari” del ’92 – “il fascino esercitato sui giovani dalla persona del Cristo, dal suo stile di vita e dalla sua sequela radicale” (n. 79).

La proposta è talmente semplice da sembrare ovvia, eppure è l’unica: tornare al cristocentrismo del NT, recuperandolo come fondamento decisivo e peculiare di una rinnovata teologia della vocazione e come paradigma di ogni strategia di pastorale vocazionale[1].

 

Il modello della “Pastores dabo vobis”

Un’autorevole conferma a quanto detto finora ci viene dall’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis: pur essendo direttamente riferita alle vocazioni sacerdotali, l’Esortazione offre delle linee indicative che corrispondono perfettamente al cristocentrismo vocazionale di cui stiamo parlando. La sezione che ci interessa è la IV (nn. 34-37) che risulta strutturata secondo quattro grandi icone:

– L’icona di Cristo che passa e chiama (Gv 1,35-42).

Il gesto è riletto come esemplarità del “mistero di ogni vocazione”: «La Chiesa, quale comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata a fissare il suo sguardo su questa scena che, in qualche modo, si rinnova continuamente nella storia… La Chiesa coglie in questo “vangelo della vocazione” il paradigma, la forza e l’impulso della sua pastorale vocazionale» (n. 34). Una direttiva di fondo di notevole significato.

– L’icona della Trinità come fonte e modello della Chiesa, comunità di convocati alla sequela di Cristo.

 La chiamata di Cristo che passa rimanda alla Chiesa come comunità di convocati, chiamati a riconoscere il mistero di DioTrinità e a farsi specchio fedele dell’amore trinitario.«La Chiesa non solo raccoglie in sé tutte le vocazioni che Dio le dona nel suo cammino di salvezza, ma essa stessa si configura come mistero di vocazione (mysterium vocationis), quale luminoso e vivo riflesso del mistero della Trinità santissima» (n.35). Ogni vocazione “sussiste nella Chiesa e per la Chiesa” in quanto dono di grazia, (gratia gratis data / charisma), per l’edificazione della Chiesa e la sua crescita (n.35).

– L’icona della vocazione dei Dodici presso il monte.

Dopo questa seconda icona, che risale alle origini trinitarie della Chiesa stessa e di ogni vocazione nella Chiesa, la Pastores dabo vobis ritorna all’orizzonte cristologico, affermando come la storia di ogni vocazione cristiana – e in particolare di ogni vocazione speciale – è “un dialogo ineffabile tra l’amore di Dio che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore risponde a Dio”.

Una storia illustrata dalla Pastores in riferimento alla pericope marciana: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui” (Mc 3,13), dove sono avvertibili i due poli di ogni chiamata: da un lato, la decisione assolutamente libera di Gesù; dall’altro, l’andare dei Dodici, ossia la libera adesione dei discepoli di mettersi al seguito di Gesù (n. 36).

– L’icona dell’oblazione libera di Gesù sulla croce

Citando Paolo VI, Giovanni Paolo II ricordava come la vocazione sia “la voce umile e penetrante di Cristo che dice, oggi come ieri, più di ieri: vieni” (n. 36). La risposta a questa voce richiede un’adesione cosciente e totale. La libertà è posta di fronte ad un’opzione decisiva, quella della generosità e del sacrificio. «L’oblazione libera, che costituisce il nucleo intimo e più prezioso della risposta dell’uomo a Dio che chiama, trova il suo incomparabile modello, anzi la sua radice viva, nell’oblazione liberissima di Gesù Cristo, il primo dei chiamati, alla volontà del Padre: “Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”, Eb 10, 5-7» (n. 36).

La Pastores dabo vobis rappresenta un passaggio di grande rilievo per il discorso teologico della Chiesa e conduce a chiederci, in particolare, se le quattro icone non possano costituire un itinerario organico, cristologico-trinitario-ecclesiale, per l’elaborazione di un’approfondita teologia vocazionale. Personalmente ritengo che la risposta possa essere affermativa, anche se occorre inserirle in un quadro cristocentrico più ampio che faccia rivivere il Gesù dei Vangeli per l’oggi dei giovani e dei credenti e riscopra la visione cristologica, giovannea e paolina, in prospettiva cosmica e storico-salvifica. Un quadro che sia in grado di far uscire il discorso vocazionale dalle strettoie in cui è spesso collocato e recuperando il mistero della vita e della storicità dell’uomo come vocazione all’incontro col Cristo (cf GS 22), nel quale tutto è stato fatto e nel quale tutto riceve il suo significato ultimo, essendo l’Unigenito incarnato, morto e risorto “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà” (GS 45).

 

Quale cristologia della vocazione?

Quali possono essere le coordinate maggiori di un simile ritorno al modello cristocentrico? La risposta può essere data secondo vari approcci. Personalmente, allo scopo di evitare sia la genericità che un’eccessiva analiticità, mi limiterò – in questa sede – ad enunciare cinque piste indicative di lavoro:

– Cristocentrismo vocazionale come sequela radicale di Gesù, il Maestro e Signore.

– Cristocentrismo vocazionale come riconoscimento della centralità storico-salvifica di Cristo nella storia.

– Cristocentrismo vocazionale come signoria cosmica del Risorto, il Kyrios,vivente in eterno.

– Cristocentrismo vocazionale come “vita nuova nello Spirito”.

– Cristocentrismo vocazionale come protagonismo dei battezzati nella Chiesa.

Cinque coordinate da vedere come una traccia d’insieme, bisognosa ovviamente di sviluppi e di verifiche ulteriori; utile tuttavia per l’elaborazione di una teologia della vocazione che faccia unità dei diversi modelli sviluppati nei documenti della Chiesa, recuperandoli in una sintesi vitale, che conduca al tempo stesso ad un salto qualitativo nel modo di annunciare il senso della chiamata battesimale e di ogni chiamata nella Chiesa. Le linee che presento non presumono di essere nuove per coloro che sono presenti a questo incontro, ma solo indicative, nell’ottica di un eventuale successivo studio o documento di lavoro.

 

1) Cristocentrismo vocazionale come sequela radicale di Gesù, il Maestro e Signore

Una prima coordinata, anche tenendo conto del contesto giovanile di oggi, concerne l’istanza di un cristianesimo come esperienza forte, che conduca ad una scelta totalizzante di vita e di sequela Christi, in grado di superare un cristianesimo mediocre, stanco o di mera tradizione. Non è questo l’itinerario proposto dai Sinottici?[2]. Non è questo, in particolare, il filo rosso del Vangelo “catecumenale” di Marco e di quello “catechetico” di Matteo? Entrambi i Vangeli ci richiamano ad un discepolato esigente che richiede il “tutto” e il “per sempre”: una risposta pronta, totale e definitiva, davanti al Cristo che passa e chiama, senza mezze misure, senza compromessi o scorciatoie.

Marco, come è risaputo, scrive un Vangelo che vuole essere una sorta di itinerario catecumenale alla sequela di Gesù: una memoria dell’esperienza vissuta dalla comunità originaria dei discepoli, passando per il “segreto messianico”, fino al riconoscimento di Gesù Cristo come il Figlio di Dio (Mc 1,1); una memoria da rivivere nelle stesse comunità provenienti dal paganesimo come esperienza di incontro e di riconoscimento del Signore (Mc 15,39).

Matteo segue la medesima traccia, ma l’arricchisce di una cornice di ordine catechetico, unendo i cinque grandi discorsi o sezioni didattiche che fanno da sfondo e da contesto interpretativo alle corrispondenti sezioni narrative. Seguire Gesù è mettersi alla sua scuola, come discepoli del Maestro che chiama e istruisce i suoi, accettando di passare dalla vecchia alla nuova economia come veri discepoli del Regno. Secondo lo spirito delle beatitudini e del discorso della montagna il discepolato implica la totalità della vita, compresa la persecuzione e il martirio. Riconoscere Gesù come Messia e Figlio di Dio e accogliere il suo messaggio sono un tutt’uno; entrambi richiedono di seguire Gesù fino alla croce, fino all’oblazione di sé, sul suo esempio. È per questo che, secondo il giudizio finale matteano, sussiste una piena identità tra il riconoscere Gesù e il farsi vicino a chi è nel bisogno; mai l’uno senza l’altro.

In tutti e tre i Sinottici uno speciale rilievo viene dato ai racconti della passione. Il Gesù che muore è colui che fa morire una concezione trionfalistica o “miracolistica” di Dio e rivela l’immagine di un Dio di compassione che liberamente si autodona, si autoconsegna per puro amore, perché l’uomo possa essere salvato e riceva i doni della Pasqua. Il non scendere di Gesù dalla croce e il non intervenire del Padre in favore del Figlio crocifisso (Mt 27,42-43) esprimono una verità fondamentale sull’uomo: veramente libero è colui che è capace di assumere con amore la propria vita e farne dono agli altri alla presenza del Padre. È qui che la libertà raggiunge la sua piena realizzazione: quando l’uomo si fa “oblazione”, quando la sua esistenza diviene pro-esistenza.

 

 

 

2) Cristocentrismo vocazionale come riconoscimento della centralità storico-salvifica di Cristo nella storia

La seconda coordinata si orienta alla comprensione di un cristocentrismo vocazionale come riconoscimento della centralità storico-salvifica di Cristo

nella storia umana. Il bisogno di una visione della storia che dia senso al nostro “esserci” e ci sottragga al vuoto esistenziale o al senso di inutilità, è una delle più forti istanze del cuore umano, specialmente nei giovani.

Il cristianesimo si presenta come una grande teologia della storia che trova in Gesù di Nazareth e nella sua pasqua il centro paradigmatico e l’esegesi definitiva del divenire storico-temporale e del mondo. Non è questa la prospettiva di fondo dell’opera unitaria di Luca (Vangelo + Atti)? Cristo, evento suscitato dallo Spirito nel grembo di Maria, rappresenta il centro della storia universale, come appare dalla sua genealogia, da Adamo alla pienezza dei tempi (Mt 1,23-37), dalla nascita di Gesù a Betlemme alla sua resurrezione e ascensione al cielo (Lc 24, 44-52), con la missione affidata agli apostoli di essergli testimoni, cominciando da Gerusalemme (Lc 24,47; At 1,8). La Chiesa, evento suscitato dallo Spirito a pentecoste, si pone in cammino nella storia come comunità che crede, celebra, vive il mistero del Signore Gesù e lo testimonia “fino all’estremità della terra”. E tale è il senso del dittico Vangelo + Atti.

Assieme alla ripresa della sequela radicale di Gesù, propria anche degli altri Vangeli, e alla sottolineatura specificamente lucana della rivelazione del volto misericordioso di Dio (Lc 15), Luca offre una teologia della storia della salvezza che vede l’accadimento della venuta del Figlio di Dio come il compimento centrale della storia totale e l’inizio della chiamata di tutti i popoli alla salvezza. Una prospettiva cristocentrica di grande respiro: Gesù, il Cristo, il Risorto che invia lo Spirito sulla Chiesa rappresenta l’éschaton definitivo e la chiave interpretativa dell’intera vicenda umana. La comunità ecclesiale appartiene a questo éschaton e ne è la testimonianza vivente tra le genti: una grande weltanshauung grazie a cui la storia rivela il suo orizzonte ultimo e riceve il suo senso definitivo.

 

 

 

3) Cristocentrismo vocazionale come signoria cosmica del Risorto, il Kyrios, vivente in eterno

Con questo interrogativo entriamo nella terza coordinata da porre in evidenza: la signoria cosmica del Risorto, il Kyrios, vivente in eterno.

Una delle ragioni del successo delle spiritualità asiatiche (in particolare il buddismo) ed esoteriche tanto in voga oggi, è dato dal loro riferimento all’incontro quasi “mistico” con la natura e l’assunzione della corporeità come luogo di armonia con il creato e le sue energie, in una sorta di fusione più o meno panteista con la materia, per arrivare all’Atman o al Nirvana, all’unità e alla trasparenza.

Il punto forte di queste spiritualità è l’illusione che offrono di poter raggiungere una sorta di pace del proprio essere e di armonia con le forze della natura. La prospettiva cristocentrica di Paolo offre una visione ben più alta di questo panteismo esoterico. Bisognerebbe rifarsi qui ai grandi inni paolini (ad esempio l’inno della lettera agli Efesini, l’inno della lettera ai Filippesi, l’inno presente nella lettera a Timoteo) o al prologo giovanneo.

Mi limito solo, con qualche cenno, all’inno della lettera ai Colossesi (Col 1,13-20). L’inno è diviso in due parti: la prima mostra l’opera del Padre nel Figlio in relazione alla creazione; la seconda proclama la nuova creazione operata nel Cristo, primogenito di ogni creatura. Sono due grandi quadri di un unico dittico: Cristo nella creazione e Cristo inizio della nuova creazione.

È un’unica storia, già inaugurata in Cristo, nel quale abita ogni pienezza e che ne è il centro e il vertice finale. Non solo genericamente, ma concretamente: tutto è stato creato per mezzo di Cristo, in Cristo, e in vista di Cristo (dià, en, eis).  La creazione va interamente compresa in relazione a Gesù Cristo: nella sua origine, nel suo essere e nella sua destinazione ultima. La redenzione di Cristo è la rivelazione del senso definitivo della storia dell’universo e l’inaugurazione della creazione escatologica.

 

 

Lo stesso vale per la corporeità: basta un semplice confronto con le spiritualità orientali per rendersi conto del paradosso in cui ci troviamo. Le religioni asiatiche passano per religioni che affermano il significato positivo del corpo; il cristianesimo per una religione dominata da una visione tabuistica. In realtà è esattamente l’opposto. In forza della credenza orientale nella reincarnazione, il corpo è solo un veicolo di passaggio: “oggi, ho questo corpo, in una nuova vita ne avrò un altro, superiore o inferiore in rapporto alla legge del karma”. Ben diversa è la concezione cristiana: il corpo è dono della creazione ed è ridonato intatto nell’incarnazione redentiva del Cristo; è divenuto tempio dello Spirito (1Cor 6, 12-20) ed è destinato a risorgere con Gesù Risorto e a partecipare glorificato alla gloria dei redenti, descritta dall’Apocalisse. Una teologia della corporeità elaborata negli anni ‘80 da Giovanni Paolo II che sarebbe quanto mai opportuno riprendere e ri-annunciare, per liberare da ogni percezione fobica l’annuncio cristiano sul significato del corpo[3].

 

 

La proclamazione di “Gesù Signore” (Kyrios Jesus) rappresenta il valore primario e centrale dell’annuncio neotestamentario (Fil 2,10-11). Non è questo il cuore del kerigma della comunità delle origini? La vittoria di Cristo connota in profondità la fede della Chiesa del NT. L’éschaton della Pasqua indica una frattura nella storia, tra il tempo che viene prima di Cristo e il tempo che è dopo. Niente avrà mai tanta rilevanza per la condizione umana quanto la risurrezione di Gesù. Tutto è ormai sotto il segno della sua gloria pasquale. Il Risorto è il vivente nei secoli eterni: il cristianesimo consiste in questo straordinario proclama.

Già i Sinottici evidenziano la signoria di Cristo, quando lo presentano come il Risorto ascendente al cielo (si pensi alla conclusione del Vangelo di Matteo o del Vangelo di Luca); ma sono soprattutto il Vangelo di Giovanni ed il corpus paolino a porre in evidenza il significato cosmico degli eventi pasquali.

Secondo la prospettiva giovannea, la morte di Gesù è già l’inizio della sua glorificazione, con l’inaugurazione della riconduzione di tutto verso di Lui (Gv 3,13-15). Se l’incarnazione è stata la manifestazione dell’escatologia nella storia, la Pasqua rappresenta l’ingresso della storia nell’escatologia: dal Padre al mondo, dal mondo al Padre. La cristologia del prologo del quarto vangelo proclama che la venuta dell’Unigenito nel mondo non è un avvenimento estraneo al contesto del mondo; al contrario, è la rivelazione e il recupero pieno di un cosmo che già gli appartiene. L’Unigenito incarnato, infatti, è al tempo stesso il Logos creatore per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla sussiste (Gv 1,3) e Colui che si fa “carne” (1,14) e dona la grazia al mondo (1,16-17). L’innalzamento sulla croce segna l’inizio del ritorno di tutto verso il Padre (Gv 12,32-33) ed è l’inizio sorgivo dell’effusione dello Spirito sulla Chiesa (Gv 19,30).

La cristologia paolina approfondisce ulteriormente la signoria universale del Signore Gesù. Basta pensare alla scala cosmica enunciata in 1Cor 3,22-23: “Tutto è vostro, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia il presente, sia il futuro; tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio”.

Oppure alla grande prospettiva della anakefalaiosis paolina (Ef 1,10): Cristo è la “pienezza” (pleroma), il centro e il fine definitivo del senso dell’universo e della storia. La creazione è compresa in relazione a Gesù Cristo: nella sua origine, nella sua significazione e nella sua destinazione ultima.

La salvezza che il Redentore apporta non si colloca a metà strada tra il cielo e la terra, ma concerne la riconciliazione del cielo e della terra e rappresenta l’inaugurazione della creazione escatologica. Una cristologia cosmica perfettamente riassunta in quella bella antifona dei Vespri nella quale proclamiamo: “Il disegno del Padre è di fare di Cristo il cuore del mondo”.

Una cristologia magnificamente rappresentata dai grandi mosaici gotico-romanici e bizantini, nei quali il Kyrios ascendente al cielo appare al centro della Chiesa (raffigurata da Maria, dai martiri e dai santi) e al vertice del creato (raffigurato dai festoni, dalla flora e dalla fauna). Una cristologia quasi del tutto assente dalla nostra abituale predicazione: è questa l’amara considerazione che non ci si può esimere dal fare!

 

 

 

4) Cristocentrismo vocazionale come “vita nuova nello Spirito”

In stretto rapporto con la tematica appena enunciata, si pone il discorso dell’unità radicale tra l’essere stati creati in Cristo Gesù, l’essere stati ri-creati in lui nella redenzione e la “vita nuova nello Spirito” sgorgata dal battesimo come una nuova esistenza. In Cristo è stata ormai inaugurata la nuova creazione promessa dal Deutero-Isaia (Is 43,18-19 con 2Cor 5,17). In lui siamo divenuti “nuove creature” (Gal 6,15). Il bagno battesimale è infatti “bagno di ri-creazione” (Tt 3,4-6) che ci rende partecipi della vita dello Spirito che il Risorto ha inviato sui suoi (Rm 8, 9-11).  La vocazione cristiana discende dall’essere diventati “uomini nuovi” nell’Unigenito incarnato e nell’effusione del suo Spirito. Il battesimo è l’evento fontale di questa vocazione come “vita nuova nello Spirito”, con i frutti che la caratterizzano.

La “vita nuova nello Spirito” è il fondamento delle scelte etiche del cristiano. Va collocata in questo ambito la relazione tra fede e morale. Come è noto, le lettere paoline sono in genere strutturate in due parti: la prima centrata sull’indicativo (“sei una nuova creatura”; “sei risorto con Cristo Gesù”); la seconda sull’imperativo (“vivi da nuova creatura”, “vivi da risorto”). Una relazione compendiata nell’affermazione paolina: “Se siete risorti con Cristo, vivete da risorti”. La “vita nuova nello Spirito” rappresenta un contenuto essenziale della formazione umano-cristiana dei giovani, delineata perfettamente dallo stesso Documento base della catechesi, dove si spiega che “dal Signore risorto e gloriosamente asceso al cielo, primogenito dei morti, si riversa su tutti lo Spirito che dà la vita. Con la sua risurrezione ha inizio la piena redenzione di tutto il Corpo, la Chiesa. Dio ci ha con-vivificati e con-risuscitati con Cristo, noi morti a causa del peccato, per farci sedere con Lui nella vita eterna” [4].

Dall’essere nuove creature nello Spirito, deriva il poter essere e il dover essere ciò che si è diventati una volta per sempre (“Cristiano, diventa ciò che sei!”, dicevano i Padri): dalla teologia della grazia la novità della vita in Cristo e del camminare secondo lo Spirito. Il tema della vocazione universale alla santità e quello della dimensione “mistica” del cristianesimo si situano entro questo fondamentale quadro di riferimento. Due direzioni a cui non è inutile volgere, per un momento, la nostra attenzione per un rinnovato annuncio vocazionale.

 

 

In questo duplice ambito – lancio una provocazione – perché non far riscoprire la preghiera del Nome di Gesù come preghiera che unifica la nostra persona, orientandola verso il Signore Gesù, ed educa chi la pratica alla custodia dei sensi, della mente e del cuore? [6].

 

5) Cristocentrismo vocazionale come “soggettività attiva” nella “historia salutis”

Un’ultima coordinata riguarda l’affermazione del protagonismo personale e di corresponsabilità dei battezzati nell’attuazione del mysterion tou Theou, il grande progetto salvifico nascosto in Dio dall’eternità, rivelato in Cristo Gesù e dispiegato dalla Chiesa, fino al suo compimento finale. Secondo la teologia paolina e giovannea, i cristiani non sono dei semplici spettatori della storia della salvezza: vi sono coinvolti in prima persona, e lo sono sia aprendosi ai doni che la storia salvifica apporta, sia accettando di collaborarvi.

Cristo Gesù, il Risorto, rappresenta la prolessi, l’anticipazione del futuro, ma questo futuro è da costruire, in una situazione di “teodramma” cui nessun battezzato può sottrarsi. La vittoria di Cristo è ormai data, ma solo nella parusìa sarà visibilmente compiuta. In questo fra-tempo sussiste una lotta, perché la gloria del Kyrios riempia la storia ed il cuore dell’umanità e si realizzi il futuro di Dio.

L’Apocalisse rappresenta un saggio di questo “cristocentrismo teodrammatico” che colma il tempo intermedio, il tempo della Chiesa, come tempo tra le due venute, ed evoca la soggettività attiva dei redenti nella vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre, della grazia sul peccato. Sussiste una profonda corrispondenza tra la vocazione cristiana e l’attuazione della storia della salvezza nell’oggi della Chiesa.

In forza del battesimo, i cristiani – e la chiamata ai diversi ministeri nella Chiesa – entrano a far parte del medesimo dinamismo. La ministerialità battesimale – e ogni ministerialità nella Chiesa – appartiene, per usare il linguaggio di H. U. Von Balthasar, all’ordine delle “persone teologiche”. I battezzati e i singoli chiamati sono persone teologiche: è in essi, con essi e mediante essi che si dispiega e si attua l’historia salutis nel grembo della storia totale dell’umanità, in cammino verso quei cieli nuovi e quella terra nuova di cui parla in anticipo l’Apocalisse. Tutto questo è particolarmente vero per coloro che tra i battezzati sono chiamati ad un compito speciale di profezia ministeriale (il ministero ordinato e la vita consacrata): essi sono l’espressione forte di una forma di esistenza che assume l’estensione stessa della profezia di Cristo, la rivela e la compie nel tempo attuale.

 

 

 

6) Unità tra le cinque coordinate cristologiche

Si tratta, ovviamente, di piste solo indicative, indubbiamente insufficienti rispetto alle “insondabili ricchezze” di Cristo, “all’ampiezza, alla lunghezza, all’altezza e alla profondità” del suo mistero (Ef 3, 5-8). Ritengo tuttavia che esse possano divenire utili e orientative come orizzonte di fondo per la riscoperta di un itinerario teologico vocazionale che:

-muova dalla figura storica di Gesù di Nazareth;

-arrivi al riconoscimento di lui come il “punto focale” della storia (GS 22);

-e lo riconosca come il Vivente in eterno (Eb 13,8), l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine (Ap 1,8). Non andava forse in questa precisa direzione l’impostazione della prima Enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, oggi più attuale che mai? Affermava infatti:“Il Redentore dell’uomo, Cristo Gesù, è il centro del cosmo e della storia. A lui si rivolgono il mio pensiero e il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l’intera famiglia dell’umanità contemporanea stanno vivendo” (RH 1). Il documento pontificio proseguiva, in linea con la GS, spiegando come Cristo riveli la vocazione più alta dell’uomo (nn. 11 e 18) e come la missione della Chiesa sia radicalmente inscritta in quella del Signore Gesù e del suo Spirito (n. 21). “L’uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo deve, con tutta la sua inquietudine e incertezza, avvicinarsi a Cristo: entrare in Lui con tutto se stesso, assimilare tutta la realtà dell’incarnazione e della redenzione per ritrovare se stesso” (RH 10). 

Parlare di modello cristologico significa riferirsi a quest’impostazione. “Niente di nuovo sotto il sole”, osserverà qualcuno. Sta di fatto che nei modelli di teologia vocazionale che fanno da base all’attuale pastorale vocazionale questo modello non risulta formulato in termini diretti, pur essendo costantemente sottinteso o dato per presupposto. Forse nei decenni passati è stato sufficiente limitarsi ad enucleare i fondamenti ecclesiologici della vocazione cristiana. Oggi non è più così: si richiede un recupero esplicito del paradigma cristologico. Personalmente ritengo sempre valido lo schema che si utilizzava negli anni ‘70-‘80: vocazione alla vita, vocazione alla grazia, vocazione al dono di sé, diversamente formulato. Si tratta semmai di integrarlo in un quadro più direttamente cristologico. L’impostazione degli anni ‘70-‘80, al di là delle singole configurazioni con cui veniva proposta, presenta almeno due pregi fondamentali: il primo risiede nel proclamare l’unità radicale che sussiste tra la vocazione naturale alla vita, la vocazione soprannaturale a Cristo e le diverse vocazioni ministeriali nella Chiesa e nel mondo. 

Il secondo pregio sta nel poter motivare la vocazione speciale sul fondamento della vocazione all’amore inscritta nell’essere stesso di ogni uomo, pienamente rivelata in Gesù Cristo. È quanto già appariva dal documento Nuove vocazioni per una nuova Europa del 1998, dove si muoveva dal principio che non esiste alcun essere umano “senza vocazione” (NVNE 11c) dal momento che la vita è già il segno di una scelta divina, di un’elezione d’amore. “In questa prospettiva una cosa è da escludersi: che l’uomo possa considerare l’esistere come una cosa ovvia, dovuta, casuale… Il semplice fatto di esserci dovrebbe anzitutto riempire di meraviglia e di gratitudine immensa verso Colui che in modo del tutto gratuito ci ha tratti dal nulla pronunciando il nostro nome”.

Aggiungeva il documento: “La percezione che la vita è un dono, assieme ad un atteggiamento riconoscente, dovrebbe gradualmente suggerire la prima grande risposta alla domanda fondamentale di senso: la vita è il capolavoro dell’amore creativo di Dio ed è in se stessa una chiamata ad amare. Dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato” (NVNE 16b).

Dire “sì” alla vita è dire “sì” a Dio che chiama, e chiama ad amare. Viene affermata, in questo modo, una vocazione di Dio nascosta nelle aspirazioni più profonde di ognuno di noi. Accogliere la vita e il suo tendere verso “un di più” è già una prima risposta a Dio che ci dona continuamente a noi stessi, aprendoci alla scoperta del suo progetto; una chiamata universale che trova la sua rivelazione e la sua intelligenza ultima nell’incontro con il Figlio di Dio fatto uomo, nel quale tutto è stato creato e nel quale tutto trova il suo di-svelamento e il suo compimento ultimo, come notava il documento su citato, ai nn. 17-18.

“Vocazione” è, sotto questo profilo, divenire sempre più coscienti che l’identità di ognuno di noi, già data con il dono dell’esistenza, è nascosta nel volto di Cristo e in questo volto si rivela il nostro. È dentro questa scoperta che la persona umana, nello Spirito e nell’ascolto della Parola di Dio, diviene capace di individuare il nome proprio che Dio-Trinità le ha dato e di rispondervi secondo la sua vocazione specifica. Una medesima prospettiva, sia pure in forma più breve, riappare negli “Orientamenti emersi dai lavori della XLVI Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana”, del 1999:

“La vita non è avventura solitaria, ma dialogo, dono che diventa compito. Creato a immagine di Dio, l’uomo è chiamato a dialogare con lui, a conoscerlo, amarlo, incontrarlo, per condividere infine la sua vita nell’eternità…Vera libertà è solo quella che ci fa crescere fino alla pienezza definitiva: essa consiste nell’aderire alla verità e nel compiere il bene. Ogni singola esistenza umana, lungo il suo svolgersi, è contrassegnata da precisi appelli di Dio: alla vita, alla fede, alla condivisione della missione della Chiesa. Ogni giorno ci è dato per rispondere alla nostra vocazione, fino alla chiamata definitiva nell’incontro con il Risorto, oltre la fatica della fede” (n. 6).

 

Interrogativi aperti

L’opzione cristologica consente di aprirsi a spazi vocazionali nuovi o rinnovati, recuperando i modelli di annuncio vocazionale in un’organica unità. Non tutto, ovviamente, diventa subito chiaro; molti aspetti restano da determinare ed esigono ulteriori riflessioni, ma la strada intravista può condurre a mete feconde.

Quali gli interrogativi, oltre a quelli già indicati, che esigono ulteriori approfondimenti e risposte?

 

Teologia della “vocazione” o teologia delle “vocazioni”?

Un nodo prioritario, ancora oggi aperto, concerne il rapporto che sussiste tra teologia della vocazione e teologia delle vocazioni. Come considerare questo rapporto?

Il modello cristologico consente di superare ogni forma di dicotomia e di vivificare il rapporto vocazione-vocazioni, arricchendolo sotto un duplice aspetto:

– orientare a superare un modello di teologia del ministero ordinato e di teologia della vita consacrata più incentrato sulla dialettica “sacro-profano”, tipica delle religioni e in parte dell’ebraismo, che sull’éschaton unico di Gesù Cristo e sulla novità assoluta della sua pasqua: il ministero di Gesù è un ministero della vita che si fa oblazione in prima persona sulla croce. Lo stesso vale per la vita battesimale (culto spirituale) e per le diverse ministerialità nella Chiesa;

– indirizzare a recuperare il significato della vocazione speciale in un quadro antropologico più attento alla persona e ai suoi dinamismi, al significato della corporeità sessuata, dei sensi e dei sentimenti, e della maturità umana ed affettiva, all’interno della vocazione nativa e fondamentale della creatura umana all’amore e alla comunione (FC 11), vedendo in Cristo, nuovo Adamo, il prototipo e il modello esemplare di ogni chiamata.

 

La cristologia vocazionale tra “appello interiore”e motivazioni

Un problema più specifico cui la riflessione teologica è chiamata a dedicare più attenzione riguarda il rapporto della vocazione comune alla vita in Cristo con la vocazione specifica come “appello interiore” di Gesù che s’impone alla coscienza del chiamato; “appello interiore” inteso come “impulso forte”, “emozione privilegiata”, “luminosa certezza”.

Non mi pare che un simile rapporto sia stato approfondito a sufficienza, almeno a livello tipicamente teologico. I documenti vocazionali della Chiesa lo ignorano quasi del tutto. Solo nella Pastores dabo vobis sono reperibili dei cenni, anche se abbastanza vaghi e generici. Eppure è qui che si decidono il mistero ed il senso profondo della vocazione.

 

 

La cristologia della vocazione come progetto di vita

In corrispondenza degli interrogativi appena posti si situa la questione del rapporto tra la chiamata come appello interiore, le motivazioni e un progetto di vita radicale come quello evangelico del discepolato.

Io so chi sono e sono in grado di ritrovare la mia identità di persona e il senso più alto della mia vita solo alla luce di Gesù di Nazareth, l’Unigenito incarnato che “non solo rivela il Padre e il suo amore all’uomo, ma svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli manifesta la sua altissima vocazione” (GS 22).

 

 

 

Conclusione

Gli interrogativi posti sono solo alcuni tra i tanti che si possono formulare. Le risposte non sono affatto ovvie. Si ha anzi l’impressione che questioni come quelle segnalate siano lasciate solo, se non esclusivamente, ai direttori di spirito o agli psicologi, quasi che la riflessione teologica non abbia niente da dire. È significativo che la voce “vocazione”, presente in tutti i Dizionari di teologia biblica, di spiritualità e di morale, risulti generalmente assente in quelli di dogmatica. Evidentemente non la si ritiene degna di sviluppi teologici in senso stretto.

La verifica condotta in questa relazione dimostra esattamente il contrario: c’è da ripartire da Cristo per raccogliere in unità quanto è stato sviluppato finora e sviluppare una cristologia della vocazione che rinnovi la pastorale vocazionale e la renda capace di rispondere alle sfide del terzo millennio e di un mondo giovanile ampiamente secolarizzato, oltre che fragile sul piano delle strutture psicologiche.

Ci auguriamo di poter mettere in atto le nostre migliori risorse in questa direzione, con una riflessione teologica adeguata alle nuove esigenze.

Una teologia vocazionale debole, infatti, genera una pastorale vocazionale altrettanto debole.

 

Note

[1] Una buona prospettiva cristocentrica era presente già nel Documento-base della CEI, Il rinnovamento della catechesi, del ’70, riconsegnato alle comunità ecclesiali italiane nel 1988. Personalmente, non ho l’impressione che i catechismi pubblicati successivamente lo siano stati altrettanto.

[2] Sul tema del radicalismo evangelico, tra gli innumerevoli studi, rimando a T. MATURA, Il radicalismo evangelico. Alle origini della vita cristiana, Roma 1981.

[3] GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1985. Cf a riguardo, C. ROCCHETTA, Per una teologia della corporeità, Torino 1993.

[4] CEI, Il rinnovamento della catechesi, Roma 1970; testo riconsegnato nel 1988, n. 67.

[5] Si può vedere, per un rapido sguardo: C. ROCCHETTA, “Grazia” in Dizionario di Pastorale Giovanile, Leumann (TO) 1984.

[6] C. CARRETTO (ed), Racconti di un pellegrino russo, Assisi 1989; C. ROCCHETTA, L’invocazione del nome di Gesù, Bologna 2002.